Un minidizionario di poco meno di venti voci per capire bene di che si tratta quando abbiamo a che fare con la complessità – e un poco anche cosa bisogna “farci”. Tratto dal contributo di Paolo Cervari al libro Processo alla Complessità (a c.d. Giuseppe Sapienza, LetteredaQALAT) dal titolo “Saperci fare con la complessità: verso le pratiche” di cui abbiamo pubblicato l’introduzione nel N°100 di Caos Management, il Minidizionario procede a una o due voce per volta, pubblicate su vari numeri di Caos Management. Buona lettura.

 

Metafore.

Spesso accade che risulti utile e produttivo descrivere i sistemi complessi  mediante metafore – e questo da sempre, fin dalla notte dei tempi. Ciò da una parte non sorprende, poiché la potenza descrittiva della metafora è nota, ma vi sono forse ragioni più profonde. La metafora infatti agisce come sistema o dominio di descrizione e seleziona alcuni aspetti di ciò che viene metaforizzato: si comporta pertanto come i diversi e plurali metodi di descrizione che abbiamo detto necessari per la comprensione del complesso. Insomma, per usare un gioco di parole (ma non tanto), la metafora è una buona metafora della descrizione della complessità. Ma c’è di più: il dominio descritto dal dominio descrivente, ovvero il sistema osservato, può essere considerato come la metafora soggiacente a tutti i domini che la descrivono, i quali pertanto hanno in comune questa ipotetica (e taciuta) metafora che li collega tra loro, in quanto essa costituisce il loro medesimo “oggetto” o, per meglio dire, elemento di una coevoluzione in accoppiamento strutturale[1].

Conseguenze pratiche. Usare le metafore come descrittori e connotatori. Usare metafore derivate da diversi universi semantici e prammatici. Chiedersi di cosa può essere metafora il fenomeno osservato.

Emergenza radicale.

Abbiamo già descritto in breve in precedenza il fenomeno delle qualità emergenti, a cui va ricondotto il concetto di emergenza radicale. Senza ardire a produrre in questo breve spazio una definizione univoca del concetto, possiamo considerare l’emergentismo come una teoria relativa alla “struttura causale della realtà” (McLaughlin, 1992[2]), per cui essa presenta livelli crescenti di complessità, caratterizzati dalla presenza di poteri causali di volta in volta nuovi e irriducibili ai livelli sottostanti. In altri termini:

«Quando un sistema acquista gradi di complessità organizzativa sempre maggiori esso comincia a esibire nuove proprietà che in qualche senso trascendono le proprietà delle loro parti costituenti, e si comporta in modi che non possono essere predetti sulla base delle leggi che governano i sistemi più semplici».[3]

Va detto, inoltre, che non tutte le proprietà nuove sono emergenti in senso stretto. Per esserlo devono essere irriducibili (alle proprietà di base dei livelli inferiori), imprevedibili (a partire da quanto rilevabile dai livelli inferiori) e inspiegabili (al livello concettuale desumibile dai livelli inferiori).  Per fare un esempio, molto dibattuto nel mondo scientifico contemporaneo, la nostra mente si può considerare emergente rispetto al cervello, i neuroni e le sinapsi, o meglio ancora rispetto all’ammasso di atomi che costituisce il nostro corpo. Inoltre, va sottolineata un’altra importante questione: secondo la teoria emergentista più comunemente condivisa, le proprietà emergenti, pur non essendo riducibili a quelle di livello inferiore, hanno una causalità loro propria, anch’essa non riducibile a quella propria della base di livello inferiore, e in grado di agire autonomamente su questa base. Si parla in questo caso di causalità “verso il basso” (downward), tale per cui, per esempio, se il mio cervello produce una mia propensione alle crociere nei caraibi, tale predisposizione può a sua volta influenzare le mie molecole (per esempio mangiando frutta tropicale). Troviamo infine utile sottolineare la somiglianza strutturale tra il fenomeno del downward e quello della costituzione retroattiva del senso: in ambedue i casi siamo in presenza di una causalità circolare, tale per cui una cosa produce (o porta a) una cosa che a sua volta la influenza.

Conseguenze pratiche. Abituarsi a ragionare in termini di causalità circolare. Tenere presente che le proprietà emergenti sono inspiegabili con gli strumenti relativi ai domini da cui sono prodotte e che dunque una proprietà emergente richiede una nuova teoria. Distinguere i livelli di causazione nei flussi dal basso e dall’alto.

Andare a vedere.

«Faccio prima a osservarlo. Se non c’è un singolo modello da cui posso dedurre tutto, allora bisogna andare a vedere le cose».[4] Ciò significa in primo luogo che dobbiamo sempre comunque lasciare che i dati vengano a noi, senza pregiudicare troppo, senza filtrare troppo, senza imporre lo statuto di “dato” a ciò che abbiamo già deciso esso sia… per quanto ciò sia possibile, ovviamente. Infatti, «sappiamo che un’osservazione mirata non è mai neutra e ogni dato nasce già ‘carico di teoria’, ma bisogna osservare, sempre e tanto, e lasciarsi stupire dal mondo».[5] Si tratta insomma di aprire la struttura di riferimento e filtro, la cornice di legittimità, per lasciare che l’inatteso si presenti. La conseguenza, come vedremo, in termini operativi è che sulla comprensione “a freddo” delle cose vince la strategia operativa del problem solving “senza metodo”.
Conseguenze pratiche.  Uscire dall’ufficio o dal laboratorio e andare a fare un giro sul campo. Scambiare informazioni, impressioni, metafore e riflessioni con chi è a contatto diretto coi fenomeni osservati. Uscire dalla propria scatola.

 

Accoppiamento strutturale.

E’ una caratteristica discendente dall’apertura del sistema al contesto e dalla conseguente (a sua volta) necessità della co-evoluzione dei due. Va precisato, a costo di complicare ulteriormente le cose, che all’interno di un sistema si possono reperire sottosistemi che a loro volta possono interagire tra di loro così come accade tra sistema e ambiente (laddove tra l’altro “ambiente” è a sua volta, va detto, una semplificazione impropria, perché in realtà si dovrebbe individuare il sistema in accoppiamento strutturale). Si pensi all’interazione tra sistema immunitario e digerente, per esempio, oppure tra forza commerciale e linea produttiva: i due sistemi, pur avendo una propria precisa identità, co-evolvono e si influenzano in continuazione tra loro, raggiungendo differenti strutturazioni e fasi di relativo equilibrio. Ma per farci capire meglio facciamo parlare chi la nozione l’ha coniata: Humberto Maturana, che nel mettere in scena il quotidiano dramma della sopravvivenza recitato dal verme e dalla salamandra a un certo punto si chiede: ma come accade che: 

 «un verme si trovi effettivamente nel luogo preciso verso cui punta la lingua della salamandra? La spiegazione sta nel fatto che la salamandra e il verme sono parte di una storia comune, di un processo evolutivo che ha condotto a una raffinata relazione di equilibrio, coordinamento e adattamento reciproco, cioè di accoppiamento strutturale tra organismo e ambiente».[6]

In pratica, continua Maturana,  i due organismi, per quanto autonomi e auto-organizzati,

«interagiscono tra di loro con interazioni ricorrenti e ricorsive che formano un accoppiamento strutturale. Con questo concetto designo una storia di mutamenti strutturali reciproci che fa sorgere un dominio condiviso»[7].

Ovvero, dice ancora l’autore,

«si da un accoppiamento strutturale quando le strutture dei due sistemi -strutturalmente plastici- si modificano in seguito a interazioni ricorrenti, senza che per questo si distrugga l’identità dei sistemi interagenti».[8]

Da questo concetto derivano due importanti conseguenze. In primo luogo, come già detto sopra (vedi Identità mutevole), i confini del sistema sono sempre co-determinati da un altro sistema. In secondo luogo, dato che l’accoppiamento strutturale vale anche per l’interazione tra (sistema) osservatore e (sistema) osservato, collassa la tradizionale opposizione tra mondo e soggetto conoscente e, come peraltro già detto poco sopra (vedi Insufficienza della descrizione univoca), non esiste più la possibilità di una conoscenza assoluta, perché, sempre secondo Maturana,  la conoscenza «non è la rappresentazione di una realtà data a priori, non è un procedimento di calcolo basato sulle condizioni del mondo esterno».[9] In sintesi, la conoscenza è una emergenza in accoppiamento strutturale tra conoscente e conosciuto.

Conseguenze pratiche. Relativizzare il proprio sistema di conoscenza e i suoi risultati come funzione di ciò che con esso conosciamo e viceversa. Frequentare sistemi di conoscenza che siano orientati alla considerazione dell’accoppiamento strutturale, come per esempio (ma sono solo esempi) la medicina olistica, le mitologie, la terapia sistemica, l’osservazione partecipante in etnografia. Considerare se stessi e il soggetto osservatore o attore come una variabile co-dipendente dal sistema in cui agisce.
 

[1] Qualora interessi, stiamo utilizzando teorie riconducibili a quelle di Lakoff. Cfr. G. Lakoff & M. Johnson, Metaphors We Live By, University of Chicago Press, Chicago, 1980.
[2] McLaughlin, B., The Rise and Fall of British Emergentism, in A. Beckermann, H. Flohr, J. Kim, (a cura di), Emergence or Reduction? Essays  on the Prospects of Non reductive Physicalism, De Gruyter, New York, 1992,
pp. 49-93.
[3] J. Kim, Making Sense of Emergence, in «Philosophical Studies», vol. 95, n° 1-2, (August 1999), pp. 3-36.
[4] I. Licata, op. cit., p. 87
[5] Ivi, p. 88
[6] H. R. Maturana, B. Pörksen, Del ser al hacer. Los orígenes de la biología del conocer,  Juan Carlos Sáez Editor, Buenos Aires, 2008, p. 69
[7] Ibid.
[8] Ivi, p. 101
[9] Ivi, p. 80.

—————————————————————
FONTE IMMAGINI
fig1: http://www.giornaledellepmi.it/wp-content/uploads/2015/10/sistemi-complessi-1.jpg
fig2: http://i0.wp.com/www.neuroscienze.net/wp-content/uploads/2013/05/2010_43495_62736.jpg?resize=350%2C200
fig3: https://nowherevilleblog.files.wordpress.com/2015/05/maxresdefault.jpg
fig4: http://1.bp.blogspot.com/-onz89zwdarE/Te9xmTeo3CI/AAAAAAAAA2w/Cdh2MjNP-sY/s1600/escher_bond.jpg