Il Premio Nobel per la Fisica 2025 è stato assegnato a tre ricercatori americani, John Clarke, Michel Henri Devoret e John Matthew Martinis

per la scoperta dell’effetto tunnel quantistico macroscopico e della quantizzazione dell’energia in un circuito elettrico”.

Il premio è il riconoscimento per una serie di esperimenti condotti a metà degli anni ’80, quando i tre fisici riuscirono a costruire un circuito elettrico superconduttore (apparato macroscopico) capace di comportarsi come un oggetto quantistico dell’infinitamente piccolo.

Senza volere entrare nei dettagli, articolati e difficili, della scoperta, la particolarità risiede proprio nell’aggettivo “macroscopico”. È una particolarità che ha arricchito la comprensione teorica della fisica e, nel tempo, ha condotto a molte applicazioni concrete e utili.

Ripercorriamo sinteticamente la storia di quella parte della Fisica che si è occupata dell’infinitamente piccolo e collegata al Nobel 2025.

All’inizio del XX secolo erano stati identificati alcuni fenomeni non descrivibili secondo i canoni della fisica classica, in particolare, della teoria ondulatoria di Maxwell.

Uno di questi fenomeni era la radiazione emessa dal cosiddetto “corpo nero”. Ogni oggetto emette radiazione elettromagnetica (che comprende anche la luce) in virtù della sua temperatura (irraggiamento). Se poi su un oggetto incide radiazione elettromagnetica, questa in parte viene assorbita dal corpo e in parte viene riflessa. Il corpo nero è un materiale ideale che assorbe tutta la radiazione incidente. Pertanto, in condizioni di equilibrio termico, l’energia assorbita e quella totale emessa si bilanciano. Max Planck, nel 1900, intuì che, per far concordare i calcoli con i dati sperimentali, sia l’assorbimento che la riemissione della radiazione dovevano avvenire per quantità discrete ben definite di energia, i “quanti”.

Un altro fenomeno che sfuggiva alla descrizione classica era l’emissione di elettroni da parte di una superficie metallica colpita da radiazione elettromagnetica (effetto fotoelettrico). Nel 1905, Albert Einstein, alla luce dei risultati di Planck, ipotizzò che non solo gli atomi emettono e assorbono energia per pacchetti discreti di energia ma è la stessa radiazione elettromagnetica a essere costituita da quanti di energia, in seguito denominati “fotoni”. Quindi, si evidenziava un comportamento corpuscolare della luce antitetico a quello ondulatorio classico. Tale ipotesi fu accolta con scetticismo per almeno un decennio.

Nel 1911, Heike Onnes scoprì il fenomeno della superconduttività: è una proprietà di alcuni materiali che, raffreddati a temperature vicine allo zero assoluto, non oppongono alcuna resistenza al passaggio di corrente elettrica. Onnes trovò che alla temperatura di 4.2°K, la resistenza del mercurio si annullava. Vedremo che la motivazione quantistica sarà data solo nel 1957 (teoria BCS).

Nel 1913, Bohr applicò con successo l’ipotesi di Planck per descrivere l’emissione discreta (a “righe”) di un gas di atomi di idrogeno. Successivamente, nel 1924, De Broglie teorizzò che anche le particelle potessero avere un comportamento ondulatorio e, puntualmente, nel 1927 fu dimostrata la diffrazione degli elettroni (Davisson, Germer, Thomson), fenomeno tipico delle onde.

Il quadro iniziava ad ingarbugliarsi: superconduzione, onde elettromagnetiche che si comportavano come corpuscoli e corpuscoli che si comportavano come onde. La quantizzazione non poteva rimanere una mera tecnica per fare descrizioni corrette di particolari esperimenti; occorreva una teoria interpretativa.

Dopo Werner Heisenberg, che nel 1925 propose una prima sistemazione, nel 1926, Erwin Schrödinger presentò la Meccanica Ondulatoria avente, alla base, l’omonima equazione che descriveva l’evoluzione dello stato di un oggetto quantistico mediante una funzione d’onda caratterizzata da un’ampiezza e da una fase. Nello stesso anno, Max Born propose un’interpretazione probabilistica per la funzione d’onda: il suo quadrato non è altro che la distribuzione di probabilità dei possibili stati di un oggetto quantistico mentre la fase ne contiene l’informazione dinamica. Nel 1927, Niels Bohr e Werner Heisenberg estesero l’interpretazione probabilistica (interpretazione di Copenaghen) fondando, di fatto, la Meccanica Quantistica.

La natura, a livello microscopico, risulta intrinsecamente stocastica.

Nello stesso anno, Friedrich Hund, usò tale interpretazione per descrivere, nelle molecole, il salto di un elettrone tra due stati stabili che, secondo la fisica classica, non era energeticamente possibile; lo definì effetto tunnel”. La formulazione teorica rigorosa fu proposta l’anno successivo da George Gamow (e, in modo indipendente, da Ronald Gurney e Edward Condon) nell’intento di spiegare l’emissione di particelle alfa (particolari nuclei di elio) da parte di alcuni elementi pesanti (uranio, plutonio). Secondo la fisica classica, le particelle emesse da questi nuclei non hanno l’energia necessaria per sfuggire alla forza attrattive che le tengono legate al nucleo. La realtà sperimentale è che, invece, riescono a farlo (decadimento radioattivo ). Applicando l’equazione di Schrödinger, Gamow verificò che esisteva una probabilità non nulla per la particella alfa di “trovarsi” lontano dal nucleo di appartenenza.

L’espressione “effetto tunnel” è ormai di uso comune ma, in realtà, è un po’ fuorviante perché evoca un “meccanismo” quando, invece, è un “accadimento” di un evento ritenuto impossibile per la fisica classica ma che è solo improbabile per la fisica quantistica.

 

Abbiamo accennato alla teoria BCS sulla superconduzione. Nel 1957, John Bardeen, Leon Cooper e Robert Schrieffer (BCS, appunto) descrissero il fenomeno dimostrando che, a bassissime temperature, gli elettroni, vincono la reciproca forza repulsiva (sempre per ragioni predette dalla teoria quantistica) e si legano in coppie (coppie di Cooper); in queste condizioni, se ai capi di un circuito si pone una forza elettromotrice (es., una batteria), si forma una corrente che non trova resistenza (il filo non si scalda). In più, a temperature a limite dello zero assoluto, in un circuito si può formare una corrente elettrica anche senza una forza elettromotrice.

Precedentemente alla teoria BCS, Vitalij Ginzburg e Lev Landau avevano proposto di descrivere il sistema con una singola funzione d’onda e, nel 1959, Gorkov mostrò che la teoria BCS, edificata partendo dal punto di vista microscopico, poteva avere una descrizione prettamente macroscopica nel senso di Ginzburg–Landau. A bassissime temperature, l’insieme delle coppie di Cooper forma un “condensato” descrivibile da un unica complessiva funzione d’onda; il segno della fase della comune funzione d’onda definisce il verso della corrente.

In definitiva, la superconduzione è la prima manifestazione macroscopica (la corrente elettrica misurabile) di un fenomeno descritto originariamente dal punto di vista microscopico (le coppie di Cooper) e successivamente come un vero e proprio oggetto quantistico macroscopico.

Per avere ulteriori verifiche di ciò, era necessario dimostrare che il condensato mostrasse le altre peculiarità quantistiche, quali l’effetto tunnel e la quantizzazione dell’energia, conservando la “coerenza” quantistica cioè muovendosi in modo sincronizzato e subendo la stessa evoluzione temporale.

Un passo in avanti fu fatto da Brian D. Josephson che nel 1962 calcolò le condizioni in cui le coppie di Cooper (descrizione microscopica) avrebbero mostrato effetto tunnel scorrendo tra due superconduttori separati da un sottile strato isolante (giunzione Josephson). L’importante verifica sperimentale fu eseguita con successo l’anno seguente (Anderson e Rowell).

Saltando i successivi e decisivi contributi di esimi scienziati, nel 1978 Anthony Leggett lamentò l’urgenza di osservare l’effetto tunnel anche per il condensato (Macroscopic Quantum Tunnelling, MQT). Pertanto, giungiamo ai lavori pubblicati alla metà degli anni ‘80 da Clarke-Devoret-Martinis, i Nobel 2025.

I tre scienziati, grazie a innovativi allestimenti sperimentali e utilizzando giunzioni Josephson riuscirono ad osservare l’effetto tunnel del condensato, in ottimo accordo quantitativo con le previsioni teoriche. Inoltre,

dimostrarono che, nella giunzione, l’energia del condensato veniva scambiata in modo quantizzato, cioè solo in quantità discrete, come accade per una singola particella quantistica.

Le scoperte di Clarke, Devoret e Martinis, che, come visto, sono il punto terminale di piccoli o grandi contributi di molti scienziati, hanno dimostrato che la meccanica quantistica non è confinata al mondo microscopico degli atomi e delle particelle elementari, ma può manifestarsi anche su scala macroscopica, in oggetti visibili e costruiti dall’uomo. I tre fisici hanno saputo realizzare, negli anni ‘80 e ‘90, minuscoli circuiti superconduttori che si comportavano come “atomi artificiali”, capaci di mostrare gli stessi effetti quantistici che fino ad allora si potevano osservare solo nel micromondo. L’importanza di queste scoperte è enorme, perché segnano il passaggio dalla fisica quantistica “osservata” alla fisica quantistica “costruita”. Fino ad allora si potevano solo studiare i fenomeni quantistici nei sistemi naturali, ora invece è possibile progettare e controllare circuiti in cui la meccanica quantistica diventa una risorsa ingegneristica.

Fin dagli anni Settanta, le giunzioni Josephson sono state utilizzate per costruire strumenti di misura di precisione straordinaria, come gli SQUID, sensori capaci di rilevare campi magnetici debolissimi, milioni di volte inferiori a quello terrestre. Oggi questi strumenti sono usati in campi molto diversi: dalla ricerca geologica alla medicina, dove consentono di osservare l’attività del cervello con una sensibilità senza eguali. Sempre grazie alla stabilità e alla prevedibilità del fenomeno Josephson, si è potuto realizzare uno degli standard di misura più precisi mai ottenuti, quello della tensione elettrica: un riferimento universale basato su effetti quantistici, adottato nei laboratori di metrologia di tutto il mondo.

Da questi esperimenti pionieristici è nata la tecnologia dei qubit superconduttori, i “mattoni logici” dei computer quantistici moderni. In questi dispositivi, la stessa variabile di fase che Clarke, Devoret e Martinis avevano fatto tunnelizzare viene oggi usata per rappresentare gli stati “zero” e “uno” di un qubit, che però può trovarsi anche in una sovrapposizione dei due. Gli sviluppi attuali si concentrano sul rendere questi qubit più stabili, isolandoli dal rumore dell’ambiente e prolungando la durata della loro coerenza, cioè il tempo durante il quale mantengono il loro comportamento quantistico.

 

In un futuro non lontano, potrebbero essere costruiti dispositivi di comunicazione e di calcolo estremamente efficienti dal punto di vista energetico. Ma l’eredità più promettente delle ricerche premiate con il Nobel è la possibilità di costruire sistemi che sfruttano la coerenza quantistica non solo per calcolare ma anche per misurare e comunicare, perfezionando ulteriormente i sensori quantistici e rilevare variazioni minuscole di temperatura, campo magnetico o gravità, e migliorare i canali di comunicazione, che potranno garantire una sicurezza teoricamente inviolabile.