Quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo sul significato dell’arte credo di non aver realizzato davvero cosa si intendesse. Certamente so e posso dire quello che per me vuol dire arte, ma dovrei chiarire cosa vuol dire “me” – e so di non averlo ancora compreso, specialmente negli ultimi cinque anni. Tutti quanti abbiamo varie vite nell’esistenza che conduciamo, una accanto all’altra, una dopo l’altra.
Poi succedono le cose. Cinque anni fa circa, mentre ero andato a fare il caffè per me e la mia compagna in una mattina di fine gennaio ho avuto un capogiro, sono svenuto e ho battuto la testa con seguente fuoriuscita di sangue. Poche settimane dopo ero in neurochirurgia a Parma dove subivo un intervento di undici ore con una tecnica all’avanguardia per l’asportazione di un tumore maligno al cervello che si stava ormai metastatizzando. Dopo il lungo tempo in terapia intensiva sono uscito senza ricordare chi fossi, come si parlasse e come si camminasse. Ho recuperato ma l’amnesia mi ha portato via una buona parte dei miei ricordi passati. Poi ho scoperto di avere varie difficoltà (leggi malattie) con cui convivo, fra cui un disturbo bipolare di tipo uno. Io dovrei odiare la vita. La dovrei odiare con ogni fibra del mio corpo malato. A volte è così. Non nella maggior parte delle volte. E perché? Perché, a mio avviso, la vita è un errore. Proprio come l’arte.

 


Pablo Picasso, uno degli artisti che amo di più, ha scritto “Dio in realtà non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l’elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse”. E sempre lui ha detto: “Ogni bambino è un’artista. Il problema è poi come rimanere un’artista quando si cresce”. Lo stupore infantile, proprio come il titolo di un’opera meravigliosa di Elemire Zolla che ha detto “Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l’atto più bello che si possa compiere”.

L’Arte è l’errore che fa dell’umano l’essere umano, che fa dell’umano anche l’essere artista. Chi non pratica l’arte ma la consuma – termine tecnico – dovrebbe parlare con gli artisti. Non esiste un “buona la prima” come si dice nel linguaggio cinematografico. È un continuo guardare l’opera e farsi guardare dall’opera, un continuo aggiungere e cancellare. È continuo modificare. È un continuo sbagliare. Solo dopo tutto questo lunghissimo percorso si arriva a qualcosa. Cosa? Una parte di noi, qualcosa in cui ci siamo, in cui riusciamo a sentire la vibrazione del nostro essere.
Nella società occidentale siamo stati abituati a dare all’errore un’accezione negativa, a vederlo come il male e che la perfezione – chissà poi cosa vuol dire – invece dovesse essere esaltata e conservata.

Ricordo dei monaci buddisti che stavano realizzando un mandala, un’esperienza straordinaria. Ognuno di loro metteva dei granelli di sabbia a comporre la sua parte di mandala e tutti lavorano in armonia sapendo quello che c’era da fare, non che “dovevano” fare. Nessuno gli aveva detto nulla. Loro lo sapevano.
Mandala è una parola sanscrita che si traduce in modo approssimativo come “cerchio” o “centro”. Per quanto concerne il significato di tale disegno possiamo affermare che spesso questa parola è associata a disegni circolari che hanno colori, forme e motivi ripetuti che si irradiano dal centro, possono essere precisi, misurati con cura, geometrici e perfettamente simmetrici, o in contrasto, fluidi, organici e asimmetrici. In pratica il disegno mandala corrisponde spesso a grafiche circolari ma può anche riprodotto come forme quadrate spesso usate nei disegni tibetani.
L’uso dei disegni Mandala si trova frequentemente nelle filosofie orientali, come la filosofia buddista e indù. È stato anche adattato dalle filosofie occidentali. Il lavoro di Carl Gustav Jung, una delle figure centrali dell’ultimo secolo e mezzo, è una delle principali fonti di conoscenza ed è rappresentativo dell’influenza di tale simbolo nella cultura occidentale. Jung pensava che questi disegni fossero una rappresentazione dell’inconscio collettivo che è una rappresentazione di una forma dell’inconscio è diverso dal concetto freudiano di subconscio e inconscio. Ha descritto il disegno simbolico come “auto-archetipo” e il suo uso è stato documentato nella terapia junghiana del gioco.

Ho abbozzato ogni mattina su un quaderno un piccolo disegno circolare, una figura geometrica che sembrava corrispondere alla mia situazione interiore in quel momento… Solo gradualmente ho scoperto cos’è veramente tale magico simbolo disegnato… il Sé, la totalità della personalità, che se tutto va bene, è armoniosa”. – CG Jung –

Granello dopo granello i monaci finirono il mandala. Bellissimo. Non trovo termine più. Però, è straordinario vedere loro stessi distruggerlo. È un’emozione incredibile. L’opera di distruzione è fatta perché secondo la loro religione non ci deve essere l’attaccamento. Già. In fondo la perfezione, nonostante qualcuno dica il contrario, altrimenti dovrebbe tutti suicidarci in preda alla noia! Pensiamo a quanto spesso noi usiamo il termine stra-ordinario. L’errore è ciò che ci permette di continuare a creare. Nietzsche parlava della stella danzante che l’uomo può partire dal caos che ha dentro di sé, Adorno, altro filosofo fra i massimi del Novecento, scrisse Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.
Potrei fermarmi qui, però che condivido totalmente. L’ha detto il più grande street artist vivente, proprio Banksy; L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo.

Si, io credo che l’arte sia un errore, come lo è la vita, la questione è uscire dal dualismo occidentale del buono/cattivo. Questa è la grande questione, come facciamo a dire cos’è buono o cattivo. Spiacente ma non è mio compito e soprattutto credo che sia questione davvero troppo personale.