Sorse la luna.
In breve tempo si sollevò in alto.
Apparsa dietro il fogliame scuro di un melo, si era arrampicata sui suoi rami, separandosene con un balzo al centro del cielo.
La sua rotonda serenità, diffondendosi intorno, esaltava l’oscurità delle cose. Fu allora che presi a seguirla. Il cane mi trotterellò  intorno spavaldo, presto fu davanti a me fiutando l’aria.
Camminavo lentamente, risalendo la stradina stretta che sorreggeva le case. Raggi giallognoli illuminavano la via come nebbia. La solitudine invadeva i tetti; si insinuava nella notte. Sembrava che il paesino si fosse addormentato tutto insieme, all’improvviso, preso da incanto.
Contro il cielo apparve ad un tratto, tra casa e casa, un gran lenzuolo steso ad asciugare, immenso col suo bianco spruzzato di azzurro. Era lì immobile, assenza di vento, paravento al cielo. Enorme cortina lunare.
Osservavo la luna. Quando la strada sparì dietro una curva mi fu nascosta da un comignolo, un tetto, una casa. Mi affrettavo come fossi in ritardo ad un appuntamento. La stradina si perdeva in viali di campagna semi deserti.
Voci lontane, rombi di motori provenienti da un tempo estraneo si avvicinavano e allontanavano senza mai divenire forma. Fiori dai colori vivaci al sole,  ora corpi informi, senza vita, come carbonizzati. Ne percepivo il respiro, un bisbigliare incessante. Li ascoltavo crescere, li scorgevo mentre, con fruscio impercettibile, germogliavano lungo il fossato
Le mie gambe superavano ostacoli nascosti. I miei piedi accoglievano le asperità della strada senza avvertirle. E il tratturo come fiume lucente  si inerpicava, si piegava, si accartocciava, si raddrizzava senza sosta.
Uccelli, attardatisi sui campi a becchettare, si sollevarono in volo, tutti insieme. Ali contro ali in una irreale corsa subitanea. Brusio smorzato e rotto. Suono. Di colpo silenzio
Ciclamini lilla ai margini della via.
Dietro un dosso c’era da tempo una casa in costruzione. Bruttissima. A forma di emiciclo. Bianca, bassa, insensata. Prima di raggiungerla qualcosa si frappose tra me e la luna. Lucciole si accesero nell’aria al suono di una campana notturna. Tetra come tutte le campane di notte.
Mi prese un senso di apprensione. Uno strano, inspiegabile turbamento. Vi era qualcosa negli alberi, nell’erba, nei fiori che stava trasformandosi. Non un percettibile cambiamento, tuttavia qualcosa mutava. Avvertivo un alterarsi delle cose. Come se il tempo si fosse messo a far confusione. Per gioco. Forse per amore. Il cane rallentò la sua andatura, mi guardò in modo spregiudicato: stavamo vivendo un’avventura condivisa con lo scodinzolare della grossa coda. Il suo ventre si appiattì verso terra. Spinsi lo sguardo oltre le basse siepi di ailanto. Il cane era al mio fianco. Ecco la casa. La guardai. Ciò che vidi mi sorprese. Non era più la stessa.
Era un vecchio casolare grigiorosso. Balconcini, come occhi, sul portone che si apriva su di un buio androne a volta. Uno scalone in fondo e un indizio di luce. Un cortile.
Vi entrai come sospinta. Mi vidi varcare il portone.
Consueto odore di muffa. Nel fondo un sentore di olive marce e  di carrube stipate in sacchi. Biciclette poggiate al muro, stanche,  impolverate. Nella luce fosforescente il fantasma di un biroccio, le stanghe abbandonate a terra.
Andai oltre. Oltre il portone. Oltre le scale, oltre la luce, oltre le biciclette e la carrozza. Uscii nel cortile. Attraversai il vialetto e infine  il cancello sbilenco.
Il cane si bloccò, incredulo, rifiutandosi di attraversarlo.
Di lì il casolare dal tetto rosso di tegole si illuminava. Splendeva alla luna. Una loggia, Un cesso a vento. Profonde ferite lungo i muri.
Il mistero del luogo nella sua vistosa vecchiezza divenne più intenso, più tenero.
Nel giardino  vialetti, caselle, terra dissodata con zolle smosse. Noccioli, aranci, nespoli e pruni.
Lontano,  incerta e straordinaria l’immagine di un albicocco in fiore. Rosa pallido con sprazzi di azzurro.
Guardai quell’albero con un senso di disperata gioia. Non ne conoscevo la ragione ma c’era qualcosa in quel luogo, in quell’albero rotondo di fiori azzurri, che mi restituiva un’emozione perduta. Una felicità acre.
Solo allora mi resi conto che c’era dell’altro. Un’ombra scura, una figura accoccolata ai piedi dell’albero, quasi nascosta da siepi di belle di notte dal colore del sangue. Celata da un muro di soave profumo.
La guardai.
Il cane restò immoto. La sua immobilità era rotta solo dallo scodinzolare nervoso della coda e dal movimento interrogativo della testa.
Era una bambina, seduta, accovacciata, sola. Frugava tra le vesti, rovistava nelle zolle di terra sotto i suoi piedi. Assorta nei suoi pensieri.
Improvvisa una voce. Dalla casa. Dalla loggia. Improvviso suono.
Le parole lontane, come un richiamo, mi raggiunsero inaspettate.
Mi voltai lentamente: una donna, vecchia, appoggiava i gomiti sull’inferriata del balcone, in un gesto di richiamo. L’ora era tarda. La nonna chiamò ancora. Quella immagine, la sua vecchiezza, i suoi abiti neri, la voce rotta, accento dialettale lieve e dolcissimo evocarono fantasmi di uomini e cose.
La casa, la loggia, il chiarore rendeva la figura lontana ancora più buia.
La bambina non si mosse. Né diede ascolto alla voce. Come se appartenessero a due diversi momenti di vita. Come se fossero separate da spazi di tempo incolmabili. La bambina, rannicchiata  continuava a cercare.
Mi aveva scorto ora e mi guardava intensamente in pieno viso, con occhi seri. Senza  meraviglia, senza stupore. Rovistò in terra con più impegno. Sbirciò ancora verso di me. Poi mi rivolse rapida le mani con le palme aperte. Mi guardò con uno sguardo sgomento. Non c’era nulla  nelle sue mani. Erano vuote. Con rabbia, infine, raccogliendosi tutta, le braccia strette intorno alle ginocchia cominciò un pianger sommesso, un lamentarsi strano e sfinito, senza speranza.
La guardavo atterrita. Senza il coraggio di avvicinarmi a lei.
Dalla loggia la nonna agitava la mano come per salutare. La richiamava a casa. Il suo gesto era antico, familiare. Riemerso da troppo lontano. I suoi capelli  biancogrigi si agitarono appena  quando la chiamò per nome. Mi girai rapida a guardare la bambina. Era lì con il capo posato sulle ginocchia, in un pianto incessante. Il suo nome risuonò ancora nell’esile tepore della sera.
Compresi allora che dovevo andare. Che dovevo rientrare in casa, che dovevo smettere di piangere. Non avevo trovato ciò che cercavo. Ma su, a casa, dalla nonna ci sarebbe stato qualcosa per me. Dovevo tornare a casa. Corsi lungo il sentiero che avevo già percorso, attraverso il cancello sbilenco. Salii le scale grigie di pietra. Così rapidamente come mai avevo fatto. Battei con le nocche contro la grande porta. Una due tre volte. Risentii nelle dita il lieve dolore tante volte provate Sulla pelle il calore amico del vecchio legno. Sensazioni mai cancellate. Bussai ancora ma nessuno rispose. Spinsi la porta che si aprì solo un po’. Ricordai l’intoppo del legno contro il pavimento sconnesso e spinsi con più forza.
La porta si spalancò sul corridoio buio.
Entrai di corsa nella grande cucina. E di lì verso il loggiato dov’era la nonna. Gridavo. Gridavo che ero tornata. Mi guardavo intorno. Ma non c’era nessuno.  Spinsi l’uscio della camera da letto delle zie. Un odore di polvere e di fiori marci mi investì. I letti erano disfatti, la specchiera dal vetro sbrecciato che  poggiava  su una gamba sola rovinò a terra. Lo specchio si infranse in minuti pezzi. Correvo da una stanza all’altra urlando il mio nome, sospirando ch’ero io. Che ero tornata. Nella stanza dei nonni il gran balcone si palancava come una bocca nera.
Lì non c’era più nessuno. Nessuno ad aspettarmi. Niente c’era perché io tornassi. Dalla loggia diroccata potevo vedere il giardino desolato. Nulla c’era in quella casa per cui tornare. Era tutto finito, perduto. Più nulla.
Il cane era rimasto sulla porta e guaiva spaventato
No, non c’era più nulla per cui tornare, scivolai lungo il muro fino a sedermi a terra. Sollevai le ginocchia. Spinsi le braccia intorno alle gambe.  La luna bagnava  di luce le mie mani. Abbassai lo sguardo e piansi. Chiusi gli occhi e piansi con voce di bambina.
Siepi di ailanto mi si stringevano d’intorno e il cane era impaziente di tornare.