Il mio amore per Napoli si è sviluppato lentamente, quasi inconsapevolmente. Giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come tutti i veri amori non tiene conto dei difetti, anzi sono questi a restituire un fascino incontrollato. Amo le cose più respingenti di questa città e le trasformo in poesia.
Questa città è una pietra preziosa incastonata in un gioiello, cinto alle estremità da magmatici vulcani, due estremi che si parlano ribollendo e scoppiettando in attesa di sbriciolare il mondo, di elevarsi al Cielo.
Il Vesuvio anticipa la qualità del tempo, è da lì che nascono i venti, le piogge e le calure.
Le mofete dei Campi Flegrei gonfiano l’aria di profondi segreti di futuri avventi.
Il mare si estende tra i due spazi misterici. Il cielo blu fa da fondale a questa grandiosa scena.
Molti,  moltissimi artisti hanno contratto il “mal dei vicoli”, l’asprezza delle stradine scure su cui lenzuola lerce, stese ad asciugare tra palazzo e palazzo, si gonfiano di vento, oscene bandiere di una umanità cieca.
Hanno  scritto e fotografato una città da odiare di un amore malsano. Napoletani che disprezzano Napoli. Italiani che si gloriano di tutto aver compreso e districato. Matassa di falsità questa città, coacervo di brutture coperte da lampi colorati e festose manciate di coriandoli.
Nubi di fumi piroclastici che hanno eretto alti  muri di tufo giallo.

 

“La tenerezza”, film di Amelio di quest’anno, considera Napoli luogo di una “divina commedia” già tutta scritta. Il regista veste i panni del “fustigatore” di anime perse, di un popolino succube  di un legame fetido con questa sua città divoratrice. E lui lo assolve. Assolve l’uomo Davide contro una metropoli che tutto ingoia e rigurgita.
Il libro da cui il regista ha preso spunto, “La tentazione di essere felice” del giovane scrittore napoletano Lorenzo Marone, il romanzo che lo ha ispirato parla d’altro.
Parla di un personaggio composito e contraddittorio come solo qualcuno nato tra due vulcani attivi e minacciosi, sotto un cielo di un blu incredulo e di fronte a un golfo di mare sempre complice e pacificante, può.
Cesare Annunziata, Lorenzo nel film, non è come vorrebbe Amelio, un napoletano imbelle, un po’ imbroglione e  traditore. Un Giuda fuggitivo. Cesare è un settantenne che ha conosciuto i mali del Mondo, che cerca di combattere con un cuore battente e un cervello pensante.
Napoli a volte splende su di lui, altre volte resta immobile a guardare. Ma è sempre presente, in primo piano o in sottofondo, come i piccoli borghi arroccati sulle colline nei quadri del sei/settecento. Perché Cesare è la città.
La sua figura di mentore, di saggio, di filosofo “rè quartiere spagnuoli” prende corpo ancora più fortemente nel libro successivo di questo scrittore, “Magari domani resto”, in cui Cesare divenuto Vittorio si imbatte nel più bel simbolo di una città in ribellione, di una città antica  mai sobria e schiva, sempre appassionata e guerriera. 
Cesare incontra Luce, giovane donna cresciuta nutrendosi del sangue di Masaniello, forte delle sue dubbiose verità, delle sue vie mentali impervie, delle sue scelte che la spingono controcorrente verso chi non ha facile vita.
Cesare e Luce sono i diversi,  gli stranieri del Mondo circondati da altri stranieri : una donna consapevole, un vecchio che veste gli abiti del “padre putativo”, un bambino gentile e un cane superiore.
Brilla nelle descrizioni dell’autore la bellezza dell’imperfetto, la tenerezza dell’incompiuto, la felice dolcezza dell’incomprensibile. Cani, bambini, vecchi e donne: il  sale della Terra.
Chi non comanda ma crede, chi non gestisce ma abbraccia. Chi non ha mai paura perché sa che la vita ha in sé un rischio molto grave, quello di venire sprecata, disattesa, persa dentro parole e fatti inutili, senza alcun senso. Loro sono la città che abitano e che non potrebbe essere che questa:

Napoli spaccona e orgogliosa, fetente e magica, despota e Madre.