Esecutori della guerra, ricordate le due antiche sentenze che aprono e chiudono la Regola del nostro corpo: la guerra è padrona di tutte le cose, di tutte regina. Mentre alla fine è detto: alla guerra, là da dove tutte le cose provengono, tutte le cose ritorneranno, dopo aver restituito ai reprobi la loro malvagità, secondo l’ordine del tempo

G. Di Costanzo, I Nemici

 

Perché scrivere un articolo sulle scritture di un romanziere? E perché pubblicarlo su Caos Management? Devo una spiegazione, duplice. Lo smarrimento e l’incertezza sembrano le due chiavi di accesso alla comprensione degli ultimi decenni del XX secolo e dei primi del XXI secolo. Le identità soggettive e collettive sono andate in frantumi e non più ricomposte. Le tutele e la protezione sociale in affanno ovunque. A livello sociale, la “moltitudine” ha preso il posto dei soggetti collettivi, come prevedeva Aldo Bonomi negli anni ’90. I processi di spaesamento e di sradicamento, prodotti della società competitiva, ci pongono in un tempo sociale caratterizzato “dal non più e dal non ancora” per cui “la tentazione del guardarsi indietro e la seduzione dell’immergersi nel presente” riflettono l’assenza di una “direzione” certa mentre la cooperazione e la negoziazione cedono il posto, quasi ovunque, al “conflitto”. 

D’altronde, se il Caos corrisponde alle nuove regole della complessità, la rivista “il Caos Management” mi sembra il luogo più opportuno per riproporre, oggi, una visione della realtà complessa (e allo stesso tempo semplice) attraverso le possenti metafore letterarie di Giuseppe Di Costanzo (1953- 2013), risalenti alla seconda metà del ‘900.

Vediamo di che si tratta.

Non è facile racchiudere in un articolo la letteratura di Giuseppe Di Costanzo, svoltasi, di fatto, tra il 1980, esordio bruciante con I popoli (Shakespeare & Company) e continuata, in seguito, con racconti e romanzi ancora sistemici (I nemici. Tre racconti di guerra) e, a volte, più personali o esperenziali (Lo sciacallo, Einaudi, 1996 e Il progetto, Besa, 1999). Tra parentesi, negli ultimi anni ha pubblicato, con la casa editrice “ad est dell’equatore” Tutto tranne l’amore (2013) e la stessa casa editrice ha portato alla luce il suo ultimo romanzo, postumo, Nel cielo con i diamanti (2016), ambedue centrati sulle ambiguità e ambivalenze dell’amore.

Non è facile, dicevo, per la naturale complessità di un “opera” letteraria, possibile attribuire all’autore in questione, nel senso letterale del termine, che volutamente sfugge alle semplificazioni critiche e si rivolge direttamente al lettore, indagando i lati oscuri del vivere collettivo e dell’esperienza di vita. Tramite potenti metafore, in questo caso, legittimamente semplificative, perché espressione della sintesi artistica che appartiene ad una consolidata tradizione letteraria che spazia da Kafka a Borges. Anche se, in particolare, la formazione filosofica di Giuseppe Di Costanzo appartiene allo “storicismo critico tedesco” mentre il suo riferimento concettuale prediletto è sicuramente il pensiero “inverso” di Friedrich Nietzsche. 

Torniamo sulla terra e affrontiamo i temi davvero singolari e predittivi, vista l’epoca della sua iniziale produzione letteraria, che Di Costanzo offre al lettore per intercettare la realtà (o le sue verità nascoste).

Mi soffermerò sulla prima fase della sua produzione artistica, quella citata prima come “sistemica”, ossia sul suo primo romanzo I popoli e sul breve ma tagliente racconto I nemici, sia per i legami che intercorrono tra le due scritture e “visioni del mondo”, sia perché nella seconda fase della sua creatività letteraria, pur rimanendo fermi alcuni concetti di base, per esempio il “conflitto”, la “signoria della morte” e la consapevolezza delle maschere che cerchiamo di costruirci per evitare una difficile “resa dei conti”, il suo percorso diventa più individuale, personale e soggettivo, abbandonando le grandi, e coinvolgenti, metafore collettive. 

Ripartiamo da I popoli, e dalla sua avvincente e significativa struttura narrativa. 

Per essi vivere equivale a “spostarsi”, per evitare l’incontro (e scontro) con altri popoli. Ma che succede se la “guida”, da sempre, secondo la “tradizione”, deputata a indicare la “direzione” giusta, si rifiuta di svolgere la sua funzione, chiudendosi nell’immobilismo del corpo e nel silenzio della parola? Sapranno i tre “sostituti” nominati dal popolo spiegare (l’inspiegabile) comportamento di Han (la guida)? Eventualmente convincerlo a riprendere il suo compito? E, in caso contrario, riusciranno, essi, a far riprendere al loro popolo lo “spostamento” cosi necessario alla sua sopravvivenza? 

Mentre la “sosta” si fa sempre più incomprensibile al popolo, e allo stesso tempo, per esso, pericolosa, i tre “sostituti” dialogano serratamente tra di loro sull’evento imprevisto, discutono animatamente sulle possibili soluzioni da prendere, inviano “esploratori” nei dintorni per avvistare, in tempo, eventuali, altri popoli. Si interrogano, soprattutto, sulla decisione di Han di non guidare più il suo popolo. Ma, il dubbio è legittimo, Han non vuole più “guidare” il suo popolo o non può più guidarlo, per una ragione che non rivela? E poi, la “sosta”, inattesa, ha irrimediabilmente compromesso il successo di una ipotetica ripresa dello “spostamento”, pregiudicato, oramai, dall’incessante movimento degli altri popoli? sarà, dunque, inevitabile, che un altro popolo si imbatta nel popolo di Han, con le conseguenze che è difficile anche solo immaginare? La “tradizione” (o meglio la storia) è chiara a questo proposito, Han deve guidare il suo popolo preservandolo dall’incontro con altri popoli, ma la “guida” è ferma, muta, immobile, incapace o decisa a non dare informazioni sul nuovo stato delle cose. D’altronde i “sostituti” stentano a trovare risoluzioni alternative perché la situazione che si è creata è completamente nuova. Il popolo abituato da sempre a “spostarsi” al buio di notte, con degli strani marchingegni che possiamo chiamare “macchine”, si è rifugiato al loro interno anche perché oramai il chiarore dell’alba si fa strada e la stessa “tradizione” impone qualsiasi movimento, o decisione al buio ben protetti dalle tenebre. 

Si fa strada, tra i “sostituti”, confusi e storditi nel reciproco contraddittorio sullo “spostamento” interrotto (e da riprendere), forse inconsapevolmente, sempre più l’idea di una crisi “sistemica” non più affrontabile con le regole della “tradizione”. Bisognerà, dunque, riprendere lo “spostamento” alla luce del giorno? Senza Han? O addirittura accettare l’idea di incontrare altri popoli, altre “tradizioni”? ma, intanto la luce è sempre più forte, e tra qualche minuto il sole sorgerà, guardarlo sarà accecante ma allo stesso tempo il problema che sta davanti al popolo (e ai suoi “sostituti”) non ha altre vie d’uscita, accettare di essere distrutti dal rifiuto di Han rimanendo fermi, o cambiare la propria natura, alla ricerca di nuove regole dello “spostamento” staccandosi così dalla “tradizione” dallo stesso Han e dai medesimi  rituali e finalità del movimento de I popoli, da sempre alla base della loro “conservazione”. Il finale è ambiguo e lascia nell’incertezza uno dei “sostituti” che, sfinito e abbagliato dalla luce, esperienza completamente nuova cui non è abituato, rivolge inaspettatamente il proprio sguardo al sole che, prima abbacinante poi nero, assume infine la forma di un “cerchio”.

Per lo meno tre considerazioni sono immediate per il lettore.

La prima riguarda i “sistemi chiusi” nei quali nostro malgrado siamo inseriti. La seconda, conseguenziale: ci sono forse altri modi di vedere le cose, ma a quale prezzo? La terza, all’origine del tutto, incontrare gli “altri” può essere distruttivo per il proprio popolo, dunque, gli “altri” vanno evitati a meno che non si è disposti ad affrancarsi dalla “prigionia del senso” del sistema in cui si è inseriti. 

Ancora oggi, la crisi della leadership è evidente, la relativizzazione della storia un pericolo incombente, la fine delle ideologie incalzante, d’altronde il romanzo è stato scritto tra il 1979 e il 1980, mentre la caduta del muro di Berlino risale, significativamente, al Novembre del 1989, ma questa è cronaca. 

Ritorniamo ai racconti, a I nemici, pubblicato nel 1989 (Altri Termini, Napoli) e al suo tema dominante: “la guerra” o meglio la “nascita alla guerra”. In uno scenario urbano, cupo e minaccioso, si susseguono i combattimenti tra eserciti contrapposti, mentre squadre di “esecutori” accompagnati (e a volte sostenuti) e protetti dai soldati, esercitano il loro “privilegio”, ossia dare la morte ai “nemici” catturati, prendendogli la vita. Questi, gli sconfitti di quel giorno, aspettano attoniti che il feroce rituale di morte sia compiuto dagli “esecutori della guerra”, corpo speciale dei vittoriosi, da tutti invidiati, da tutti ammirati. Mani e piedi mozzati, testa troncata, questo l’inesorabile destino dei “vinti” e l’imprescindibile compito dei “vittoriosi”, ma non c’è, paradossalmente, violenza nei gesti della élite degli “esecutori” piuttosto l’esercizio legittimo dell’odio perché anch’essi servi incastrati nell’astratta legge della “guerra”, nel meccanismo universale che produce la vita a mezzo della morte. Le squadre si formano e si riformano a seconda delle alterne vicende della guerra, si da la morte e si prende la vita ma, ad un certo punto, il dubbio traspare nell’azione dell’”esecutore” anche se solo per un attimo, addirittura nel “primo” tra i “primi” degli “esecutori”. 

È il più vecchio, stanco e ferito tra i tanti valorosi “esecutori della guerra”, e si chiede anche solo per un momento se la felicità è colpire i “nemici”? odiare i “nemici”? dare la morte? sfuggire la morte? essere servi della guerra? Ma è solo un attimo. La regola del “corpo” prende di nuovo il sopravvento, la vera sconfitta sarebbe non prendere una vita alla “guerra”, ripiegare senza avere eseguito il proprio compito, dover rinunciare al privilegio di dare la morte per agguantare una vita. 

Fin qui il racconto de I nemici, e sembra subito chiaro che ciò che ne I popoli si paventava, l’incontro con altri popoli, è diventato scontro e la guerra endemica e totale diventa lo stesso meccanismo della vita (e della morte).

A questo punto passiamo alle riflessioni personali.

Ci riconosciamo nei testi di Giuseppe Di Costanzo? L’”altro” è sempre diverso da noi? È più facile incontrarsi o evitarsi? Prendere la vita dell’”altro” è l’unico modo per riprodurre la propria? Ancora, abbiamo tuttora bisogno di una “direzione”? di una “guida”? c’è ancora una “direzione” o il movimento dei popoli è irrimediabilmente “cieco”? siamo inoltre in grado di entrare nelle metafore chiuse dell’autore, lo “spostamento” o la “guerra”, per poi uscirne? C’è, alla fine, una via d’uscita dalle “chiuse” metafore di Giuseppe Di Costanzo?

Sta a noi collocarci, eventualmente prendere posizione, Di Costanzo nella sua creazione letteraria, nelle sue storie, perché alla fine di questo si tratta, dipinge scenari chiusi in parte ossessivi sempre di movimento ma nei quali traspare, a volte, l’imprevisto (come ne I popoli), altre volte il dubbio (come ne I nemici), sempre la certezza, si direbbe, di una specie di grado minimo dell’esistenza che dal principio alla fine è sempre un combattere e un lottare. 

Ruggero Guarini (1931-2013), scrittore e giornalista italiano, nella sua splendida post-fazione ai due romanzi di Giuseppe Di Costanzo, si sofferma sulle metafore letterarie de I popoli e de I nemici, definendole “luogo uniforme e asfissiante della vita-morte”, e “carcere vasto come il mondo”, collocandosi però ai confini di esso ipotizzando che “l’uscita si trovi proprio li” in tutti quei punti in cui “l’astratta legge della guerra (o dello spostamento) con tutto il suo implacabile automatismo” lascia emergere qualcosa che non è riducibile al mero funzionamento oggettivo, “ma presuppone ed esige uno sguardo che, pur essendo inscritto in essa, le si contrappone e la supera”. 

Questa è senz’altro una interpretazione accettabile, anche condivisibile, ma siamo certi che il silenzio di Han e il dubbio dell’”esecutore della guerra” siano riconducibili al “puro sentimento”? che l’autore, dopo aver costruito le sue metafore sulla “tradizione” e l’astratta “legge della guerra”, con la sua straordinaria capacità di cogliere ciò che la vita ha di chiuso, di vincolato, di soffocante, abbia anche previsto una via d’uscita da una situazione di conflitto universale, in un mondo che si rivela privo di qualsiasi sicurezza, luogo in cui si misurano perennemente la miseria e la grandezza dei suoi protagonisti?