(In ricordo di Alfredo, In ricordo di Betta : corpi visibili del mio amore)

 

 

Stamattina ho fame.
Ho veramente  fame
Non ho raccattato un sol boccone in tutta la giornata. Piove, piove che Dio la manda giù.
Fa  freddo.
L’umidità si fa strada tra i pochi strati di vecchi panni che tentano di coprire il mio corpo.
Il mio corpo! Affermazione grave e pesante. Avere un corpo è una responsabilità, un dovere.
Quelli come me non hanno un corpo. Quelli come me non sono visibili.
L’ultimo brandello di pane è per la mia amica Cam: ” Amica di avventura” le dissi pomposamente in modo arrogante, quando la incontrai.
Mi arrampicavo lungo un cumulo di fetida immondizia al fine di dare respiro alla mia fame. Volevo, dovevo sfamarmi. 
Il luogo era  già abitato: un cane era lì prima di me, appena mi vide digrignò i denti  come avvertimento di stargli alla larga. La minaccia era esplicita e potente, non dovevo intromettermi nella sua ricerca di leccornie, a lui espressamente destinate.  A sostegno di questo argomento c’erano gabbiani svolazzanti, che mi urlavano contro con voci di bambini.  Difendevano il  loro habitat naturale: una collinetta di resti
maleodoranti. Io lì ero un intruso, che ci stava a fare un essere umano in quel posto? Loro  non sapevano che anche un uomo  può morire  di fame.
Ero certo che se mi fossi avvicinato troppo, se avessi  usato gesti di protervia  nei suoi confronti sarei  stato aggredito.  Risalii lentamente, molto lentamente, carponi,  volgendo lo sguardo lontano come se fossi  estraneo a tutto quello che accadeva. E miracolosamente sotto la mia mano destra si materializzò  un sacco dall’aria succulenta. Morbido e solido insieme.  Vi intrufolai dentro le dita e ne estrassi un fulgido ammasso di gialla polenta, raggrinzita, dura, ancora profumata di formaggio rappreso.
Cibo prelibato, giacente in un flaccido sacco blu, da cui faceva capolino. Pasto regale, cotto in un pentolone di rame, cucchiaio di legno.  Spolverata di formaggio.
Mi guardai intorno, i miei spettatori erano immobili come in un fermo immagine, stesi il braccio e con due dita, pollice e indice, gentilmente lo afferrai.  Lo tenni  stretto, allontanandolo con un gesto ampio  della spalla verso il cielo lontano. Gli occhi del cane si posero sulla mia mano e dentro i miei occhi. E per un attimo, solo per un attimo parve distendere i  lineamenti. Il suo sguardo una muta preghiera.
L’impercettibile agitare della coda un’amichevole richiesta. Fu allora che riconobbi in quel cane femmina, nella sua ineguagliabile bellezza, nella sua eccezionale miseria,  nella sua indifesa  aggressività,  nella libertà della sua solitudine tutto quello che desideravo ritrovare nella mia compagna di vita. In un’ amica di sventura.  In qualcuno uguale, vicino,  simile. Le rivolsi lo sguardo e le sorrisi. Stesi la mano verso di lei delicatamente, come un chirurgo  in sala operatoria, e le porsi il prelibato pezzo di polenta. Le sussurrai piano  “Questo è per te”. Non si precipitò, non mi morse la mano, no!, si volse verso di me scodinzolando impercettibilmente.  Avvicinò le labbra timorosamente alle mie dita, che si schiusero per donarle il cibo.
Non ci vollero altri gesti
Non ci vollero altre parole.
Sollevai le ginocchia da quel mucchio maleodorante di stracci fetidi, pezzi di mondi in rovina, e la invitai a seguirmi.  Masticò la polenta livida, guardandomi  di sottecchi, per capire, solo per capire.
Prima di me aveva compreso che avevamo vissuto fino ad allora solo per  incontrarci, per riconoscerci.
Stamani ho fame.
Sempre ho fame, la fame è come un’eterna astinenza  dalla droga: tutto il giorno a cercare di placarla.
Vivi  per placarla, nulla più conta se non la ricerca della droga, quel pezzo di pane che ti pacifichi per un po’, solo per un po’ di tempo.
Stamattina ho fame.
Come sempre,  così tanto da sentirmi fiaccato. Ruberei per sfamarmi stamattina.
Porto Cam al guinzaglio: una corda legata ad un collare vetusto, con un orgoglioso resto di color rosso e pezzi sbriciolati di cuoio. Il pelo biondo di Cam viene esaltato da quel colore che gli restituisce una nobiltà perduta ma non ancora spenta. Cam ha una pelliccia d’oro sporco che un tempo era oro puro.
Libera e sola come me, povera come appena nata, senza nemmeno un “abitino  di  neonati addosso”.
La povertà vuol dire viaggiare leggeri, vuol dire vivere lievemente. Attraversare strade senza toccare l’asfalto.  Senza guardare né ascoltare. Senza essere visti né uditi.
La povertà è essere vuoti  fantasmi, spettri della società, non iscritti a nessuna anagrafe della vita.
Ho davvero fame.
Mi  faccio spazio tra i tavoli di un bar  in  cui l’odore di caffè  avvolge il sensuale profumo  di arance.  Ci sono cornetti, brioche, sfogliatelle poggiati in un vassoio sul banco, sembrano fumanti.  Qualcuno si sposta infastidito, siamo in un quartiere elegante . Potrei chiedere qualcosa di caldo, l’aria è gelida e la pioggia sembra voglia trasformarsi in nevischio.
Il locale è avvolto da una nebbiolina di respiri che si liberano nel calore artificiale.
Cam l’ho legata ad un albero di faccia all’entrata. So che questo non le piace.  Ma devo tentare  una incursione.  Rischiando una rispostaccia mi avvicino all’avventore accanto al bancone e, prendendo a prestito  tutta la forma residua di educazione rimasta nel mio abusato DNA,  sussurro “Mi pagherebbe un cornetto, per favore, signore?” L’altro nemmeno si volta, con furia ingurgita il suo caffè al veleno e va via.
Il padrone già mi detesta,  non mi guarda, non dice nulla, estrae un sacchetto stropicciato e malmesso da un ripiano nascosto e me lo porge sollevandolo verso di me.
“Grazie, dico in un rigurgito di dignità, è per la mia cagnetta”
Legata all’albero distante dal luogo in cui la gente per bene fa colazione, lo sguardo appuntato alla porta del locale, mima uno scodinzolii vedendomi  scendere lo scalino che dà accesso al bar.  Mi chino verso di lei con quelle vecchie e rancide leccornie.  Ecco, penso, per lei c’è sempre qualcosa. Non è quello che dovrebbe mangiare un cane sano, ma  il barista è convinto che quella  roba  possa mangiarla persino un essere umano.
Come mai mi sono ficcato, insinuato, impicciato in un luogo tanto altolocato? Come cavolo ci sono capitato qui? Cam mi guarda e non capisce perché non mangi quei miseri bocconi con lei ” Eh Cam? Che avevo in mente di fare ? A che cosa pensavo?”  Tornare nei bassifondi della terra, rovistare nei cassonetti  in cui la roba  rimane più a lungo, dove nessuno mai ritira l’immondizia…dove incontri  gente come noi.  Dove gli
altri ti vedono, ti sentono, dove non sei un fantasma attraverso cui passare. Luoghi in cui se non piaci non fuggono da te,  ti uccidono. Dove massacrano di botte il tuo cane.  Dove ti lasciano a terra o ti buttano dentro un bidone della riciclabile. Non agiscono per antipatia o per odio, no! lo fanno per divertimento, per pensare ad altro, per farsi forti. Per sentirsi in pace con se stessi.
Sono anche loro degli spettri, ma non lo sanno. Non ancora. Quando passeranno anni
chiusi ai domiciliari, dentro un buco di una casa con strette pareti, quando vivranno un’esistenza dentro una gabbia,  con sbarre alle finestre  attraverso cui guardare fissamente il proprio immenso nulla, allora sì, allora sapranno.
Ed io? Io spendo la vita a cercare un pezzo di pane, come un tossicomane una  dose di cocaina, come un vecchio drogato con il cervello in dissoluzione.  E ricordo. Ricordo Cam, una cucina assolata, con una porta finestra che si apriva su di un giardino incantato, un pentolone in cui borbottavano fagioli bianchi.
Una fetta di pane appena sfornato, un filo d’olio e il brodo dei fagioli. Sugo biancastro insaporito di sale e pepe. Il pane  lasciava briciole sulla superficie liquida  ma tutto veniva fagocitato dal sugo di  pomodoro   e dalla pasta, ultimo baluardo dell’ intima bellezza di questo antico piatto. Ferma, compatta la pasta appena attaccata al fondo della pentola di coccio. Era quella parte bruciacchiata la perla, la pura perla di quel mangiare. Ricordare fa rinascere gli odori. E il calore di quel pensiero riscalda un corpo raggelato e stanco.
Cammino lentamente, nemmeno un alito di sole ad illuminare il pelo di Cam,  che quando è  toccato dai raggi solari sembra brillare.  La guardo, lo faccio sempre quando me la sento accanto in attesa di un suo sguardo di risposta. Lievissime piume di neve svolazzano e ballano, magiche nell’aria.
Siamo vicini al luogo del nostro riposo, lontano dal centro della città, lontano  dall’imbarazzo di un bar di lusso.
Un parco, ecco dove siamo, stanchi e  desiderosi di una panchina su cui accartocciarci. 
Conosciamo questo giardinetto sterile e indelicato,  una bruttura inutile, circondata da
altrettanti brutti edifici sconsiderati. Ci sediamo su di una panchina  orgogliosa del suo spento verde, sbrecciata e umida ma pur sempre accogliente. Un passero impavido becchetta  cibo tra le zolle  di terra bagnata di fango. Dico alla mia amica che se sapessi cacciare a mani nude, e lei mi guarda con una smorfia come un sorriso. Non solo non potrei ma poi da  vegano  non lo mangerei.
Che strani pensieri: mia moglie mi stuzzicava ogni  ora di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese di ogni anno  presentandomi  trionfi di carni irrorate di sugo rosso sangue.  “Spendiamo soldi per allevare animali da macello, nascono per noi, nemmeno ci sarebbero se non li mangiassimo”  E sentir parlare di macelli mi
riportava alla mente mia nonna che assassinava conigli, ne legava il corpo ad un chiodo facendo scorrerne il sangue e li scuoiava. Anche per lei era naturale.
Io mi rincantucciavo al lavoro e mangiavo le mie verdure. Ora non sono più vegano, sono solo affamato.
In casa con lei viveva un gatto, molto bello, maschio, rosso, irritante. Fu lui ad informarmi che tutto era  finito e dovevo lasciare  l’appartamento. C’era solo lui ad attendermi e un post-it attaccato al  frigo.
“Vattene via dopo aver dato da mangiare al gatto, al mio ritorno casa vuota gatto pieno” Cosa che non feci. Radunai la mia roba e mi scusai con il felino, ma dovevo compiere un atto di  ribellione e lui ne sarebbe stata la vittima. Penso, lì seduto su di una panchina non più verde, coma mai siamo finiti insieme?
Per amore? “Mi ami?” “Dimmi che mi ami” “Non sei neanche un po’ geloso?” “Hai la passione di un elettrodomestico”. Ed io non sapevo che cosa rispondere. Stavo perdendo il lavoro, stavo per essere licenziato.  Ero finito, appena lo seppe affrettò le operazioni del  lancio nello spazio siderale di una separazione senza ripensamenti.  “Lo hai fatto per non mantenermi più”.  Ero  diventato un miserabile disoccupato per farle dispetto.
Gli uomini e le donne non sono solo espressioni di  generi diversi, sono razze  di animali dissimili.
Guardo commosso il mio cane, la cosa più bella da quando fagioli borbottanti  in una pentola di terracotta aspettavano la fetta di pane che si andasse ad inzuppare. E’ lì accanto a me, stretta al mio fianco a farmi caldo su quella panchina memore del suo verde, quando una donna infreddolita sotto quel cielo di ghiaccio,  trascinando un carrello pieno di supermercato, guanti, sciarpa, giaccone sintetico e scarpe informi, mi rivolge uno sguardo torvo e sussurra,  piano perché non si fida, “Stai ancora qua. Il cane, fai scendere il cane ché qui si siedono i bambini” E girando il capo si affretta ad andar  via  tirandosi dietro il suo aggeggio claudicante. Me ne sbatto, sorrido a Cam, e le dico” Chissà perché quando si vuole obbligare qualcuno a fare qualcosa  in tono coercitivo ci si nasconde dietro il corpo di un bambino, che verrebbe offeso”.
I bambini.
Gli stessi bambini che i genitori proteggono dal dolore allontanandoli dalla realtà.
Sprecando il loro cervello, dilapidando la loro anima. Bambini che esistono solo per far dire agli adulti ciò che è meglio non fare, ciò che può dar loro fastidio, può irritare, offendere. I bambini , quei bambini che non abitano più questi spazi, obesi per troppo cibo, intolleranti alla luce, sprangati dentro un loro mondo di immagini frantumate, di amicizie anaffettive, già malati, già  persi alla vita.
Si sta facendo sera e il freddo incalza con la sua coltre bianca. Sento freddo, più di quello che si possa sopportare.  Dico a Cam” Andiamo a casa”, mangerò domani.
Scale di una stazione dismessa della  metropolitana chiusa da tempo, nel  sottopasso  c’è casa. Ci sono cartoni, vecchie coperte, una ciotola per Cam e una bottiglia di plastica con dell’acqua per me.  Il sottopasso non è lontano. Anche di un luogo simile, dove ci sono le tue poche cose, puoi sentirti padrone.
Le bianche forme alate scendono più compatte e costanti ” E’ la neve Cam”. Canticchio per disperdere la paura. La mia amica cammina lenta, non strattona, allunga appena le zampe. La neve si ferma sull’asfalto e  io incito Cam dicendole che così diventeremo dei pupazzi di ghiaccio.
Eccoci dinanzi alle scale, le  scale “del mio  palazzo” …ma casa non c’è.
Non c’è più nulla. Un mucchio nero di cenere e fumo. Casa è persa per sempre.
Cerco di pulire, spazzolando i resti con le mani gelate. La neve sta coprendo il  piccolo mondo di cui mi  nutro. Per noi due non c’è un pasto caldo e un letto in un rifugio per   senzatetti.
No se hai un cane.
No se non vuoi liberartene, abbandonarlo, lasciando fuori anche il tuo povero  cuore. Cam mi si avvicina, ci sediamo nella cenere dei nostri averi. Mi si stringe addosso, per placare il mio tremore. Siamo insieme, stesi al riparo. “Vedi com’è bella la neve, il mondo imbiancato è puro” Il muso di Cam è sulle mie ginocchia e i suoi  occhi  fissi  nei miei. Tra poco è sera, tra poco è buio ed io non ho nemmeno dei cerini da
accendere,  quelli della piccola fiammiferaia. ” Neanche un cerino” dico e scoppio a ridere, Cam mi guarda  e sorride scodinzolando incerta.
Siamo lì nella neve spogli di tutto e la mia risata rompe il silenzio della notte.