Siamo arrivati alla conclusione di una delle serie più significative di questi ultimi anni, soprattutto per aver sdoganato un termine importante che è diventato ormai un genere: la distopia.
La sesta e ultima stagione di The Handmaid’s Tale, trasmessa su Hulu (in Italia per ora solo da Timvision) a partire da aprile di quest’anno, rappresenta la conclusione di un viaggio narrativo iniziato nel 2017.
La serie, ispirata al romanzo di Margaret Atwood, ha raccontato la distopia di Gilead attraverso gli occhi di June Osborne, interpretata magistralmente da Elisabeth Moss, oggi anche regista e parte importante del team creativo della serie.
Questa stagione finale si propone di chiudere le storie dei personaggi principali, offrendo al contempo una riflessione sulle tematiche di resistenza, maternità e potere.​ Dopo sei stagioni di dolore, resistenza e speranza, The Handmaid’s Tale chiude il cerchio con una narrazione finale tesa, riflessiva e, per certi versi, sorprendentemente intima.
L’adattamento televisivo del romanzo di Margaret Atwood si è evoluto in qualcosa di ben più ampio, abbracciando tematiche politiche e personali con uno sguardo feroce. Questa non è solo una conclusione: è un lungo addio alla distopia di Gilead e alle donne che hanno imparato a sopravviverle.

Ora tutto si apre con June e Serena in fuga verso l’Alaska, condividendo un viaggio carico di tensione e confronti emotivi.
June, dopo essere stata ferita, si ritrova in un insediamento di rifugiati dove, sorprendentemente, ritrova sua madre Holly, creduta morta. Parallelamente, Luke e Moira si uniscono attivamente alla resistenza, mentre Nick, liberato dopo un alterco con Lawrence, ritorna a New Bethlehem.
Vengono esplorate le dinamiche complesse tra i personaggi, evidenziando le loro evoluzioni e le scelte morali che affrontano.​ Il viaggio al nord non è solo geografico, ma profondamente simbolico.
L’incontro con una comunità di rifugiati dissidenti mostra una realtà diversa, in cui uomini e donne si ricostruiscono dopo Gilead, senza dimenticare, ma provando a vivere di nuovo.
Il riavvicinamento fra June e la madre diventa occasione per affrontare un’eredità di resistenza femminile che attraversa le generazioni.

La stagione finale approfondisce temi come la maternità, la redenzione e la lotta contro l’oppressione.
La maternità viene trattata non solo come funzione biologica (il pilastro ideologico di Gilead), ma come relazione politica ed emotiva. June, Serena, Lydia: tutte si confrontano con ciò che significa “essere madri” in un mondo che le ha trasformate in strumenti.
L’amore per i figli, il senso di colpa, l’istinto di protezione e la paura di perdere tutto: sono questi gli assi tematici attorno a cui ruota ogni decisione. June, simbolo della resistenza, si confronta con le sue scelte passate e le responsabilità future, mentre Serena cerca una nuova identità lontano dal regime che ha contribuito a creare.
La serie continua a interrogarsi sul significato della libertà e sulla capacità di perdonare, sia gli altri che se stessi.​
Altro tema fortissimo è quello della memoria: dei traumi, dei legami, delle ingiustizie subite. I personaggi non dimenticano, ma imparano a convivere con ciò che è stato.
Il trauma post-Gilead è onnipresente e incarna un tema più vasto e universale: come si sopravvive dopo essere sopravvissuti?

Elisabeth Moss porta una sensibilità particolare alla narrazione e già si poteva scommettere su di lei nel ruolo da protagonista secondaria in Mad Men. Le performance degli attori, tra cui Yvonne Strahovski (Serena), Ann Dowd (Zia Lydia) e O-T Fagbenle (Luke), contribuiscono a rendere la stagione intensa e coinvolgente.

La regia mantiene uno stile visivo coerente con le stagioni precedenti, utilizzando inquadrature claustrofobiche e una palette cromatica fredda per enfatizzare l’atmosfera oppressiva di Gilead. Proprio la fotografia è fredda e desaturata, soprattutto nelle scene ambientate in Canada o nel campo di rifugiati, mentre Gilead conserva quella patina di bellezza disturbante e opprimente.
Le inquadrature in primo piano di June, spesso sfocate o senza espansione, continuano a trasmettere lo stato emotivo interno della protagonista meglio di qualsiasi dialogo.

La sesta stagione di The Handmaid’s Tale offre una conclusione importante per una serie che ha saputo affrontare tematiche complesse e attuali.
Pur con alcune imperfezioni, la stagione riesce a chiudere le storie dei personaggi principali in modo coerente, lasciando spazio a riflessioni profonde sulla libertà, la giustizia e la resilienza umana.
Senza fare spoiler diretti, il finale riesce a evitare i cliché più facili. Non cerca la redenzione totale, né la giustizia assoluta. I personaggi non ottengono esattamente ciò che vogliono; ma forse ottengono ciò di cui hanno bisogno.
Non tutti i nodi vengono sciolti, e questo è coerente con l’universo narrativo creato da Atwood e Brooker: le ferite della tirannia non guariscono con un colpo di scena, ma con tempo, resilienza e relazioni autentiche.
Con la prospettiva di un sequel basato su The Testaments, l’eredità di The Handmaid’s Tale continua a influenzare il panorama televisivo e culturale contemporaneo.​
La sesta stagione di The Handmaid’s Tale è un epilogo meditato, che si prende il tempo di guardare negli occhi i propri fantasmi. Non cerca vendette spettacolari né utopie post-Gilead: punta al cuore.
È la storia di donne che hanno resistito all’annientamento e che ora devono imparare a vivere davvero.
Una conclusione giusta, a tratti poetica, per una delle serie più intense e importanti della televisione contemporanea.

I testamenti di Margareth Atwood

Le vicende del romanzo sono ambientate circa quindici anni dopo la fine de Il racconto dell’ancella. Tramite l’espediente letterario del ritrovamento delle trascrizioni di due testimonianze e di un documento olografo, viene presentato un triplice punto di vista su personaggi secondari nella narrazione del primo romanzo: Zia Lydia, Daisy che si rivela essere Baby Nicole, la secondogenita di June, figlia illegittima del Comandante Waterford e Serena Joy, avuta in segreto con Nick, per intercessione di Serena e infine Hannah, la primogenita di June che, dopo esser stata deportata a Gilead a seguito del rapimento della madre, ha vissuto la sua infanzia nella Casa del Comandante Kyle.
I tre filoni narrativi, in un primo momento lontani fra loro, al termine del romanzo si congiungono fra loro, narrando i retroscena dell’impresa della fuga dal regime. Le aspettative sono altissime anche qui.