(a una sorella morta)

Nel giardino frusciavano alte le piante di granoturco con le pannocchie gonfie di chicchi e chiome fluenti color rame e oro. Il giardino della casa dei nonni era il mondo fatato di noi bambine appena venute fuori dalla guerra.
Lapilli dell’eruzione del Vesuvio del 1943 coprivano il suolo del paese.
Chilometri ci separavano da Napoli e noi salernitani ci consideravamo molto diversi dai napoletani: eravamo “gli svizzeri” della Campania per la solerzia nel lavoro e per l’anima Arpagonesca delle nostre genti.

Nella casa dei nonni materni vigeva una forma tenera di anarchia, una sana follia creativa, accompagnata da conoscenze di antiche magie. Doti che mi hanno salvato dalla noia e dalle tentazioni reazionarie insite nelle giovani vite di quel mezzo secolo del Novecento, appena uscito dall’oppressione tirannica del fascismo.

E’ stata per me la comprensione dello Stupore. L’eredità socialista veniva giù dalle coscienze dei miei antenati: bellicosi normanni e geniali ebrei marrani, piegatisi al cristianesimo per convenienza.
Da Giacomo Budetta (dal normanno Boudet) ingegnere, massone, socialista fino alla stirpe Crudele, industriali dell’alimentazione. Pastai, conservieri noti nella regione per la bontà dei prodotti.
Il mio bisnonno Budetta si è accompagnato per tutta la vita ad una “vedova bianca”, vale a dire una signora sposata ad un emigrato in cerca di fortuna in America e mai più tornato a casa.

Noi discendiamo da una coppia di fatto, da due peccatori agli occhi di Dio e di fronte alla coscienza dei più severi credenti.
Un’ eredità di socialisti miscredenti. Il mondo socialista accoglie con semplicità in quanto le sue regole sono solidarietà, eguaglianza e senso critico senza infingimenti moralistico-religiosi. Il mio cosmo infantile era composto dalla libertà di movimento accompagnata mano nella mano da una integrità di pensiero.

Così a dieci anni compresi di non poter accettare fedelmente l’esistenza di un Dio sconosciuto e palesemente a me ostile.
Laila, la mia adorata “pastora tedesca” era stata travolta da un camion e sulla strada centrale del paese, disseminati, c’erano i corpicini mai nati dei cuccioli che portava in grembo.
Rifiutai il rito della comunione e le sterminate regole di “ingaggio“ del cattolicesimo. C’è una foto delle mie due sorelle imbellettate davanti al Duomo di Pompei, raggianti nei loro abiti della festa in nome del Signore.
Fui una delle prime ragazzine evoluzioniste di quegli anni, o forse la prima in assoluto. Noi sorelle siamo vissute divise in luoghi lontani fino a quando i miei genitori son tornati in paese in seguito al lavoro di papà.

La mia solitudine di bambina “dimenticata“ fu sconvolta, avendo avuto in dono due nuovi esemplari umani da esaminare e forse amare.
La primogenita, Linda, si dava arie da signorinella e amava bullizzarci, ovvero “romperci le palle”. Soprattutto insultava me che le rispondevo con piglio omicida.
A difendermi, consolarmi e aiutarmi c’era sempre Marisa, detta Marisella “ciuccia ’e fichella” da papà che sosteneva che lei riuscisse a farsi male anche colpita da una foglia di prezzemolo. Marisa si buttava nella mischia e si buscava un sacco di mazzate, tirate di capelli e morsi al posto mio.
Credo che percepisse il mio malessere, forse perché anche lei aveva vissuto lontano dai genitori, a Roma con i nonni paterni, da me mai conosciuti, o forse per un innato temperamento solidale verso i più deboli.

In quegli anni postbellici si preferiva fittare casa a famiglie senza figli. Non riesco a comprenderne la ragione, ma certo ha complicato la vita a molte persone.

C’era un albicocco nel giardino dei nonni. Un albero dai fiori rosa che cresceva sulle rive scoscese di un canale di acque perenni che dividevamo con il nostro vicino, Il Podestà.  Era un albero bellissimo, una figura che in mitologia avrebbe rappresentato la miracolosa armonia della natura. Dentro quel ruscelletto artificiale si svolgeva il gioco dei “pescatori di frasche“, il greto del fiumiciattolo era pieno di pietre e vetri e bisognava essere abili a non farsi male nel pescare i rami che navigavano veloci verso il nulla oltre il muro.
L’organizzatore ufficiale dei nostri giochi era nostro cugino Giuseppe figlio di Zia Giannina, sorella della nonna, separata dal marito e venuta da sola con i tre figli a vivere a casa dei nonni, proveniente da Bengasi.
nostro amatissimo dispensatore di sogni oggi sarebbe un nerd, un genialoide inventore di giochi, un creatore di mondi immaginari. Costruiva città minuscole tra le erbe alte con mattonelle come case, pietre levigate come abitanti e scatolette di cerini per automobili.
Ci parlavamo attraverso telefoni di latta uniti da lunghissimi fili di spago. Non sapendo com’erano fatti i veri telefoni.
Ci raccontava le trame e i personaggi dei libri di Salgari: Temanlàik e Sandokàn pronunciati con l’accento alla Napoletana, sull’ultima vocale.

E’ nata così la nostra storia di sorelle-amiche. Inseparabili, complici in lotta contro le ingiustizie. E’ stata bella la nostra stagione dell’infanzia.
Delle code delle pannocchie di mais ne facevamo trecce. Quando nell’adolescenza la mia famiglia si trasferì a Napoli potei rendermi conto di quanto contassero le lobby sociali in questo luogo.
Ero salernitana quindi “cafona“, quindi ridicola, indegna della grande città.
Sono sopravvissuta a tutto. Mia sorella ed io abbiamo pagato pegno per essere delle “straniere”.
Inoltre lei era bella, e questo si paga se sei una ragazzina: gli uomini non te lo perdonano mai.

In America, dove ha vissuto i suoi ultimi anni, suo marito italo americano la presentava agli amici repubblicani con un irrisorio “Ecco la mia moglie comunista”, quasi fosse un reperto archeologico scovato tra i resti di una casa Pompeiana.
Alla mia età, mi piace definirla vetusta, una sorella morta apre la porta grande, quella a doppi battenti della sala da pranzo “buona”, dove i balconi si affacciano a mare, dove le pareti, i pavimenti e gli arredi sono spogli.
Vuoti, pronti solo ai ricordi, quei pensieri all’indietro che cercano di aiutarti a vivere scodinzolando come amorevoli labrador.