(Robert Taylor in “Donne verso l’ignoto” : “Smettetela di guardare come mucche orbe”)

“Sono nata molte volte. In luoghi diversi. Stanze buie, senso di morte, fatica costante senza fine.
Esausta, livida, stanca, incapace di vita, ero, terza, donna, indesiderata.”
Per un po’ mio nonno non volle vedermi, quando finalmente mi guardò  seppe che ero bella
e  mi amò. Ma per me non fu altrettanto facile. Avevo capito già nel ventre di mia madre che un figlio maschio sarebbe stato molto più ben accetto di me.
Già nel rifiuto di venir fuori quel mattino di marzo c’era la volontà di glissare sulla mia nascita. Così mi  avvolsi il cordone ombelicale intorno al collo, rischiando la morte per soffocamento e regalandomi quel senso di clautrofobia che mi  accompagna tutt’ora.
Da bambina, strana creatura, ero certa che tutti cambiassero sesso ad una certa età. Non so da che cosa nascesse questa convinzione, ci sono specie di pesci che lo fanno ma io non ne sapevo nulla, forse era la speranza di poter finalmente diventare maschio da grande.
Intanto raggiunsi vette di pensiero straordinariamente alte se a soli 11 anni mi convinsi che Dio non esisteva. Feci un sogno, riflettei il mattino dopo e dissi a me stessa” è una cazzata”. Non proprio così, non conoscevo ancora  quel termine.
Certamente da bambina ero più intelligente  che da alolescente, così è per tutti gli esseri umani, purtroppo. Appena un ragazzo cominciò a guardarmi mi sentii inadeguata, stupida, brutta, goffa e grassa.
E da allora iniziò il vero e faticoso commino per diventare una persona. Non lo sapevo ma sono gli uomini che ti mettono il cartellino, il prezzo di vendita: fanno pagelle e  danno voti.
A loro devi tutto. Mio nonno mi accettò perché ero bella, mi padre mi respinse perchè ero “stupida”.
Una comunione di “virtù femminili”. Incurvai le spalle per impedire che esplodessero i seni, non che fossero grandi, ma erano comunque il simbolo femminile per eccellenza.
Quando cominciai ad essere belloccia mi circondai di amiche più belle di me. Ero orgogliosa della loro presenza fisica, del fatto che lo sapessero e che ne traessero godimento.
Mia madre e le mie sorelle erano come dive del cinema. Io continuavo a desiderare di essere un maschio.
Comprai un jeans americano al mercato  di roba usata,  camicia  rosso fuoco e maglietta bianca,  a soli 11 anni, a 12  ne dimostravo 16, vestii come un giovane yankee.
La mia coda di cavallo mi trasformava in un vero puledro scalpitante.
Ero ancora abbastanza libera e anarchica da pensare quel che volevo,  farmi una idea del mondo e degli altri.
Poi arrivò l’amore.
Un ragazzotto “di vita” romano, uno della Garbatella, capitato a Salerno, chissà come.
Ballammo sul tetto di un albergo  tutta la sera.
Da quel momento divenni  cavia di me stessa. Una donna che sostiene di non aver mai lavorato in vita sua mente, o è ancora  una  piccola  “mucca cieca”.
La fatica per diventare  un consapevole e  sano essere  di genere femminile è inverosimile: è per questo che a volte si preferisce lasciare agli altri questo compito. Attraversi strade di  incomprensione,  autocritica,  pentimenti e disistima.
Costruisci labirinti senza uscita per restar ferma. Un tradimento dopo l’altro. Un’abiura dopo l’altra.
Io non sono competitiva. Credo di aver  imparato la solidarietà da una  famiglia  matriarcale con un’importante  nonna, due zie, una  madre e due sorelle.
La persona più “femminile” della famiglia era mia cugina, mia coetanea, piena di nastrini mentali e smancerie. In una diatriba  presi il ferro ricurvo con il quale stavamo tentando di fare un ponte per le bambole e la colpii. Fu un esecrabile gesto di violenza …ma che soddisfazione farla zittire!
Improvvisamente, divenuta adolescente,  compagne di scuola  mi ammirarono  e altre  mi detestarono. Senza  ragione, per puro spirito competitivo. Improvvisamente  i ragazzi divennero   piovre con mille  tentacoli. Imbarazzanti e noiosi. A volte crudeli.
Infine incontrai   in un momento di grande dolore,  Alfredo, un giovane uomo più sperduto  di me, spirito libero imprigionato proprio come me. Un Prometeo incatenato.
Io lottavo per togliermi di dosso una femminilità colpevole e avvilita, lui desiderava sentirsi uguale, alla pari, nel rifiuto di una virilità troppo ingombrante.
Ci mettemmo molto tempo per amarci. Da lui molto lentamente ho saputo  differenziare gusti e umori senza farmene una colpa. Era bello essere diversi.
Lui uomo colto,  curioso, intelligente, geniale nel lavoro che aveva scelto. Io timida, insicura con tanta voglia di riscattare la mia inconsistenza. Il fato mi aiutò permettendomi di scrivere piccole cose su quotidiani e riviste.
Non che il lavoro su di me  fosse finito. Non che discutere con le mie amiche e nemiche femministe  fosse di grande aiuto, anche in questo avevo idee tutte mie.
Non ho mai smesso il duro  “mestiere di vivere” . Forse proprio perché non ho mai voluto  essere femmina, ma ho ambito sempre ad essere  “donna”.
Oggi, grazie a persone incontrate e amate, a tanti libri letti e metabolizzati,  a grandi film visti e mai dimenticati, a storie vissute e narrate, oggi grazie alla forte autocritica, al dubbio e alla discussione su me stessa, finalmente sono riuscita a piacermi.
Ed è cosa molto ardua e rara.
Piacermi non è un atto di presunzione, né tanto meno l’orgoglio di un lavoro ben eseguito, è il risultato di un lungo faticoso cammino di dignità e di rispetto verso il mio genere, sottoposto a violenze e discriminazioni troppo spesso volontarie, senza impeti di ribellione, “come mucche orbe”.
Capire, elaborare, distruggere per rinascere è eccitante e appagante.
Tutto ciò che ti si presenta può essere importante. Un film, uno dei capolavori  del regista con il quale sono più in sintonia, Woody Allen, mi colpì come pura epifania “Another woman” (Un’altra donna) del 1988 con una Gena Rowlands d’immensa statura.

Un bellissimo  film intimista, di introspezione,  che mi ha fatto riflettere su me stessa. Ancora oggi, rivedendolo so che ha smosso le corde giuste per un accrescimento della mia consapevolezza.
Una  cinquantenne,  colta, docente universitaria e scrittrice improvvisamente un mattino, mentre sta lavorando al suo nuovo libro, sente una  voce di donna entrare nella sua vita da  una presa d’aria. E’ la paziente di uno psicologo che ha  lo studio lì accanto. E’ la voce affranta  di una persona  tormentata, afflitta da sofferenze senza fine che spalanca la porta ad una verità appena sbocciata. E la  protagonista si trova  di fronte a se stessa. Denudata e indifesa dinanzi a  insincerità, omissioni,  paraventi lussuosi e brillanti posti a salvaguardia della  sua vita. Attraverso un’altra donna, sua alter ego, entra in un mondo parallelo, fatto di ricordi, di errati gesti, di bugie e fughe, di  ciò che le ha impedito di guardarsi dentro e capire chi veramente fosse.  Attraverso l’infelicità  dell’altra donna si rende conto che la sua vita è stata  una lenta morte anno dopo anno. Le sue scelte, le sue aridità, il suo inconsapevole cinismo  le hanno costruito intorno stanze anguste in cui rinchiudersi. E’ quando ci si sente soffocare, in quelle stanze, che si inizia la propria fuga per la libertà. E’ allora che ci si rende conto che nulla è come si credeva fosse. Che bisogna guardare le cose con  occhi nuovi.
E’ attraverso questa caduta nel passato, nel deserto delle  emozioni, nel rifiuto delle  verità più dure che  ritrova la sua mente, il suo corpo, il suo cuore. E tutto è finalmente come deve essere. Prometeo è infine libero. Il corpo si fa donna.
“Chiusi il libro e provai uno strano miscuglio di malinconia e speranza, e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii placata”.