C’è un legame molto stretto tra l’identità personale e l’appartenenza sociale: di conseguenza, per mantenere alta l’opinione che ha di se stesso, un individuo tende a esaltare l’immagine che ha del proprio gruppo di appartenenza e contemporaneamente a svalutare quella degli altri gruppi in competizione reale o immaginaria con il proprio.  E’ abbastanza comprensibile nutrire una preferenza per il proprio gruppo di appartenenza: non c’è nulla di male a essere orgogliosi della propria famiglia, dei propri amici e, più in generale, della propria cultura.

Chi ha sviluppato un’immagine sufficientemente solida e positiva di sé, però, solitamente non ha bisogno di denigrare troppo gli altri per rafforzare il proprio senso di identità: un individuo equilibrato non si sente minacciato da chi è diverso. Al contrario, un individuo debole e insicuro ha paura di tutto ciò che non conosce e che non capisce, perché il confronto con la diversità rischia di mettere in crisi le sue certezze acquisite.

Mentre cerca protezione nel proprio gruppo di appartenenza, un individuo debole può assumere un atteggiamento ostile nei confronti delle persone diverse. È a questo punto che subentrano l’intolleranza e il razzismo: anziché limitarsi a constatare che una persona appare diversa da lui e dagli altri membri del suo gruppo, o che si comporta in un modo che gli sembra strano ma che per quella persona è del tutto normale, affermerà che essa è inferiore a lui. Infatti, laddove un atteggiamento di apertura, o per lo meno di rispetto, verso la diversità rischierebbe di rivelargli che, in fondo, il proprio modo di vivere è solo uno fra i tanti modi possibili, il rifiuto preconcetto delle differenze, l’idea che tutto ciò che è diverso da sé non merita di essere preso in considerazione, gli regala l’impressione rassicurante di essere in possesso dell’unica verità possibile.
Chiaramente, un individuo intollerante non ammetterà mai di essere debole e di avere paura della diversità. Al contrario, farà di tutto per apparire sicuro di sé e si comporterà in modo arrogante e prepotente per mascherare la propria inettitudine personale.

 

Un individuo intollerante pensa che tutti gli appartenenti a una determinata cultura abbiano gli stessi difetti. A questo scopo si avvarrà del lungo elenco di pregiudizi e stereotipi circa gli altri gruppi che la propria cultura gli mette a disposizione.
L’intolleranza è la temibile malattia dei deboli. 

Il ricorso al pregiudizio è una forma acuta di pigrizia mentale grazie alla quale si evita la fatica di giudicare ciascun individuo in base alle sue azioni, di capire le sue ragioni e di mettere in gioco se stessi nell’incontro con gli altri.

Nella vita quotidiana, tutti noi tendiamo a formarci delle categorie mentali per classificare il mondo, che altrimenti risulterebbe troppo complesso per comprenderlo. Suddividiamo l’umanità in gruppi di persone: la classificazione più semplice è quella che contrappone “noi”, il nostro gruppo d’appartenenza, a tutti gli “altri”, ma solitamente questi ultimi vengono ulteriormente segmentati in categorie più piccole. Dopodiché attribuiamo a ciascun gruppo una serie di caratteristiche tipiche, alcune delle quali sono effettivamente condivise da quasi tutti i membri del gruppo, laddove altre sono il frutto di una generalizzazione indebita, se non addirittura di un’invenzione.

Ci sono molti modi di odiare chi è diverso da noi, dal non guardarlo al sopprimerlo.

Il primo modo di reagire negativamente alla diversità è considerare i dissimili da noi come persone con le quali non dobbiamo avere a che fare. Si cercherà pertanto di ignorarne la presenza, di non dar loro confidenza, di pretendere che vivano in luoghi distanti, dove non possono darci noia.
Il secondo modo è l’offesa verbale. Ciascun gruppo tende a coniare nomi offensivi per riferirsi ad altri gruppi. Si tratta di appellativi che, sotto l’apparenza dell’innocua burla, vengono pronunciati in tono denigratorio e perciò ledono la dignità dei gruppi a cui si riferiscono. Lo stesso discorso vale per le barzellette con cui si prendono in giro i presunti difetti dei diversi gruppi. Il fatto di ridere degli altri, di per sé, non costituisce un grosso problema, a patto che si sia disposti a ridere tranquillamente anche di se stessi. Invece accade spesso che proprio coloro che si divertono maggiormente a irridere i diversi si offendano moltissimo quando tocca a loro di diventare il bersaglio dello scherzo. Dall’irrisione malevola alla persecuzione il passo è breve.
Cosa accade, infatti, se si percorre la strada dell’intolleranza fino in fondo, ovvero se si discrimina chi appare diverso e lo si tratta alla stregua di un essere inferiore? Accade che si diventa prepotenti, e che ci si arroga il diritto di imporre il proprio sistema di vita a chi preferirebbe continuare a coltivare il proprio. È così che l’intolleranza può degenerare in violenza, dapprima episodica e poi sistematica, fino ad arrivare, in certi casi estremi, alla guerra e perfino allo sterminio sistematico di intere popolazioni.
Cosa accade, invece, se si percorre la strada della comprensione, ovvero se si accoglie chi appare diverso e lo si tratta alla stregua di un essere umano? Accade che si diventa altruisti, e che ci si impegna a conoscere in modo ampio e profondo i diversi sistemi di vita per cercare di migliorare il proprio.

E’ nel dialogo che si sostanzia la reciproca contaminazione che permette il manifestarsi della nostra identità: non ci può essere un vero dialogo se ciascuno non mette sé stesso in discussione e non è disposto a cambiare attraverso il confronto.

Un dialogo in cui i partecipanti si ritrovino alla fine nelle stesse posizioni di quando erano partiti è un fallimento: realizza la propria vocazione tanto quanto una lezione in cui nessuno impara nulla o un rapporto in cui non si fa che strumentalizzarsi a vicenda. Un dialogo è interminabile: le conversazioni che conduciamo con le altre persone, se hanno avuto presa su di noi, se abbiamo imparato a vederle come risorse, continueremo a perseguirle implicitamente per il resto della nostra vita.

In un dialogo, dunque, si deve vincere tutti insieme: servirsi cioè dello stimolo rappresentato dalla prospettiva altrui, della generosità con cui questa risorsa viene messa a disposizione per esplorare i punti in cui la propria prospettiva era stata presa per scontata, rimanendo quindi in uno stato primitivo e rudimentale di elaborazione.