Le NU avevano proclamato l’anno 2002 anno della montagna. Oggettivamente parlando, dal tempo in cui venne pronunciato “Il discorso della montagna” non molto è cambiato. La gente urbana che aveva lasciato le originarie comunità di appartenenza era tornata indietro, ancorché occasionalmente, attratta da un evento che, anziché collocarsi sul piano della danza o della musica, affondava la sua ragion d’essere nella logicità espositiva di un uomo che faceva miracoli e, al contempo, offriva uno scenario di beatitudini.

 

 

Beatitudini, tuttavia, non godibili nel tempo presente bensì fruibili a certe condizioni nel continuum del post mortem.

Le NU riportano che, sin da quell’epoca, la gente aveva lasciato le montagne perché attratta dall’immaginifico collettivo della città; gente che, immemore delle sue radici, accetta di giocare un ruolo subordinato in una società della comunicazione, come è quella odierna, dove è reale ciò che viene ripreso in sede mediatica e non ciò che avviene nella realtà. Siamo, infatti, oggi davanti ad una realtà cartacea, di immagini, virtuale sicuramente affascinante ma priva di un riscontro fondato sulla realtà effettuale.

La vita non trascorre in presa diretta attraverso un vissuto intimo, ma si consuma in sensazioni ed emozioni prive di ethos e di pathos.

Prometeo non abita più qui e suo fratello Epimeteo non ha più un soggetto con cui condividere la sua arte del compromesso, che per la sua realizzazione ha bisogno di un bianco e un nero coesistenti separatamente, ambedue dotati di una forza primigenia e nel contempo originale, di un contributo esistenziale da dare, il cui movimento – incontro fra nero e bianco, fra patriziato e popolo – determina un grigio più o meno informe, ma capace di dare un valore all’incontro stesso, alla mediazione conciliatoria realizzata che è un quid novi.

La società della comunicazione, invece, presuppone che la componente vera non esista più: essa è una fastidiosa appendice a cui bisogna ammannire panem et circenses per suscitare la soddisfazione o l’appagamento. Ne risulta inevitabilmente un consenso democratico di partecipazione che può essere espresso anche attraverso l’acquisizione di azioni quotate nella società del benessere a prescindere dalla valutazione del valore reale delle stesse.

Tutto ciò ha portato al concetto della inevitabile perfezione del disegno dell’investitore, detentore privato di capitali, che ha il diritto assoluto di investirli secondo il proprio gradimento, a prescindere dal rispetto dell’ecosistema (fallimento della conferenza di Kyoto), senza cioè tener conto di una necessaria verifica della condizione umana che si viene a modificare in rapporto all’investimento effettuato. Inoltre la valorizzazione del lavoro umano non è più in funzione dell’apporto qualitativo e quantitativo che l’essere umano può dare, ma della propria necessità di essere competitivi a prescindere dal fatto che la partecipazione alla gestione dei mezzi di produzione possa dare un contributo alla realizzazione stessa dell’individuo.

Egli, a questo punto, è divenuto un non valore, così come è un non valore l’ecosistema con il quale comunque si interagisce ed è un non valore anche la conoscenza che i sistemi dell’ “e” comporta.

Infatti la sovrabbondanza di informazioni che caratterizzano il sistema, determinano sì la possibilità di acquisire dati, ma non sviluppano una capacità di visione critica del sistema stesso, non consentono un contributo originale in termini di risposta dal momento che non è dato modificare strutturalmente e incidere sui mezzi di comunicazione esistenti né dare quel contributo critico che risulta necessario.

Il disagio globale che si esprime, anche attraverso mezzi violenti, non viene percepito come massa critica da decifrare, ma come problema da estirpare alla radice.

La società del benessere coltiva il mito del superomismo nella misura in cui occorre conservare e mantenere l’attuale dislocazione delle risorse anche attraverso l’uso dei nuovi schiavi, persone giovani da inserire nel sistema, di qualsiasi origine e provenienza, necessari al mantenimento dello staus quo a prescindere dal contributo originale che gli stessi possono dare.

E’ il mito della società dell’apparenza nella quale si può essere cooptati, ma, come tutti i membri neofiti di una comunità, l’inserimento avviene anche al più alto livello in forma sterile, cioè a prescindere dall’apporto originale che i valori antropologici delle proprie origini possono comportare.

E i nuovi schiavi non hanno frontiere, qualsiasi sia l’origine o la provenienza, così come, omologati, diventano funzionali al sistema, ortodossi e non eterodossi, laddove tutto si riduce a un modo di essere precostituito.

Dinanzi a un tale modello le nazioni, il G8, l’UE, il patto di stabilità, le varie agenzie internazionali di sviluppo hanno il coraggio di proporre un modello alternativo basato su prescrizioni normative fondate non sulla capacità elaborativa di un parlamento, ma sull’elaborazione dei bisogni riconosciuti delle principali democrazie industriali esistenti al mondo, sulle cui basi si costruisce un modello di partecipazione democratica alla gestione delle cose basata su norme imperative e cogenti: la trasparenza nelle operazioni finanziarie, il puntuale pagamento delle imposte nei luoghi in cui si formano i redditi, la puntuale tenuta dei contii pubblici e privati, la creazione di un sistema di
partecipazione alla conoscenza su base elettronica fondata su un principio di originale rispetto delle diversità e delle minorità.

Da un tale discorso nasce un conflitto di interessi fra pensatori di stato che ragionano in termini di autentico coinvolgimento sulla base di pari dignità e interessi contingenti di fatto privatistici che vedono non tanto nel profitto quanto nel soddisfacimento dei propri comparti di distribuzione di beni e servizi, l’appagamento dei bisogni dell’umanità.

Da ciò il confronto fra appagamento dei bisogni primari, a prescindere dalla
dignità dell’essere umano, e la realizzazione soddisfacente dei bisogni secondari, che sono la sostanza stessa dell’essere umano: dignità del lavoro e dignità dell’amore.

 

 

Allora perché è nato il conflitto tra il contingente interesse privato e quello della
Amministrazione, dei membri del G8?

La risposta può essere nel dibattito sulla riforma stessa delle NU.

La carta di San Francisco è fondata sul comune interesse di alcune potenze vincitrici della 2a guerra mondiale, a mantenere lo status quo ante, mentre invece le altre potenze covincitrici, a titolo primario o secondario, come colonie cobelligeranti (India, Algeria, Vietnam, Birmania etc.) o autonome (Brasile) richiedono la totale inversione del principio di amministrazione delle cose del mondo.

Da qui la necessità di soddisfare prima di ogni altra cosa il bisogno di certezze nelle regole, la creazione di un sistema di normazione positiva che legittimi un comportamento di compartecipazione alla gestione mondiale delle cose sulla base di regole fondate da chi ancora è detentore del “potere”, cioè la gestione della transizione verso una partecipazione totale fondata su regole definite.

Da ciò le due possibilità: il rifiuto globale, tentazione nichilista ritornante che può condurre alla prometeica affermazione del “fratello ti uccido perché ti amo” o il devastante effetto dell’attacco alle Twin towers, o la soluzione del problema attraverso la rimozione dell’ostacolo, mediante il trasferimento dello stesso. Un esempio: esiste il problema palestinese, “prendiamo i palestinesi e portiamoli da un’altra parte”, senza un progetto di coesistenza, ma sulla base di un progetto di rimozione del problema.

C’è anche la soluzione per linee interne secondo il modello kissingheriano a suo tempo proposto.

Trasferiamo i problemi nel luogo in cui essi sono, trasferiamo le attività produttive là dove vi sono le risorse umane e naturali efficienti, produciamo mettendo in condizione i consumatori, attraverso un’adeguata attribuzione di reddito, di arrivare al soddisfacimento dei bisogni primari dal quale scaturisce poi la soluzione all’altra domanda, quella di un’attività produttiva cosciente, critica, efficiente ed efficace quindi capace di portare a innovazioni originali non più in termini di esclusivo mantenimento del sistema, ma di modificazione strutturale del sistema mediante salti di qualità capaci di prevedere anche la modificazione dello stesso.

L’anno della montagna delle NU ha comportato nell’esecutivo il riconoscimento di una necessità, intanto intraeuropea che già dal ’94 è presente nel sistema italiano, attraverso il finanziamento, del cosiddetto ritorno alla montagna della gente (finanziamento per l’acquisto della casa, mobilio per la stessa, acquisizione dei terreni circostanti, coptazione e adduzione delle acque, riforestazione e sistemazione idrologica del territorio) naturalmente da non abbandonare a se stessa, ma da inserire in un contesto di partecipazione alla gestione della cosa pubblica capace di garantire la originalità di un adeguato reddito anche attraverso forme, per esempio, di telelavoro e di e-learning
rovesciato, cioè il docente sta nella montagna e insegna all’uomo della città
recuperandone così dignità e originalità.

E’ la traduzione contemporanea dell’attività artigianale da sempre fatta sotto la neve dalla gente della montagna. Gente della montagna che diventa così il tutore di un ecosistema.

La ricostruzione affidata, non solo per l’Italia e l’Europa, all’Istituto Nazionale per la Ricerca scientifica e tecnologica sulla montagna, si coniuga con la missione demandata al Ministero per la Tecnologia e per l’Informazione, che, per i paesi del bacino mediterraneo e del Mar Nero, corrisponde all’individuata necessità di mediazione conciliativa premilitare che coinvolga in un processo unico il sistema della montagna che poi è il sistema delle acque, il sistema del mantenimento della situazione sole-pioggia, il sistema di preservazione dall’aridità, la persona umana nel suo complesso e nel suo divenire; ma le missioni non possono essere solamente calate per editto imperiale, devono vivere in un sistema di democrazia partecipativa e quindi diretta, in cui le singole comunità locali autonomamente siano capaci di apportare un proprio contributo originale al discorso della montagna.

I segnali in questo senso purtroppo non sembrano positivi e mi sembra che il rischio sia quello di una perenne nuova forma di schiavitù, quella di cui si è intravisto lo schema degli afferenti della città della conoscenza, privi di ormoni originali critici, massificati nell’adrenalina e incapaci di quelle emozioni che producono le endorfine.
Giovani divenuti neutrali, appagati da uno stipendio “congruo”, responsabili della gestione di emozioni inadatte e non originali, che li porrebbero fuori dal sistema.
Per questo il Parlamento Siciliano, le autonomie locali dei paesi dell’area del libero scambio, del patto di stabilità e del Mar Nero, devono costruire nella montagna, così come nella città, un discorso di democrazia diretta e partecipativa, che, attraverso gli aggregati della cooperazione, riescono a farli diventare interlocutori attivi e propositivi di un modello diverso nella gestione della produzione fondato su mercati alternativi capaci di servire l’uomo e non il suo profitto.