Negli ultimi due decenni, l’Italia ha vissuto un profondo mutamento strutturale sia nella composizione demografica della popolazione sia nella dinamica del lavoro.
Uno degli elementi chiave di questo cambiamento è l’inverno demografico: il nostro Paese ha uno dei tassi di natalità più bassi in Europa – nel 2023 si sono registrate appena 379.000 nascite a fronte di oltre 680.000 decessi – e un’età media che ha superato i 46 anni.
Oggi il nostro Paese conta oltre 36 milioni di persone inattive – tra pensionati, studenti, minori, disoccupati scoraggiati e altre categorie non inserite nel mercato del lavoro – a fronte di una popolazione attiva che si aggira intorno ai 24 milioni.
Questo significa che, per ogni cento persone che lavorano o cercano attivamente lavoro, ce ne sono circa 144 che dipendono, direttamente o indirettamente, da loro. Un rapporto di dipendenza tra i più elevati d’Europa e in costante peggioramento a causa dell’invecchiamento della popolazione e del calo delle nascite.

Questo squilibrio incide profondamente sulla capacità del sistema produttivo di generare crescita economica. Con meno persone attive si produce di meno, si consumano meno beni e servizi e si versano meno contributi fiscali e previdenziali.
Secondo le previsioni della Commissione Europea, la forza lavoro in Italia potrebbe ridursi del 10% entro il 2040, compromettendo la tenuta di interi comparti economici già oggi in difficoltà nel reperire manodopera, come la sanità, l’edilizia, l’agricoltura e i servizi alla persona.
La crescita del PIL, già bassa da anni, rischia di frenare ulteriormente, bloccando ogni possibilità di riduzione strutturale del debito pubblico o rilancio degli investimenti.

Il sistema pensionistico, basato sulla ripartizione – cioè, sul fatto che i contributi dei lavoratori attuali finanziano le pensioni correnti – è forse l’ambito più esposto. Negli anni ’90 c’erano circa due lavoratori e mezzo per ogni pensionato; oggi il rapporto è sceso a poco più di uno e mezzo, con 18 milioni di pensionati sostenuti da 24 milioni di occupati.
Questo sbilanciamento è destinato ad accentuarsi, rendendo necessarie scelte politiche difficili: aumentare i contributi, tagliare le prestazioni o – come sempre più esperti suggeriscono – ampliare la base contributiva attraverso un’adeguata gestione dei flussi migratori.
Nel 2040, se non dovessero cambiare le leggi sul pensionamento, noi avremmo 2,5 milioni di lavoratori attivi in meno e 2,5 milioni di pensionati in più, in un rapporto di quasi un pensionato su ogni lavoratore attivo.
Il sistema pensionistico non potrebbe reggere. Un aumento delle tasse per sostenere l’Inps in maniera strutturale o un decremento significativo delle pensioni sarebbero provvedimenti inevitabili.

In Italia, inoltre, una parte rilevante della popolazione in età lavorativa non partecipa al mercato del lavoro.
Secondo gli ultimi dati Istat, aggiornati alla primavera del 2025, il tasso di inattività nella fascia tra i 15 e i 64 anni è pari al 33,2%. Questo significa che più di nove milioni di persone, pur essendo in età da lavoro, non sono occupate né cercano attivamente un impiego.
Le ragioni possono essere molteplici: c’è chi studia, chi si occupa della famiglia, chi ha rinunciato a cercare un lavoro, o chi è scoraggiato dalle difficoltà del mercato. Ma se allarghiamo lo sguardo all’intera popolazione residente, comprendendo anche i minori, gli anziani, i pensionati e tutte le altre categorie che non rientrano nella forza lavoro, la cifra degli inattivi cresce ulteriormente, superando i 34 milioni.
Si tratta di  una popolazione ampia e composita, che include studenti a tempo pieno, casalinghe, pensionati, persone con disabilità, ma anche una quota significativa di individui in età lavorativa che si trovano ai margini del sistema economico.
Questo dato rende ancora più evidente la pressione esercitata su chi lavora: ogni lavoratore attivo in Italia sostiene, direttamente o indirettamente, un numero crescente di persone che non partecipano al ciclo produttivo. In un Paese con una delle età medie più alte d’Europa e con un tasso di natalità in costante calo, il peso di questa asimmetria sociale ed economica rischia di diventare insostenibile, se non si attivano politiche efficaci per rafforzare la partecipazione al lavoro e ampliare la base contributiva.

Inoltre, oggi molte imprese italiane si trovano a fare i conti con una realtà paradossale: mentre esistono centinaia di migliaia di persone in cerca di lavoro, molte aziende faticano a trovare i profili adeguati.
Secondo Unioncamere, quasi la metà delle imprese – intorno al 46% – segnala di non riuscire a individuare candidati con le competenze richieste. Il problema emerge con particolare forza in settori quali industria e servizi: il 73,5% delle aziende nel manifatturiero e il 65% in quello dei servizi lamentano gravi difficoltà di reperimento.
Una parte consistente di questa domanda insoddisfatta è attribuibile al cosiddetto skill mismatch, ovvero alla mancata corrispondenza tra le abilità dei lavoratori e quelle che le imprese effettivamente cercano.

Lo rileva l’Istat nel suo ultimo censimento, da cui emerge come circa il 43% delle piccole imprese soffrano per la mancanza di competenze tecniche, quota che sale fino al 56% tra le grandi. Analoghe difficoltà riguardano le capacità trasversali – team work, problem solving, adattabilità – lamentate da fino al 36% delle realtà di media e grande dimensione.

Il mismatch si manifesta anche nella formazione universitaria e professionale: mentre le imprese richiedono figure specializzate in informatica, ingegneria o sanità, molti neolaureati si diplomano in discipline per le quali non c’è corrispondenza con l’offerta lavorativa reale.
Questo disallineamento ha conseguenze economiche pesanti: Unioncamere stima che il costo della mancata assunzione dei profili necessari si avvicina ai 44 miliardi di euro, cifra destinata a crescere se la situazione non migliora.

L’opportunità dei migranti

In questo scenario, non si tratta più di considerare la presenza straniera come un’emergenza da gestire, ma come una leva strutturale da attivare con lungimiranza. Perché in un Paese che invecchia, lavora meno e genera sempre meno nuove generazioni, l’apporto di chi arriva da fuori è una condizione necessaria per mantenere in equilibrio i fondamentali economici e sociali. Non è solo una questione di numeri, ma di sostenibilità collettiva.

È in questo contesto che si inserisce il ruolo, sempre più decisivo, della forza lavoro straniera.
Contrariamente a quanto affermano alcune narrazioni semplificate o allarmistiche, i lavoratori stranieri non rappresentano un’anomalia marginale del nostro mercato del lavoro, ma una componente strutturale, necessaria e in molti casi insostituibile.
Secondo i dati Istat aggiornati al 2023, su circa 24 milioni di occupati in Italia, poco più di 2,5 milioni sono stranieri regolarmente residenti e occupati: una quota pari all’11% del totale. Questa cifra non tiene conto del lavoro sommerso.
In Italia abbiamo circa 600.000–700.000 stranieri irregolari, molti dei quali lavorano: basti pensare al mondo  delle badanti o alla nostra agricoltura nel Mezzogiorno.
Sommando queste due componenti – quella regolare e quella irregolare – la forza lavoro straniera è stimata tra il 13% e il 15% dell’intera forza lavoro italiana.

Dal punto di vista dell’impatto economico, i lavoratori stranieri svolgono funzioni che spesso non trovano risposta nella manodopera italiana, per motivi legati alle condizioni, alla retribuzione o alla disponibilità.
Oltre a garantire la tenuta operativa di interi comparti, contribuiscono in modo rilevante alla fiscalità e al bilancio previdenziale: nel 2022, secondo l’Inps, hanno versato contributi per oltre 14 miliardi di euro, con un saldo netto positivo rispetto a quanto ricevono in prestazioni. Non va trascurato, inoltre, il ruolo che le seconde generazioni potranno giocare nel bilanciare le tendenze demografiche negative, soprattutto se adeguatamente integrate e valorizzate nei percorsi scolastici e professionali.

Infine, le politiche migratorie e del lavoro non possono più essere concepite come risposte emergenziali, bensì come strumenti di governo di un processo strutturale.
Il sistema produttivo italiano, come quello di gran parte dell’Europa meridionale, ha bisogno di una forza lavoro giovane, mobile e capace di adattarsi.
I lavoratori stranieri, se gestiti attraverso canali regolari, formazione adeguata e inclusione, non sono un problema da risolvere, ma una risorsa da potenziare. In un Paese che invecchia e produce meno capitale umano interno, la presenza straniera rappresenta una linea di continuità economica, sociale e culturale senza la quale sarà difficile mantenere livelli accettabili di produttività e sostenibilità a lungo termine.

Una classe dirigente responsabile dovrebbe prendere atto di questi dati e adoperarsi per cambiare la narrazione vigente sull’immigrazione.
Le persone che arrivano dall’estero non sono tutte delinquenti da buttare fuori dai confini nazionali: al contrario, abbiamo assolutamente bisogno di loro.
Governare i flussi migratori è una operazione sicuramente molto complessa, ma assolutamente inevitabile. È una questione di interesse nazionale.
Dobbiamo superare le paure sulla sicurezza, che pure hanno ragione d’essere.
Dobbiamo garantire la sicurezza di tutti, ma non rinunciare alla sostenibilità del nostro sistema economico e pensionistico.
Il tema dell’integrazione culturale è di cruciale rilevanza e di difficilissima attuazione, ma non è nascondendo la testa sotto la sabbia che riusciremo a risolverlo.
È necessario lo sforzo di tutti e l’abbandono di ogni opzione ideologica, di un senso o di un altro.
Guardare alla forza lavoro straniera come una risorsa non è solo una scelta etica o sociale: è, prima di tutto, un atto di realismo economico. L’Italia, per restare competitiva e coesa, ha bisogno di integrare pienamente chi già contribuisce silenziosamente alla sua tenuta quotidiana.
Trasformare questa presenza in una leva stabile di sviluppo significa non solo accettare il cambiamento, ma governarlo con visione.
In un tempo di transizioni profonde, la vera sfida non è respingere ciò che è nuovo, ma imparare a valorizzarlo.
Solo così il Paese potrà affrontare le trasformazioni del presente e costruire una prospettiva di crescita solida e inclusiva per il futuro.