“Da quando le ultime gocce della pioggia hanno preso a rallentare sull’obliquità dei tetti
e l’azzurro del cielo ha cominciato a specchiarsi lentamente sul centro lastricato della strada, il rumore dei veicoli ha preso un altro canto, più alto e allegro, e si sono sentite le finestre  che si spalancavano contro la fine della dimenticanza del sole”
Preparandomi a esistere
Fernando Pessoa.

Mia madre era Emma Bovary, mia madre era Anna Karenina, mia madre era Nora Helmar.
Nata da una madre di origini normanne. Nobile e spietata, la nonna. Nobile e segreta, la nonna.
Mia madre era la Regina Mida: trasformava tutto in oro. Intorno a lei tutto riluceva.
Il rapporto tra madre e figlio è  complesso, controverso, conflittuale.
Non essere madre vuol dire esserlo per  tutti coloro che ami. Il senso creativo della natalità non si spegne davanti all’oscurarsi del sole.
Ho cominciato ad amare mia madre che avevo otto anni. Prima lei non c’era. Prima lei era altrove.
Prima io vivevo con i nonni.
Quando ho letto il libro di Massimo Gramellini ho pensato che nulla era peggio del suicidio della propria madre.
Eppure lo scrittore ancora oggi, nello scrivere del suo piccolo enorme dramma di bambino, se ne tiene alla larga,  raccoglie con le pinze da orafo i frammenti sanguinanti, non se ne abbevera, non se ne  veste come un mantello ritrovato. Non spalanca le porte del suo cuore pronto a strapparlo, come per un intervento invasivo, per poi rimetterlo al suo posto, accarezzando la lunga cicatrice rimasta.
St. Aubyn,  scrittore inglese della saga dei “Melrose”, nel suo “Lieto fine” trova la forza empatica di comprendere sua madre Eleonor, solidale verso il mondo intero in una estasi di santità e completamente latitante nei confronti di un figlio violato dal suo stesso padre più e più volte.
Ci sono piccoli sprazzi, refole, occhiate di sole in tutti i rapporti madre-figlio, anche in quelli inaciditi, finiti da lungo tempo.
Ci sono grandi raggi lucenti che ci legano ad una madre riconosciuta tale.
Nel  pensare alle parole da usare per dirlo, mi sono fermata a riposare. E ho guardato un film.
Era lì da un po’ di tempo, tra dvd dimenticati.
C’era in copertina il volto di una delle mie attrici preferite, Judi Dench, e il nome nel titolo ricordava le nostre donne del Sud, anche se nobilitato da una P e da una H:  Philomena.
Il nome di mia nonna.
“Una storia vera” è il sottotitolo del libro da cui è tratto il film.
Un’adolescente negli anni 50 in Irlanda rimane incinta. In Italia a quell’epoca una ragazzina  del popolo di religione cattolica, che rimanesse incinta, aveva poche alternative di vita: sposare il “mascalzone”,  andarsene di casa a fare la puttana,  diventare monaca dopo aver lasciato il bambino sulle scale di una chiesa, abortire di nascosto grazie e terribili e dolorosissimi rituali di mammane tutto fare.
Se si apparteneva  ad una famiglia abbiente   madre e figlia  lasciavano casa per un lungo viaggio   e  al ritorno si festeggiava l’ultimo nato, il fratellino della ragazza in questione,  nato da sua madre e suo padre. Ovvero si abortiva nella clinica del più famoso “cucchiaino d’oro”,  chirurgo stimato, primario ginecologo di un importante ospedale cittadino.

Nella cattolicissima Irlanda i padri preferivano sbattere  in convento  le loro figlie- madri e dimenticarsene.
Philomena è la storia di un’adolescente di 16 anni incinta che viene rinchiusa in un convento per “figliare”.
Philomena è la storia di una ragazza schiavizzata da una comunità di suore.
Philomena è la storia di una giovane donna a cui viene strappato il figlio di tre anni.
Philomena è la storia di una signora  di 60 anni che cerca di ritrovare suo figlio, Anthony, perso cinquanta anni prima in una cupa mattina.
Philomena è la storia di una  gentile, mite signora che viene punita  dalla sua religione per aver amato:  “Il giusto castigo per la sua lussuria”.
Philomena è la storia di una donna che si chiede perennemente se suo figlio, nella sua esistenza di ricco americano, abbia mai pensato alla sua vera madre e alla sua patria irlandese.
Il distacco dal cordone ombelicale è  una operazione necessaria per la sopravvivenza, non una reale separazione. La lingua che si parla è quella “materna”.
Frears in questo suo bellissimo film cerca di allontanare qualsiasi segno retorico, qualunque facile sentimentalismo.
Philomena  è soprattutto una donna ferita, tradita, spogliata di tutto il suo corpo e la sua anima dalle persone in cui credeva con una fede inalterata. 
La crudeltà, la perfidia di una religione vissuta come vendetta verso la vita, verso l’amore, verso la creazione.
Philomena perdona chi le ha sradicato il cuore dal petto, è consapevole che l’odio da parte delle religiose è un  diritto acquisito da secoli di penitenze e “dimenticanze del sole”.
Divorano le carni di un Dio che da loro pretende devozione, sacrificio, dolore.
Philomena ha pietà di queste donne perse dietro una vita  senza sole, cupa, prigioniera, in catene.
Philomena, infine, ritrova suo figlio nello stesso luogo da cui è partito, bimbo dolce e incantato.
Si trova nel cimitero del convento dove nacque molti anni prima.
Era venuto a cercare sua madre, prima di morire di aids. E aveva avuto come risposta un diniego.
Loro, le sante sorelle di Dio, avevano  negando di sapere dove fosse  sua madre.
Avevano fissato i suoi occhi malati e avevano mentito ancora e ancora.
Philomena è la storia di un coraggio alimentato dalla consapevolezza della sofferenza.
“…non ci sono persone più coraggiose di altre, c’è solo chi affronta il dolore quando deve essere affrontato”
(Lorenzo Marone “La tentazione di essere felice”)