Numero 52 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Perché “mercati complessi”?
(dal libro “La strategia aziendale nei mercati complessi. Dai modelli di base alle visioni di frontiera”)

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di Lucio Macchia

 


ABSTRACT Molti mi chiedono perché ho utilizzato, nel titolo del libro, la dizione “mercati complessi”. Cosa sono questi mercati, in che consiste la loro complessità?

La risposta è intorno a noi: basta guardarla. Sono i mercati in cui viviamo, scaturiti in un ambito socio-culturale detto “post-moderno”, in cui l’offerta di prodotti e servizi è entrata in una dimensione che vede il sovrapporsi di aspetti economici, psicologici, emotivi, antropologici.

Di seguito viene presentato un estratto, tratto dal libro, in cui si tenta di tratteggiare questa nuova realtà di mercato, nella convinzione che le aziende che non interiorizzano queste nuove istanze culturali non hanno la possibilità di raccoglierne le sfide competitive.

Il pensiero manageriale ha una storia complessa ed intricata. Fino agli anni ’50, lo scenario industriale è caratterizzato da domanda superiore all’offerta: l’enfasi è tutta sugli aspetti di efficienza della produzione e dell’organizzazione intesa come “macchina”. Il pensiero fondativo di tale approccio è la “organizzazione scientifica del lavoro” di Taylor(1), che vede la sua riprova applicativa nella straordinaria affermazione industriale della Ford negli anni ’20.

Taylor è stato uno dei primi grandi “formalizzatori” del pensiero manageriale, cioè uno dei teorici di un approccio basato sulla ricerca di un metodo “universale” di risoluzione delle problematiche aziendali.

Questo approccio basato sulla formalizzazione è un filo rosso che percorre tutta la storia del management, e corrisponde alla insopprimibile esigenza dell’uomo occidentale di elaborare potenti teorie unificatrici, che consentano di spiegare ogni evento, di scrivere le “equazioni del mondo”.

La scienza occidentale da Galileo fino alla meccanica quantistica ha cercato disperatamente la “formula che mondi possa aprirti”(2). Laplace riteneva concettualmente possibile, e solo computazionalmente arduo, scrivere un super-sistema di equazioni differenziali che, dato lo stato iniziale del mondo, ne prevedesse l’evoluzione nel tempo. Sua una celebre frase che definisce perfettamente la formalizzazione e l’ottica deterministica:

Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un'unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi (Laplace, 1812).

Se oggi questa affermazione del grande genio ci fa quasi sorridere, e ci appare puerilmente illusoria, è perché nell’ultimo secolo la scienza e la filosofia si sono completamente ri-orientate, superando questa fase rigidamente deterministica. Chiedendo venia per il mio temerario sincretismo, e l’inevitabile superficialità, di seguito riporto alcune pietre angolari di questo ri-orientamento.


3.1. Crisi della scienza positivista e laplaciana

Il Principio di indeterminazione di Heisenberg (1927) introduce il concetto che lo stato iniziale del mondo non è misurabile, poiché la misura stessa influenza le cose. “Non è possibile conoscere nello stesso tempo posizione e velocità di una particella” (principio di indeterminazione) sembra un’astrazione per scienziati scapigliati, ma, concretamente, significa il mondo non è conoscibile in senso laplaciano. Una dura critica all’approccio laplaciano proviene anche dalle opere di Henri Bergson che nega la scienza come strumento di effettiva conoscenza del mondo, contestandone l’incapacità di cogliere globalmente i fenomeni (anticipando così l’approccio della “teoria dei sistemi”) ed il suo imprigionamento negli schemi di analisi che la condannano ad essere sempre “tangente” alla vita (un modello parziale) senza mai poter con essa coincidere.

yyin ognuno dei suoi punti la curva si confonde con la propria tangente. Analogamente la “vitalità” è tangente in ogni punto alle forze fisiche e chimiche; ma in definitiva questi punti non sono altro che le prospettive di una mente che immagina, in questo o in quel determinato momento, una stasi del movimento che genera la curva. In realtà la vita non è fatta di elementi fisico-chimici; non più di quanto una curva sia composta da rette (Bergson, 1911, p. 31).

 

3.2. Crisi della filosofia

Questa disciplina vive, attraverso grandi figure come Nietzsche e Heidegger, la crisi definitiva dei tradizionali approcci razionalistici, ed abdica dal ruolo di “spiegazione del mondo”, si auto-riconosce, per usare il paradigma di Gianni Vattimo, come “pensiero debole”, e decide di limitare il suo ruolo ad “interpretazione del mondo”, attraverso schemi non più univoci, ma circolari e complessi.

È la filosofia cosiddetta “post-moderna”, termine introdotto in questo ambito da Jean-François Lyotard nella sua opera "La condizione postmoderna" (1979).

In questo libro, Lyotard fa riferimento alla delegittimazione dei metaracconti (o "grandi racconti"), caratterizzati tipicamente da una qualche forma di verità trascendente o universale.

I “grandi racconti”, in cui la cultura contemporanea non si riconosce più, sono i grandi sistemi di pensiero in grado di “spiegare il mondo”, come ad esempio le ideologie assolutistiche, che, in ultima analisi, non rappresentano altro che tentativi di dare risposte univoche e “formalizzate” alle problematiche dell’uomo e della società.

Le grandi narrazioni sono perdute per sempre come già preannunciato da Nietzsche che «dimostra che il nichilismo europeo discende dall’auto-applicazione dell’esigenza scientifica di verità all’esigenza stessa» (Lyotard, 1979, p. 71).

In questo ambito la crisi della scienza si fa radicale, poiché essa viene ricondotta ad essere uno dei tanti «giochi linguistici» possibili, ovvero uno sviluppo di pensiero da un sistema di regole di base, senza più il conforto legittimante della filosofia, poiché «la filosofia speculativa o umanista dal canto suo deve rinunciare alle sue funzioni di legittimazione, il che spiega la sua crisi là dove pretende ancora di assumerle, e la sua riduzione a studio delle logiche o delle storie delle idee là dove esse vi ha rinunciato per realismo» (ibid. p. 75).

L’attacco è portato fino all’interno dei grandi sistemi assiomatici, come la matematica, che costruiscono strutture di idee a partire da alcuni presupposti dati per veri (assiomi). Ancora Lyotard osserva (p. 78) che Gödel, con il suo famoso “teorema di incompletezza”, dimostra che il sistema aritmetico (e quindi, per estensione, qualunque formalismo) contiene almeno un paradosso cioè un’affermazione che non può essere dimostrata né vera né falsa(3), per cui potremmo (semplificando) concludere che tutto è gioco linguistico, e non vi è gioco linguistico che non porti all’auto-contraddizione.

 

3.5. Evoluzione del pensiero manageriale

Il management ha vissuto, in piccolo, la stessa parabola della scienza, vivendo, a partire da Taylor, e fino a Porter ed alle scuole di reengineering, un approccio cartesiano-newtoniano all’azienda.

Il padre di questo “filone” è, a ben vedere, Adam Smith che nel suo saggio “Sulla ricchezza delle nazioni” (1776), agli albori della rivoluzione industriale, introduce un approccio estremamente razionale e chiuso, sia all’organizzazione (esaltazione scientifica

della divisione del lavoro) che al mercato (la già citata “mano invisibile” che assicura stabilità all’intero sistema).

Nei primi decenni del ’900 l’approccio di Smith ha trovato una sua incarnazione manageriale, nell’opera degli studiosi che hanno aspirato a fondare il management come scienza esatta.

Taylor e l’organizzazione scientifica del lavoro

Taylor, come ho già accennato, ha sviluppato il suo approccio “scientifico” sul piano dei metodi di lavoro, e dell’organizzazione dei processi produttivi, tendendo a trovare una soluzione definitiva a tali problematiche, grazie a metodi e strumenti di controllo.

Il suo lavoro è forse lo studio teorico che ha maggiormente influenzato il management, ed ancor oggi possiamo affermare che non c’è azienda che non porti una traccia della sua impostazione metodologica.

Questo perché il suo approccio razionale e scientifico alla problematica manageriale, la sua ricerca del miglioramento e dell’efficienza, è imprescindibile nella gestione aziendale. Anche se certamente riduttivo ed incompleto (in fondo come ogni modello).

 

Fayol e l’organizzazione funzionale

Henri Fayol, pur isolatamente dal mondo anglosassone (Fayol operava in Francia negli anni ’20, quindi l’eco delle sue idee tardò ad essere percepito) ha sviluppato il concetto di organizzazione funzionale, che è perfettamente organico all’idea “macchinale” di azienda. Inoltre, per primo ha definito il ruolo del management enfatizzandone gli aspetti di pianificazione e controllo: «Gestire significa prevedere e pianificare, organizzare, dare ordini, coordinare e controllare» (Fayol, citato in Crainer e Dearlove, 2003, p. 62).  Come non pensare al famoso acronimo POEM (Plan, Organizzate, Execute, Measure) per descrivere il lavoro del management(4)?

Weber e l’organizzazione burocratica

Max Weber ha sviluppato un concetto di organizzazione “burocratica”, anche lui aspirando a risolvere il problema dell’armonizzazione delle attività umane, sul piano formale e prescrittivo delle regole, delle procedure, degli schemi di comportamento. La sua analisi indica, nel “modello razionale-legale”, la migliore forma organizzativa di gestione aziendale e, come nel caso di Taylor, la storia gli ha dato in buona parte ragione, almeno fin quando è durata l’era della produzione di massa e dei mercati stabili e prevedibili. In fondo il termine “burocrazia”, che oggi ha ormai acquisito, nell’uso, un connotato negativo, indica etimologicamente il "potere degli uffici" (dal francese bureau per "ufficio", connesso al greco krátos "potere") ovvero un «potere (o, più correttamente, una forma di esercizio del potere) che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti una volta per tutte e immodificabili dall'individuo che ricopre temporaneamente una funzione(5)».

Questo approccio verso la standardizzazione e procedurizzazione delle attività risponde a criteri di efficienza, ed è fino ad un certo grado, imprescindibile nelle aziende. Per esempio il servizio di Customer Service di una moderna azienda di servizi, non può fare a meno, al fine di dare un buon servizio ai Clienti, di solide procedure e flussi di lavoro, che assicurino che le risposte vengano date in modo corretto, tempestivo e rispondente a precisi standard di qualità.

Né è possibile pensare a McDonald’s senza le sue rigorose procedure di preparazione del cibo, che rendono i prodotti praticamente identici in migliaia di punti vendita sparsi per il globo.

 

Ansoff e il meccanicismo

Circa quaranta anni dopo, Ansoff ha applicato lo stesso approccio al concetto di “fare strategia”, cercando un metodo algoritmico che consentisse di generarla attraverso un certo numero di passi prestabiliti.

Infine, a riprova che il filo rosso della macchinalità non si è ancora estinto, più recentemente, a partire dagli anni ’80, si è affermata la scuola del “Business Process Reengineering” che ha di nuovo portato l’attenzione su una visione meccanicistica dell’azienda, e sulla possibilità di “smontarla” e “rimontarla” per ritrovare l’efficienza e l’efficacia perdute.

In fondo Ansoff ed il filone del reengineering rappresentano una sorta di continuazione dell’impostazione classica tayloristica, una scuola “neoclassica” della strategia aziendale di stampo “formalistico”.

La formalizzazione è certamente insita nella mente umana e nella cultura occidentale, e certamente apporta strumenti e modelli estremamente utili. Infatti, come abbiamo già detto, le aziende ancora oggi ottimizzano i processi tayloristicamente, creano procedure weberiane, effettuano pianificazione strategica (dopo aver scelto la strategia(6)!) utilizzando il vasto repertorio ansoffiano. E non vi è dubbio che un ridisegno dei processi può condurre a snellire e migliorare le organizzazioni.

Ciò che invece non funziona è la formalizzazione nella sua accezione più estrema di “formula che risolve tutti i problemi”, di metodo chiuso che consente di ottenere una risposta con la stessa facilità con cui si applica il teorema di Pitagora ad un triangolo rettangolo. Perseguire questo tipo di formalizzazione oltre ogni ragionevolezza porta alla stasi, alla “paralisi da analisi”, alla morte dell’innovazione e della creatività, all’impossibilità dell’apprendimento.

Insomma, il tentativo di sostituire, ai “disordinati” comportamenti umani, regole precise e macchinali, procedure certe, è, fino ad un certo punto, più che comprensibile, e sicuramente funzionale, e chiunque operi in un’azienda riconosce il valore della standardizzazione dei procedimenti, ed anche di un certo livello di burocrazia.

Il problema è che questo approccio, da un lato coglie solo una parte della verità, e, dall’altro, tende ad assumere, sotto l’azione catalizzante della nostra cultura razionalistica di stampo weberiano, un ruolo totalizzante, portando quindi ad organizzazioni irretite nelle loro stesse routine di controllo, e quindi alla «sottoutilizzazione dell’intelligenza e della capacità creativa di milioni di esseri umani» (Juran, citato in Crainer e Dearlove, 2003, p. 252). Sarà per questo che i complicati “flow-chart” di Ansoff per la pianificazione strategica, sono quasi scomparsi dalla letteratura manageriale, e rappresentano una sorta di torre di Babele assurdamente eretta verso un cielo irraggiungibile, monito per tutti dei limiti della formalizzazione.

Come il pensiero contemporaneo non crede più ai “grandi racconti” e la cultura sfocia nel “post-moderno”, così il pensiero manageriale non crede più alle formalizzazioni estreme di Taylor e Ansoff, e sceglie un approccio “descrittivo” che corrisponde, mutatis mutandis, al pensiero debole del post-moderno. Infatti, a perfezionare l’analogia, si rileva che la cultura manageriale che anima la disciplina a partire dagli anni ’80 è denominata “post-industriale”, categoria duale, sul piano economico-manageriale, di quella del post-moderno sul piano filosofico e delle scienze sociali.

Il termine “post-industriale” è stato coniato da Daniel Bell nel suo saggio “The coming of postindustrial society” (1973) come riferito soprattutto al passaggio da società industriali a società di servizi (intesi come “terziario”) ma noi lo intenderemo, nel prossimo paragrafo, in senso lato, ad indicare, una situazione di mercato caratterizzata da alta intensità di servizi, da alta intensità di conoscenza, da innovazione tecnologica continua, e da iper-competizione e globalizzazione (come anticipato nella sezione sulla “differenziazione di prodotto”).

 

3.6. Il mercato complesso dell’era post-industriale

 

yyPrima di proseguire è necessario mettere a fuoco il concetto di mercato complesso nell’era post-industriale, ovvero, in altri termini, di mercato della nostra epoca.

Il sociologo e futurologo americano Alvin Toffler ha pubblicato, nel 1980, il libro “The Third Wave” (“La terza ondata”) in cui descrive l’evoluzione dei mercati attraverso tre fasi.

La prima fase, di circa 10.000 anni, è segnata dall’economia sostanzialmente agricola, che ha caratterizzato i mercati economici dagli albori fino alla fine del 700 (rivoluzione industriale). La seconda fase, che va dalla fine del 700 ai primi anni ’50, caratterizzata da società industriale, si è imperniata sulla produzione di beni in quantità crescente, con l’obiettivo di soddisfare bisogni di massa.

La terza fase, che parte dagli anni ’50, vede, nel mondo occidentale, la progressiva crisi del mercato di massa, di fronte alla saturazione di tutti i bisogni primari, e lo spostamento, come abbiamo già visto(7) , verso bisogni secondari e desideri. Nello stesso periodo, la rivoluzione informatica (a partire dagli anni ’70) ha aperto nuove prospettive per la condivisione delle informazioni ed, insieme alle innovazioni tecnologiche in tutti i campi, ha indotto processi di iper-competizione (si compete su avanzamenti sempre più rapidi dei prodotti e dei processi produttivi) e globalizzazione.

Globalizzazione significa “sprovincializzazione” del mercato, che diventa il mondo intero, ma, si badi bene, non necessariamente nel senso di “massificazione”, bensì di possibilità per tutti di accedere ad un mercato globale, che quindi consente il fiorire di una miriade di produttori di nicchia che contano su un pubblico “worldwide”. Ecco perché la globalizzazione, a ben vedere, può favorire, e non solo ostacolare, i mercati locali di nicchia. Un liutaio che vive in una remota provincia della Francia avrebbe dovuto probabilmente abbandonare la sua preziosa attività, se avesse potuto contare solo sui violinisti della sua regione, ma oggi può vendere i suoi prodotti agli appassionati australiani e brasiliani, utilizzando semplici canali web. Così globale non significa soltanto omologazione e somiglianza (come avviene, di fatto, in alcuni ambiti commerciali: si pensi alla diffusione di H&M o McDonald’s) ma anche possibilità di rilancio e moltiplicazione di iniziative locali. Questo sincretismo globale/locale è oggi indicato con la crasi “glocale”, e rappresenta una vera fonte di rivoluzione post-industriale legata alle possibilità della globalizzazione.

Toffler individua, nella terza onda della storia industriale, il passaggio da un’economia basata sui beni tangibili, ad una basata sulle informazioni:

Oggi, negli Stati Uniti, solo il 9% della popolazione totale – 20 m.ni di lavoratori – produce beni per circa 220 m.ni di persone. I rimanenti 65 m.ni di lavoratori forniscono servizi e manipolano simboli (1980, p. 145).

Ed un nuovo modello produttivo che si colloca oltre la produzione di massa:

verso sofisticati mix di prodotti massificati e de-massificati. Il punto estremo di questa tensione è ora evidente: beni completamente customizzati (ibid. p. 149).

Si ha quindi il passaggio «da produzione di massa a customizzazione di massa» (Crainer e Dearlove, 2003, p. 259), ovvero da omologazione produttiva orientata alle grandi economie di scala, a personalizzazione dei prodotti e ricerca continua di soluzioni ed idee. Persino il confine tra Cliente e Fornitore si fa più labile e confuso, tanto che Toffler introduce il concetto di “prosumer” (crasi dei due termini “producer” e “consumer”) ad indicare la partecipazione del cliente all’atto di generazione del servizio stesso, come si ravvisa nella sempre più importante diffusione del paradigma di “self-service”. Questa impressionante evoluzione si ricollega al concetto di “post-industriale” come spostamento verso l’economia dei servizi, alla base della definizione di Bell.

Un modo piacevole e diretto di comprendere come il mondo sia cambiato dagli anni ’70 ad oggi, portandosi da società “industriale” a “post-industriale” è quello di vedere alcuni episodi della serie TV “Life on Mars”, che racconta le vicende di un poliziotto di New York che si trova, per un evento sovrannaturale, rigettato indietro del tempo dal 2008 al 1973. Il senso di spaesamento del protagonista è perfettamente reso dal titolo, che esprime la sua sensazione di essere atterrato in un altro pianeta, tanta sono diverse la cultura, la sociologia, la tecnologia nelle due epoche distanti tutto sommato solo un terzo di secolo. Nel “pianeta Marte” del 1973 la comunicazione tra individui è basata su una tecnologia telefonica di base, non esiste computer, internet, virtualità. La cultura che permea la società è ancora “arcaica” nei confronti di temi quali le pari opportunità, la tolleranza delle minoranze, la sostenibilità della crescita.

 

Bibliografia

    • Bergson H. (1907) L’évolution créatrice (trad. it. L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002)
    • Crainer S., Dearlove D. (2003), The ultimate Guru Book. The Greatest Thinkers Who Made Management, Capstone Publishing (trad. it. Il grande libro dei guru. I pensatori che hanno fatto il management, Etas, 2006)
    • Lyotard J.F. (1979), La condition postmoderne, Les Editions de Minuit, Paris (tr. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, 2008)
    • Stewart T. (1997), Intellectual Capital, Currency Doubleday (tr. it. “Il capitale Intellettuale”, Ponte delle Grazie, 1999)
    • Toffler A. (1980), The Third Wave, Bantam.

     

    Note

    1. Frederick Winslow Taylor (Stati Uniti, 1856-1915).
    2. Dalla poesia di Eugenio Montale “Non chiederci la parola”.
    3. Un esempio di questi paradossi potrebbero essere i famosi “problemi irrisolti” della matematica (affermazioni ritenute vere sulla base di prove ed euristiche ma non ancora dimostrate come assunti generali), come ad esempio la congettura di Goldbach, che afferma che “ogni numero pari è somma di due numeri primi”. Naturalmente non sappiamo se questo problema è irrisolto perché rientra nella incompletezza di Gödel, o se invece non si è semplicemente ancora trovata la via risolutiva, donde il “potrebbero” posto all’inizio di questa nota.
    4. La menzione al POEM (“poesia” in lingua inglese) è tratta da Stewart (1997, tr. it. p. 91).
    5. Definizione di “burocrazia” in wikipedia.it.
    6. La specificazione riporta al concetto mintzberghiano di pianificazione come processo successivo alla creazione della strategia, e non generatore di essa (1994).
    7. Si rimanda alla sezione sulla “differenziazione di prodotto”.

     

    Lucio Macchia, 45 anni, laurea in ingegneria, ha un vissuto d’azienda quasi ventennale, in contesti di elevata complessità e dinamicità, nell’ambito di un ampio spettro di tematiche manageriali. Opera inoltre come formatore in corsi per professionisti e master di Business School, nelle aree Strategia, Finanza Aziendale, Business Plan e Management by Projects. A marzo 2010 ha pubblicato il libro “La strategia aziendale nei mercati complessi. Dai modelli di base alle visioni di frontiera” (Franco Angeli Editore).