The philosophers have only interpreted the world in various ways. The point, however, is to change it.

[I filosofi hanno soltanto interpretato in modi diversi il mondo; ma ora la questione è di cambiarlo.]

 

 (L’undicesima tesi su Feuerbach,
epitaffio sulla tomba di Karl Marx)

 

 

[Avvertenza: i rimandi a risorse online che si trovano nel testo e nelle note portano spesso a pagine in lingua inglese. In particolare per le pagine di Wikipedia, salvo una o due eccezioni, si è sempre fatto riferimento alla versione inglese in quanto, soprattutto per molti degli argomenti trattati in questo lavoro, appare più precisa e completa. Tuttavia, come è noto, per accedere alla versione italiana basta scegliere questa lingua nell’elenco che appare sulla sinistra di ogni pagina. Sono poche, dunque, le pagine che non danno accesso a un corrispondente in italiano. I libri sono sempre indicati nella loro versione italiana.]

 

La “formazione aziendale”, ovvero la formazione rivolta agli adulti che lavorano, può ormai essere considerata una professione tecnica. Questo, tuttavia, non vuol dire che il discorso su questa formazione si debba ridurre ai tecnicismi o agli aspetti applicativi. Anche il tecnico, soprattutto oggi, deve pensare in modo strategico e deve collocare la propria azione professionale nello scenario di un cambiamento che si sviluppa con le caratteristiche della profondità (tocca i fondamenti di ciò che coinvolge), della continuità (non si arresta), della velocità (non rallenta, anzi accelera) e della dimensione planetaria.

La connessione tra cambiamento e formazione è quasi automatica: si sviluppa una necessità di cambiamento… dunque servono nuove conoscenze… le diamo agli interessati con una bella iniziativa di formazione e il gioco è (dovrebbe essere) fatto. Tuttavia, l’esperienza degli ultimi decenni ha dimostrato che le cose sono un po’ più complesse.

 

QUALE cambiamento

Innanzitutto bisogna chiarire a quale tipo di cambiamento di riferiamo. Non sembri paradossale ma è più facile chiarire questo concetto se partiamo da un rapido esame della formazione degli adulti collegata al lavoro nel momento presente. La miriade di interventi formativi possibili e realizzati può essere classificata in tre tipi fondamentali:

  • Formazione obbligatoria (sicurezza sul lavoro, privacy, pari opportunità e via dicendo).

  • Formazione tecnica (addestramento all’uso di nuove macchine, nuove tecnologie, nuove procedure amministrative e simili).

  • Formazione di supporto diretto al cambiamento (tutti gli interventi che riguardano i comportamenti e le relazioni tra persone nel luogo di lavoro, dalla comunicazione interpersonale al lavoro in squadra, dalla leadership alla visione sistemica).

L’ultimo è il tipo più critico perché, per poter affermare che ha avuto successo, si deve realizzare il cambiamento di alcuni schemi mentali. Stiamo parlando di cose piccole, ovviamente, rispetto a questioni come il sistema dei valori o gli ideali di riferimento; non stiamo parlando di conquistare “cuori e menti”i o di condizionare ideologicamente i lavoratori. Al contrario! Faccio un paio di esempi per spiegarmi meglio, traendoli dal mio bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Mi capita di lavorare in progetti di formazione (tipicamente progetti finanziati) di medio-grandi dimensioni, in équipe con vari colleghi aventi competenze e provenienze diverse. Nel giro di pochissimo tempo si distinguono bene quelli che svolgono abitualmente attività libero-professionali perché continuano a comportarsi da solisti, come se fossero soli di fronte agli utenti, mentre stanno lavorando in un sistema organizzato (per quanto “mini”). Per esempio è comune che non documentino il loro lavoro secondo le procedure previste ma lo facciano con ritardo e dopo molti solleciti; il coordinatore li deve continuamente inseguire per tenere aggiornati gli archivi e, quando vengono richiamati per questo, reagiscono con stupore. Un altro caso mi è stato riportato, molti anni fa, da colleghi impegnati in progetti di aiuto ai Paesi emergenti e riguarda l’addestramento del personale nativo all’uso delle macchine (tipicamente per il trasporto, per il movimento terra o per l’agricoltura): diventavano facilmente dei buoni operatori mentre era difficilissimo trasmettere il concetto di manutenzione. Il tasso dei guasti era elevato in modo abnorme perché questa raramente veniva fatta secondo le prescrizioni; occuparsi della macchina quando non lavorava era qualcosa che semplicemente entrava in testa con molta difficoltà.

Qui sta il punto. C’è un semplice salto di mentalità da realizzare: quando lavori in un sistema organizzato devi partire dal presupposto che tutto ciò che fai non è “tuo” ma ricade sui tuoi colleghi e produce effetti sul sistema. Dunque per ogni cosa che fai devi pensare anche a comunicarla nei modi più opportuni e alle sue conseguenze. Analogamente: quando usi una macchina devi pensare che l’efficienza dello strumento non è data a priori e che va mantenuta prendendosene cura nel modo prescritto. Sembrerebbe facile; eppure nella pratica risulta molto difficile. Da notare che gli interventi volti a prevenire o correggere questo effetto si concentrano di solito sulla parte informativa: si ripetono e si moltiplicano le informazioni (si rispiega, più volte, cosa deve essere fatto) aspettandosi che questo di per sé produca il risultato (cioè il cambiamento di mentalità), cosa che tipicamente non accade. Naturalmente l’informazione è essenziale; il punto è che non basta.

Quindi: QUALE cambiamento? Quello più importante riguarda, appunto, gli schemi mentali consolidati, gli schemi di reazione e di comportamento stabilizzati. Qui il problema formativo vero è aiutare le persone a pensare il mondo e il lavoro in modo diverso da quello al quale sono abituate; la sfida è quella di facilitare lo sviluppo di un pensiero nuovo, ed è una sfida che siamo ancora lontani dal vincere.

 

Perché pensare in modo nuovo è così importante

La questione che ho appena posto è diventata cruciale proprio nella presente fase storica perché l’umanità è di fronte a un grave problema per risolvere il quale non può fare riferimento ad alcuna esperienza pregressa: è un problema del tutto NUOVO. Partiamo da un inquadramento generale:

Lo straordinario successo delle società industriali (verificatosi all’incirca negli ultimi due secoli) ha innescato processi che stanno sfuggendo al controllo dell’umanità e che rischiano di distruggere non solo queste stesse società ma, almeno in parte, il Pianeta Terra.

 

Dai problemi dell’ambiente alle turbolenze dei mercati finanziari e al diffondersi del disagio sociale abbiamo un campionario vasto e preoccupante. Un punto chiave è che, in teoria, l’umanità ha GIÀ tutti i mezzi per risolvere questi problemi; come mai non ci riesce?

 

Forse, nonostante millenni di filosofia, 4 secoli di scienza moderna e almeno 2 secoli di strabiliante progresso tecnologico, forse non abbiamo ancora capito bene come funziona l’essere umano. In termini più formali si può dire che scontiamo un “differenziale di velocità”:

Intendo dire che, per esempio, l’evoluzione naturale ha ritmi scanditi dai milioni di anni, quando non dai miliardiii:

  • Le prime forme di vita delle quali sia rimasta traccia sono databili a circa 4 miliardi di anni fa.

  • I primi vertebrati terrestri (piante primitive e insetti c’erano già) compaiono circa 350 milioni di anni fa.

  • Fra 237 e 66 milioni di anni fa la Terra è dominata dai Dinosauri. A questi subentreranno i Mammiferi.

  • 6-7 milioni di anni fa compaiono i primi ominidi; circa 2,5 milioni di anni fa appare il genere Homo, e la storia comincia a cambiare.

 

La comparsa del genere Homo ha introdotto sulla scena naturale un fattore nuovo: la CULTURA. Parte un’evoluzione di nuovo tipo che si gioca su tempi molto più ristrettiiii:

  • All’inizio ci sono solo sassi, prima grezzi e poi scheggiati con progressiva sapienza. Ma i progressi sono lenti e poco cambia fino a circa 200.000 anni fa. Unico passo avanti notevole è il controllo del fuoco, realizzato tra un milione e mezzo e mezzo milione di anni fa (i reperti fossili non consentono ancora datazioni più precise).

  • Nel genere Homo, che in tutto ha annoverato 6 specie, 200.000 anni fa compare quella più nuova, Homo sapiens, l’unica rimasta oggi in vita (cioè: siamo noi). L’evoluzione culturale accelera e le pietre cominciano ad essere levigate, non più scheggiate.

  • Un po’ più di 40.000 anni fa compare la prima macchina della storia: l’arco, che trasforma l’energia elastica del legno piegato nell’energia cinetica della freccia. Poi si raffinano gli strumenti da caccia, per esempio fabbricando in osso arpioni e ami elaborati.

  • A questo punto, rispetto alle scale temporali dei passaggi precedenti, il progresso diventa una corsa: 12.000 anni fa la domesticazione degli animali e, a ruota, l’agricoltura stanziale; compaiono i telai e le prime forme di scrittura.

  • Circa 5.300 anni fa inizia l’era dei metalli, con il bronzo; circa 3.200 anni fa Homo sapiens diventa capace di lavorare il ferro. Nel frattempo (circa 3.500 anni fa) ha inventato la ruota e ha lasciato tracce dei primi abachi (le calcolatrici della preistoria).

  • Circa 2.700 anni fa compare l’arco architettonico e, poco dopo (circa 2.500 anni fa), troviamo tracce delle prime biblioteche. Siamo all’Anno zero del nostro calendario attuale e già l’umanità ha visto sorgere e cadere regni e imperi e ha prodotto raffinate opere d’arte delle quali possiamo godere ancora oggi.

 

Per altri 1.500 anni circa sembra che accada poco di eclatante, dal punto di vista del progresso; in realtà, si stanno accumulando quelle conoscenze e quelle energie che porteranno alla più incredibile fioritura mai vista sulla scena della storia:

  • Tra il 1.500 e il 1.600 si avvia la rivoluzione scientifica (Copernico, Galileo, Keplero)iv. Il suo aspetto più interessante è che le scoperte (come le straordinarie invenzioni che le accompagneranno) sono rese possibili proprio da un fattore culturale: questi studiosi furono capaci di pensare la Natura in modo diverso da come era stata pensata prima di loro. Gli strumenti scientifici e i nuovi approcci che usarono, e che servirono per confermare le nuove idee, furono più la conseguenza di un modo nuovo di pensare che la loro causa.

  • Nel Seicento si cominciano a fabbricare merci con il sistema della manifattura grazie all’affermazione del modello economico basato sul capitale (originatosi nel Rinascimento); finché, nel Settecento, la rivoluzione scientifica si incontra con il modo di produzione capitalista e troviamo, da una parte, Isaac Newton e la teoria della gravitazione universale; dall’altra James Watt e la macchina a vapore. Inizia una nuova rivoluzione industrialev.

  • Ora siamo negli ultimi due secoli della nostra storia e la corsa diventa frenetica: l’Ottocento fa registrare l’uso industriale dell’elettricità, l’analisi scientifica del lavoro e la produzione in serie; agli inizi del Novecento la produzione in serie viene meccanizzata da Henry Ford con la catena di montaggio di tipo moderno, e si procede così fino all’automazione, ai computer e alla rivoluzione informatica.

Per quanto non sia stato esente da difetti, gravi squilibri e ingiustizie, appare innegabile che il modello di sviluppo della civiltà industriale abbia prodotto, e diffuso, benessere per un paio di secoli, prima di entrare nella crisi attuale. Io mi sono soffermato sul settore dell’industria, in particolare di quella meccanica, ma solo per motivi di spazio; mi è ben chiaro che in tutti i settori sono stati compiuti progressi enormi, e basti pensare alla chimica (la plastica, non fosse altro) e alla medicina-biologia (gli antibiotici, tanto per dirne una). Mi è ben chiaro anche che, guardando al progresso umano da un punto di vista sistemico, dopo questa carrellata dobbiamo porci una domanda: come se la sta cavando l’essere umano, alle prese con il differenziale dei tempi fra evoluzione naturale, rivoluzione scientifica e progresso tecnologico nel momento in cui quest’ultimo sta accelerando progressivamente? In sintesi direi che è in difficoltà, ma vediamo un po’ meglio.

L’evoluzione naturale è scandita al ritmo dei milioni di anni mentre l’evoluzione culturale è scandita al ritmo dei secoli (o, al più, dei millenni). Questo significa che noi esseri umani, da un punto di vista biologico, siamo gli stessi dell’età della pietra mentre viviamo in società sofisticate dove i comportamenti cavernicoli sono un intralcio. Ora, le nostre capacità culturali, che implicano anche la capacità di modificare i nostri schemi mentali, ci consentono di gestire il rapporto con il cambiamento; tuttavia ciò è possibile entro certi limiti e a certe condizioni. Per esempio il sistema di produzione industriale, per funzionare bene, richiede una cultura di base diversa da quella coerente con un sistema di produzione agricolo; così come i comportamenti sociali coerenti con la democrazia di massa sono diversi da quelli coerenti con le monarchie. Non è una pura questione di imparare tecniche nuove o di apprendere nuove conoscenze: bisogna imparare a pensare le cose in modo diverso. Questo passaggio non è semplice come potrebbe sembrare; in effetti può risultare impossibile, o semplicemente inaccettabile, per molte persone. Se c’è il tempo per aspettare il ricambio generazionale (una scala temporale tarata sui secoli, o almeno sui molti decenni), i cambiamenti possono anche avvenire in modo softvi; quando il tempo non c’è, i grandi cambiamenti sono stati spesso, nella storia, accompagnati da bagni di sanguevii.

Sono queste considerazioni che ci riportano alla carrellata che abbiamo fatto sul progresso: il punto è che non è finita e siamo al centro di una vertiginosa serie di innovazioni tecnologicheviii che procedono a ritmi scanditi in ANNI, o anche menoix. La conclusione è semplice: non ce la possiamo fare perché, lasciati alla spontaneità, i nostri schemi culturali richiedono condizioni e tempi incompatibili con i ritmi del progresso tecnologico. Non facciamo in tempo ad abituarci, faticosamente, a un nuovo contesto che quello è andato avanti e diventa sempre più irraggiungibile; dato l’aumento generalizzato dell’età media (almeno per noi che viviamo, per quanto in mezzo ai problemi, nelle società relativamente più fortunate), la cosa rischia di assumere proporzioni catastrofiche. Il digital dividex non c’è solo tra le nazioni industrializzate e le altre ma c’è, ed è pesante, all’interno delle stesse società cosiddette avanzatexi.

Insomma: abituarsi a pensare le cose in modo nuovo (e a rivedere periodicamente il nuovo pensiero) sarebbe fondamentale in un mondo che cambia così velocemente. Ecco il problema nuovo, la domanda nuova alla quale rispondere: siamo in difficoltà a causa del differenziale di velocità tra il progresso tecnologico e la spontanea attitudine al cambiamento degli esseri umani; ma questo va preso come un dato assoluto (cioè non ce la facciamo e non ce la faremo mai a superare il gap) oppure come un dato contestualizzato (cioè non ce la facciamo da soli, mentre con un aiuto adeguato ce la potremmo fare)? Più formalmente: è possibile accelerare i processi di cambiamento culturale in modo orientato? E, se la risposta è positiva, quali sono le CONDIZIONI che possono consentire questa accelerazione?

Grandi cambiamenti culturali, come dicevo anche poco fa, sono documentati, nella storia; però, di solito, noi li leggiamo a posteriori, dopo che sono avvenuti. La sfida oggi è la seguente: è possibile intervenire in diretta, e in modo orientato, sui processi storici? E’ possibile intercettare la storia mentre si svolge? Su questo punto l’umanità appare in grave affanno. A tutti gli effetti non siamo in grado di affermare con certezza che ciò sia possibile. Tra l’altro, parlando da persona comune che legge i giornali, mi pare che questo affanno sia ben evidenziato dalle difficoltà degli esperti, più o meno in ogni disciplina: i guru della finanza, gli spin doctors dei politici e le indagini demoscopiche hanno collezionato una serie di insuccessi clamorosi, negli ultimi due decennixii.

 

Tentativi di accelerare la storia

Siamo in affanno e non sappiamo nemmeno se l’operazione sia fattibile. Tuttavia non abbiamo alternative al provarci, date le circostanze che stiamo vivendo; e in effetti ci abbiamo provato. Che mi risulti, il primo esempio documentato di uno sforzo organizzato in questo sensoxiii viene dal Vietnam del dopoguerra ed è stato raccontato da Tiziano Terzanixiv: dopo la conquista di Saigon si avviò il periodo della rieducazione per chi era appartenuto alla vecchia amministrazione e dell’emancipazione per tutta la popolazione del Sud-Vietnam. Il cambiamento era stato, in effetti, radicale, e il Terzani cronista osserva con occhi attenti un tentativo di accelerazione della storia che a lui appare non violento e, almeno relativamente al periodo di riferimento, efficace. La parte più interessante è quella dei “processi popolari”, nei quali le vittime sopravvissute erano messe a confronto diretto con i loro aguzzini e potevano pubblicamente accusarli. La funzione di questi processi era catartica ed emancipatoria, appunto, non giudiziaria; l’obiettivo era far sentire le vittime riconosciute nella loro condizione e dare loro modo di esprimere e sfogare il loro dolore. Le condanne a morte espresse dal pubblico alla fine dei processi dedicati ai casi più gravi (torturatori, assassini) non venivano poi eseguite, secondo quanto risultava a Terzani; il punto era quello di troncare i legami col passato negli schemi mentali della popolazione coinvolta.

Un caso più recente è quello della Commissione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica del post-apartheidxv, che ha caratteri un po’ diversi ma che opera nella stessa direzione di accelerare la storia in riferimento agli schemi mentali delle persone coinvolte. Ho letto che l’esperienza è stata replicata in altre Nazioni ma su questo non sono informato; sono poco informato (credo che nessuno sia informato abbastanza) anche sugli effetti di questi tentativi: si è riusciti ad accelerare la storia in una direzione prestabilita? Ci vorrebbero ricerche sociologiche longitudinali; uno studio della Cornell University (http://www.law.cornell.edu/wex/south_african_truth_commission) osserva che, nonostante il forte sostegno di Mandela alla Commissione, l’applicazione delle raccomandazioni della Commissione non fu lineare. L’efficacia di questi processi socio-storici è ancora un terreno da esplorare.

Ma tentativi sono stati fatti anche in situazioni meno drammatiche di quelle di un dopoguerra; pensando alla situazione italiana mi vengono in mente due cose:

  • Giancarlo Lombardi, la Confindustria e il progetto mirato alla “qualità di massa” della scuola pubblica.

  • I tentativi di diffondere il modello “lean organization” in Italia e il Convegno Assolombarda del 1999 sulla “crisi del governo dell’organizzazione”.

L’imprenditore tessile Giancarlo Lombardi, Ministro della Pubblica Istruzione nel 1995-1996, provò a portare avanti questa idea (anche come esponente di spicco della Confindustria) nella cornice del suo progetto sulla “scuola come luogo d’impresa”. Al di là delle posizioni ideali e ideologiche, sulle quali si può concordare o meno, l’idea era quella che una nazione moderna e prospera, per garantirsi il futuro, non poteva fare a meno di investire sulla qualità sostanziale del suo sistema educativo, investendo risorse e premiando il merito a tutti i livelli affinché gli studenti (in massa, appunto) uscissero dal percorso con una formazione di elevata qualitàxvi. Non ho avuto il tempo di studiare a fondo la cosa, anche se mi ricordo bene l’atmosfera degli Anni ’90 e gli innumerevoli convegni che si organizzavano sul sistema scolastico (ad alcuni dei quali ho presenziato). C’era fervore, prima che il progetto venisse di fatto abbandonato.

Il caso del convegno Assolombarda è particolarmente interessantexvii. Il mercato stava cambiando rapidamente e le organizzazioni stavano cercando di adattare processi e organigrammi al nuovo che avanzava; era nato il concetto di lean organization, di organizzazione snella, ovvero non piramidale, “piatta” o quasi. I materiali disponibili su questo tema si concentrano sugli aspetti più tecnici del nuovo modello organizzativoxviii; tuttavia il suo maggiore interesse sta nella “filosofia” di fondo, che deriva (guarda caso) da un modo nuovo di pensare alla realtà delle organizzazioni. La filosofia è il decentramento delle responsabilità: poiché il mercato è diversificato nello spazio e volatile nel tempo, solo chi sta sul front-line è in grado di intercettarlo correttamente; quindi deve avere sufficiente autonomia operativa per poter reagire in modo contestualizzato. Questo implica che sia capace di (e disposto a) assumersi responsabilità, decidere e rischiare. E il modello si dovrebbe applicare a cascata ad ogni livello dell’organizzazione, fino a quelli più bassi.

Un risvolto aneddotico ma interessante è che i teorici dell’organizzazione snella erano convinti che la cosa sarebbe stata accolta favorevolmente dai lavoratori; avendo alle spalle decenni di critica al lavoro a catena, alienante e deresponsabilizzato, nel momento in cui gli esperti riportavano al centro la persona e le attribuivano responsabilità, i lavoratori avrebbero dovuto essere contenti. Invece reagirono negativamente e si verificò il fenomeno definito “il rimbalzo della delega”: la periferia non ne voleva sapere della “generosità” dei vertici. Aveva ragione, la periferia? Non lo so; certo avevano delle ragioni per non fidarsi. Innanzitutto perché il cambiamento arrivava dall’alto invece che attraverso un percorso condiviso (non era “roba loro”); poi perché sembrava uno scarico, sui livelli medio-bassi dell’organizzazione, di un problema dell’intero sistema.

Su quest’ultimo punto, cioè sullo “scarico”, in effetti alcune esperienze che ho fatto dopo mi hanno dato conferme. Mi è capitato con una certa frequenza, negli ultimi 15 anni, di intervenire in progetti di change management nei quali l’alta dirigenza cercava di realizzare il cambiamento formando “altri”, cioè i livelli medio-bassi del sistema organizzato. Insomma: il “dobbiamo cambiare” veniva operativamente declinato in “dovete cambiare”, era sempre qualcun altro che doveva cambiare. Ma, allora, se così non funziona, c’è un modo per far funzionare gli interventi di supporto al cambiamento all’interno di una specifica organizzazione? Forse si.

 

QUALE formazione per QUESTO cambiamento

Come accennavo all’inizio, la connessione tra formazione e cambiamento non è automatica come sembra. Inoltre rimane l’incertezza strutturale legata al fatto di non sapere se l’accelerazione dei processi di cambiamento culturale sia effettivamente possibile o meno. Tuttavia ci sono esempi incoraggianti e la lunga esperienza ormai accumulata nel mondo della consulenza e della formazione consente di tracciare un primo, provvisorio elenco delle condizioni che permettono di ottenere un effetto di accelerazione quando si realizzano. La cornice metodologica di un intervento di supporto al cambiamento, affinché questo sia efficace, è la seguente:

  • Non è mai una sola condizione che produce il risultato ma è sempre il convergere di più condizioni, le quali devono mandare segnali che, per quanto diversi, devono risultare tutti coerenti con il cambiamento da realizzare nell’organizzazione.

  • Non è più possibile distinguere tra consulenza e formazione perché tutto il percorso, anche se prevede passaggi in aula, va disegnato sull’organizzazione coinvolta e deve essere avviato e seguito non solo in continuo raccordo con chi la dirige, ma anche entrando in sintonia con il contesto in cui si opera.

  • Il prêt-à-porter della formazione non funziona più (ammesso che abbia mai funzionato): gli interventi devono essere tutti tailor-made, personalizzati sul caso specifico, alla cui conoscenza (il più approfondita possibile) va dedicata la parte iniziale dell’intervento.

 

All’interno di questa cornice vanno attivati DUE processi, e non uno: un processo che coinvolga i committenti e un processo che coinvolga i destinatari:

  • Processi che coinvolgono il Committente:

    • Commitment (forte orientamento dei vertici a realizzare il cambiamento necessario).

    • Sponsorship interna (il forte orientamento a cambiare deve essere esplicitamente comunicato, cioè il Committente ci deve “mettere la faccia”).

    • Destinazione di risorse adeguate (non necessariamente, e comunque non solo, risorse finanziarie, ma certamente almeno risorse organizzative).

    • Struttura organizzativa interna al processo di cambiamento (anche minima ma non inesistente), con l’individuazione di un Responsabile che segua l’andamento dei lavori.

    • Accompagnamento (far sentire la presenza dei vertici, anche se non in modo insistente, lungo tutto il percorso).

  • Processi che coinvolgono i destinatari:

    • Assunzione del mandato proveniente dai vertici (evento di start).

    • Coinvolgimento nel progetto anche attraverso attività di ricognizione preliminare (interviste, focus-group e via dicendo).

    • Organizzazione in gruppi piccoli, nella logica dei Gruppi di miglioramento.

    • Interventi formativi mirati sulle necessità dei gruppi in funzione degli obiettivi.

    • Monitoraggio costante e regolazione continua (da parte del consulente-formatore in accordo con il Responsabile e con i vertici).

 

Tutto questo significa innanzitutto che, per supportare il cambiamento, anche la formazione deve cambiare. Non si lavora “sulle” persone ma CON le persone che lavorano, perché solo chi possiede gli schemi mentali li può cambiare; dall’esterno questo non si può fare, non esiste lo strumento formativo che, da solo (e magari contro la volontà dei partecipanti) produce il risultato. La volontà dei partecipanti è un fattore critico di successo e il lavoro del consulente-formatore è esattamente quello di creare le condizioni che facilitino l’espressione di questa volontà nel senso più funzionale possibile alle necessità dell’organizzazione. Attenzione: di nuovo il punto non è quello di condizionare o imbonire i destinatari, bensì quello di negoziare la condivisione di significati vantaggiosi per tutti. Il presupposto è che il benessere dell’organizzazione e il benessere di chi ci lavora sono legati, e il gioco consiste nel cercare il punto di equilibrio al quale queste due condizioni sono al livello massimo possibile. A questo gioco è inutile cercare di barare: la gente si può imbrogliare una volta sola mentre il benessere del sistema E delle sue parti richiede la continuità dei comportamenti e delle condizioni facilitanti.

Sul piano teorico, l’idea portante di questo approccio è una certa concezione del pensiero (meglio: del pensare). Il pensiero umano, quella cosa che ci differenzia da tutti gli (altri) animali, ciò che “ci rende umani”, è, da un lato, una caratteristica spontaneamente presente nel nostro sistema nervoso: noi pensiamo anche se non vogliamo, non possiamo arrestare il flusso dei pensieri e solo entro certi limiti possiamo scegliere cosa pensare. Dall’altro lato, l’intervenire secondo le linee-guida che siamo andati tracciando implica che noi consideriamo il pensiero anche come uno STRUMENTO che può essere raffinato e che si può imparare a usare meglio. Si può arrivare, insieme, con un sostegno adeguato e usando la volontà, a pensare le cose in modo nuovo. Favorire, facilitare un processo spontaneo di cambiamento (provare a forzarlo non servirebbe) è possibile, e il metodo che lo consente è quello descritto qui sopra. Ovviamente lo schema proposto non scende al livello delle soluzioni operative perché la trattazione di queste esula dai limiti di questo scritto.

Tra i cambiamenti che riguardano la formazione (quindi anche la professionalità docente) uno dei più impegnativi è la necessità di creare strumenti ad hoc per i casi sui quali si interviene. Non è più sufficiente far riferimento all’armamentario classico delle slide e delle esercitazioni che, ormai, si trovano anche su Internet; piuttosto bisogna disegnare storie e inventare strumenti che siano coerenti non con una tipologia, ma con lo specifico contesto sul quale si interviene. E’ proprio per questo che il supporto al cambiamento richiede un contatto continuo del formatore-consulente con il committente e con l’organizzazione. Per esempio in un recente intervento formativo sulla negoziazione, insoddisfatto delle esercitazioni classiche, che mi parevano del tutto inadatte al caso, ne ho inventata di sana pianta una fortemente contestualizzata, con tutti i materiali accessori che erano necessari e con l’aggiunta di modalità innovative per l’analisi ex-post, da realizzare insieme ai destinatari. Ma tutto questo è stato possibile solo grazie alla fase preparatoria, gestita come un’intensa fase conoscitiva utilizzando colloqui, interviste e focus-group; è proprio la sintonia che si è creata tra me e la committenza e tra me e l’organizzazione che, nel momento della creazione del nuovo strumento, mi ha guidato verso una soluzione coerente con il sistema.

Un altro cambiamento fondamentale riguarda la valutazione degli interventi di questo tipo. Dei cinque livelli teorici ai quali può essere valutata la formazionexix, molto raramente si va oltre il secondo; cioè molto raramente si va oltre ciò che può essere rilevato in aula perché i livelli superiori implicano ritorni sul campo in un momento successivo all’intervento e, a parte le difficoltà di definire indicatori e disegnare strumenti adatti, ciò significa che vanno impegnate altre risorse (le quali, oltretutto, non influiranno più sulla preparazione dei partecipanti, quindi non saranno investite in modo direttamente produttivo). Il cambiamento nelle modalità di valutazione appare necessario perché, per la formazione del terzo tipo, finora i primi due livelli erano sufficienti a farsi un’idea; anzi, di fatto il successo di un corso si misurava essenzialmente sul gradimento finale espresso dai corsisti. La cosa era anche logica, considerando che un intervento che non fosse associato a un’esperienza gradevole e positiva ben difficilmente avrebbe potuto lasciare tracce nella successiva gestione delle relazioni da parte dei destinatari.

Nella prospettiva che sono andato delineando (questa formazione per questo cambiamento) le cose sono diverse: se devono cambiare gli schemi mentali, ciò che conta è l’impatto su di essi. Le persone vanno stimolate, più che accompagnate, e vanno sollecitate e aiutate a sviluppare reazioni autonome e divergenti, di fronte alle situazioni prospettate. Se prima si accompagnavano (sia pure sempre attraverso attivazioni dinamiche) verso soluzioni in qualche modo già disponibili, ora vanno sfidate con problemi. Un’esercitazione efficace vuol dire, almeno un po’, mettere persone e gruppi davanti a uno specchio; se lo specchio riflette qualcosa che non piace, il gradimento non può essere alto (per esempio ci resto male, o provo vergogna per non essere stato all’altezza della situazione, sia pure simulata). Tuttavia ciò non significa automaticamente che l’effetto sugli schemi mentali sia mancato perché, anzi, può essere proprio grazie a questo che l’impatto risulta efficace. Insomma: anche per valutare questa formazione ci servono strumenti nuovi.

 

Conclusioni

E’ possibile intercettare la storia mentre si svolge? È possibile orientare in modo finalizzato i processi socio-storici? Non lo sappiamo, nel senso scientifico del termine, perché è un problema del tutto nuovo. Però due cose le sappiamo con assoluta certezza:

  1. Non abbiamo alternative al provare e sperimentare perché, se non troviamo il modo, il differenziale di velocità continuerà a crescere e il futuro dei sistemi sociali di questo Pianeta appare veramente a rischio.

  2. Se cambiamo la domanda cambia anche la prospettiva: se passiamo dall’alternativa secca “è possibile o no” al quesito operativo su “quali sono le condizioni” che possono rendere efficaci interventi di questo tipo, allora potremo anche trovare risposte operative e i sistemi sociali di questo Pianeta avranno delle chance.

 

 

i L’espressione “cuori e menti” (to win hearts and minds) viene dalla strategia militare contemporanea. Fu coniata dagli inglesi nel caso della ribellione in Malesia durata dal 1948 al 1960 (the Malayan emergency, http://en.wikipedia.org/wiki/Malayan_Emergency) e, in sostanza, significa che una guerra moderna (in particolare quella contro le rivolte e le rivoluzioni) non si combatte solo con le armi ma anche cercando, appunto, di conquistare “cuori e menti” dei possibili simpatizzanti del nemico (per una presentazione generale http://en.wikipedia.org/wiki/Winning_hearts_and_minds). Per esempio portando servizi (elettricità e acqua corrente) dove non ci sono, sostenendo l’economia locale, sviluppando iniziative culturali. La strategia è stata impiegata, con gli adattamenti necessari ai tempi e ai luoghi, in Vietnam (http://en.wikipedia.org/wiki/Hearts_and_Minds_%28Vietnam%29), in Iraq (http://en.wikipedia.org/wiki/Hearts_and_minds_%28Iraq%29) e in Afghanistan (Operazione “Jatagani”, https://globalecco.org/it/operation-jatagani). Il punto di vista dell’APA (American Psychological Association) in materia si trova all’URL http://www.apa.org/monitor/jun03/operation.aspx.
Osservazione personale: visto come sono andate le cose in tutti i posti citati, non sembra che questa strategia si possa definire un successo.
Nota nella nota: è una curiosità, ma è anche rivelatore, il motivo per il quale l’emergenza malese fu chiamata così. Il motivo è che i proprietari della piantagioni di gomma e delle miniere di stagno fecero pressione (sul Governo inglese, presumo) affinché non si parlasse di “guerra”, altrimenti i Lloyd’s di Londra non avrebbero coperto i danni subiti a causa della ribellione.

 

ii Per una scala ragionata dei tempi geologici si veda https://en.wikipedia.org/wiki/Geologic_time_scale .

iii Per una mappatura delle specie dei primati dagli ominidi all’uomo moderno si veda http://en.wikipedia.org/wiki/Human_evolution/Species_chart ; per una carrellata sui tempi dell’evoluzione umana si veda http://en.wikipedia.org/wiki/Timeline_of_human_evolution .

iv Sulla rivoluzione astronomica in termini generali si può vedere, oltre alla solita pagina dedicata di Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_astronomy), il saggio di Graziella Federici Vescovini su Alexandre Koyré, grandissimo epistemologo (http://www.consiglio.regione.toscana.it:8085/news-ed-eventi/pianeta-galileo/atti/2006/20_federici.pdf; il saggio è stato scritto in occasione dell’evento “Pianeta Galileo 2006”, organizzato dalla Regione Toscana e i cui atti completi si trovano all’URL http://www.consiglio.regione.toscana.it/default.aspx?nome=PGATTI_2006). Inoltre due delle opere fondamentali dello stesso Koyré: La rivoluzione astronomica: Copernico, Keplero, Borelli, Feltrinelli, Milano, 1966; Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano, 1970. Sui singoli scienziati si vedano le relative pagine di Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Nicolaus_Copernicus (Copernico), http://en.wikipedia.org/wiki/Galileo_Galilei (Galileo) e http://en.wikipedia.org/wiki/Johannes_Kepler (Keplero).

v Sulla rivoluzione industriale, oltre alla Wiki-page http://en.wikipedia.org/wiki/Industrial_Revolution, che risulta anche di una qualità particolarmente buona, si possono consultare l’Encyclopedia Britannica (http://www.britannica.com/EBchecked/topic/287086/Industrial-Revolution) e il seguente testo della BBC: http://www.bbc.co.uk/history/0/20979973. Sui personaggi principali: http://en.wikipedia.org/wiki/Isaac_Newton (Newton) e http://en.wikipedia.org/wiki/James_Watt (Watt).

vi Un esempio di questo è la lenta evoluzione dei linguaggi, che gli epistemologi documentano studiandola ex-post.

vii Qui gli esempi sono troppi per poter azzardare una scelta; d’altra parte sono anche molto noti, soprattutto quelli relativi al Novecento, con due guerre mondiali e lager e gulag di ogni tipo. Può valere la pena di ricordare, quasi in contemporanea con la rivoluzione scientifica e quella industriale, la riforma protestante, accompagnata anch’essa dall’uso prolungato della violenza, e l’inurbamento forzato che accompagnò l’industrializzazione. Su quest’ultimo fenomeno ha scritto a lungo Karl Marx (sull’Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/karl-marx/, o sulla solita Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/Karl_Marx); per restare su livelli accessibili può essere utile consultare i primi due capitoli di questo paper teorico di dottorato della Dottoressa Francesca Menichelli (Università di Milano – Bicocca, 2009, http://www.sociologiadip.unimib.it/dipartimento/ricerca/pdfDownload.php?idPaper=784).

viii Non ci sono solo i computer e i Google glasses; c’è un settore della ricerca, sia pura che applicata, che sta producendo risultati strabilianti in termini di nuovi materiali. Le nanotecnologie (si veda questo studio della Commissione Europea: http://ec.europa.eu/health/opinions2/en/nanotechnologies/) e i materiali a singolo strato atomico come il grafene (http://en.wikipedia.org/wiki/Graphene) e i fullereni (http://en.wikipedia.org/wiki/Fullerene) sono solo due esempi tratti da un settore che lavora un po’ in sordina (per quanto sul grafene sia stato vinto anche un premio Nobel) ma che sembra avere grandissime prospettive.

ix Il vantaggio competitivo di un’innovazione introdotta da un’azienda sul mercato si misura in circa 6 mesi (cioè, si misurava alcuni anni fa, potrebbe già essersi ridotto… e non è una battuta).

x È stato chiamato così lo squilibrio nelle possibilità di accesso alle nuove tecnologie dell’informazione tra società avanzate ed emergenti (http://en.wikipedia.org/wiki/Digital_divide).

xi Per esempio negli Stati Uniti (http://en.wikipedia.org/wiki/Digital_Divide_in_the_United_States). Sul caso italiano non sono riuscito a trovare studi comparabili con quello appena citato e basati su analisi sociologiche; si trovano soprattutto studi sulle possibili soluzioni (che chissà quando ci saranno), soprattutto la diffusione della banda larga (per esempio i dati ufficiali di “Broadband 4 Italy” del 2012, http://www.broadband4italy.it/documenti/i-dati-ufficiali-sul-digital-divide-in-italia-ultimo-aggiornamento-mise-30-giugno-2012/). Può essere utile consultare questo breve articolo da “Le Scienze”: http://www.lescienze.it/lanci/2012/08/07/news/cnr_l_internet_italiano_cresce_ma_conferma_il_digital_divide-1200494/.

xii Non insisto sui guru della finanza perché le turbolenze che scuotono i mercati (oltre al disaccordo radicale che serpeggia tra gli economisti rispetto alle modalità più appropriate di intervento) sono la prova evidente di qualcosa che ha pesantemente disfunzionato. Per quanto riguarda spin doctors e agenzie demoscopiche, le ultime elezioni politiche italiane (febbraio 2013) hanno evidenziato, secondo me, serie difficoltà nelle loro capacità di previsione.

xiii Esclusi, naturalmente, i tentativi di ottenere e controllare il consenso con la pura violenza o con il lavaggio del cervello, precedenti al caso che sto per introdurre e ancora attivi in varie parti del mondo. Ciò di cui voglio parlare è la possibilità di facilitare e accelerare un processo (la modifica di schemi mentali pregressi) che comunque solo le persone interessate possono svolgere completamente; non intendo discutere dei mezzi atti a forzare comportamenti esteriori.

xiv Tiziano Terzani, Giai phong! La liberazione di Saigon, Feltrinelli, Milano 1976. Si vedano in particolare la parte quinta e la parte settima del Capitolo 3, dedicato ai 3 mesi che seguirono la conquista di Saigon da parte dell’esercito nord-vietnamita.

xvi Un minimo di documentazione: http://www.meetingrimini.org/detail.asp?c=1&p=6&id=1357&key=3&pfix=, tavola rotonda al meeting di Rimini (Comunione e Liberazione) del 1993; un articolo di Lombardi sulla formazione superiore in Italia: http://www.cestor.it/ar/2lombardi.htm.

xvii Lo studio di Aletheia alla base del convegno (vale la pena di leggerlo, ci sono anche alcuni casi aziendali) è scaricabile qui: http://aletheia-rc.it/source/05_contenuti_eventi-media/5.2-convegni/17.La%20crisi%20del%20governo%20dell%27organizzazione.PDF.

xviii Si veda, per esempio, questa dispensa http://www.leannovator.com/public/46613382_Dispensa_Lean_Organization_ESTRATTO.pdf oppure la Wiki-page, http://it.wikipedia.org/wiki/Lean_Organization, centrata proprio su metodi e strumenti operativi

xix I cinque livelli corrispondono alla valutazione: (1) del gradimento dei partecipanti; (2) degli apprendimenti dei partecipanti; (3) dei comportamenti dei partecipanti una volta tornati al posto di lavoro; (4) delle ricadute sull’unità organizzativa di appartenenza; (5) del ROI (Return on Investments), ovvero il vantaggio economico che l’azienda, dopo un dato tempo, può ascrivere all’intervento formativo. La complessità delle rilevazioni e del processo di valutazione sale (e salgono i costi) al crescere del livello. Per una trattazione approfondita si veda il grande classico Il processo di formazione, di Giampiero Quaglino e Gian Piera Carrozzi, Franco Angeli, Milano 1981.