Nella sezione domenicale del New York Times dedicata alle riflessioni (Opinions) é di recente comparso un articolo provocatorio dal titolo “Why you hate work“. 

 

 

Gli autori si domandano come mai, sebbene tutti siano pronti a battersi per un lavoro, nessuno  poi sia particolarmente entusiasta, la mattina, all’idea di andare al  lavoro. L’osservazione può sembrare banale, ma in realtà invita a riflettere su alcuni punti chiave di qualsiasi ambiente di lavoro, qualsiasi sia il Paese. In linea di massima – e lo confermano i vari commenti dei lettori  – al lavoro l’americano medio si sente poco apprezzato; costantemente bombardato da richieste che gli giungono a qualsiasi ora per e-mail; se anche riesce a portare avanti un po’ del lavoro a suo avviso “importante”, quell’eroico sforzo finisce con l’essere disperso. Si sente esausta. Non riesce  a portare a termine qualcosa senza che qualcos’altro prema. Anche il più devoto soffre per via del conflitto tra lealtà: lavoro e famiglia, il conflitto più classico, ma anche difficoltà a conciliare le necessità a valle, dei clienti, e a monte, del management.  

Nel caso italiano, si aggiungono gerarchie feudali, logiche di sistema e convenienze politiche: tutte istanze legittime ma imprigionanti. La sostanza non cambia: la  creatività svanisce, lo sforzo si disperde, il risultato manca.

Ci sarebbe da capire come migliorare le felicità più che la produttività. Pare che i più felici siano gli olandesi e gli svedesi. Il segreto sarebbe nella qualità delle relazioni e nel senso di appartenenza e non nel salario. Dicono che chi si licenzia, quasi sempre, non lascia il lavoro bensì il capo con il quale il rapporto é diventato insostenibile. Le organizzazioni sono fatte di persone: ritrovare umanità nei gesti e nei toni puo’ forse aiutare a lavorare.