Lo spazio è soltanto un’attività dell’anima, è soltanto il modo umano di collegare in visioni unitarie affezioni sensibili in sé slegate. G. Simmel

 

 

Oltre tremila anni fa, in un’imprecisata area collocata al nord del subcontinente indiano, sorgeva una civiltà misteriosa che ci ha tramandato il suo sapere sotto forma di testi sacri – i Veda – atlanti del regno metafisico della mente e del cosmo.           Conosciamo poco altro di questa civiltà che non ha lasciato oggetti, mura o santuari, nulla che potesse confinarla in uno spazio costruito. Un’evenienza che non è stata semplicemente una cancellazione dovuta al tempo ma una precisa volontà degli autori dei Veda. Una volontà espressa nei loro complessi scritti: ogni cosa di questo mondo è provvisoria, una volta utilizzata può essere cancellata, nulla è fatto per durare e tutte le cose entrono ed escono dalla realtà così come entrano ed escono dal mondo dell’immaginario. Nel mondo dei Veda non vi era distinzione fra spazio reale e spazio immaginario, nessun peccato originario aveva separato la realtà dall’immaginazione. Tutte le cose avevano, in quel tempo remoto, la trasparenza del sogno. 

 

Un altro popolo abitava una città di cui conosciamo l’ubicazione e la forma ma nulla sappiamo delle sue parole: una lingua ancora oggi a noi sconosciuta fu parlata a Mohenjo-daro città risalente all’Età del bronzo, situata sulla riva destra del fiume Indo, nell’attuale regione pakistana del Sindh, a trecento chilometri a nord-nord-est di Karachi. Insieme ad Harappa, Mohenjo-daro fu una delle più grandi città della misteriosa civiltà della valle dell’Indo. Non sappiamo nulla dei sogni di questa civiltà ma ne conosciamo la loro forma sulla terra: un sigillo ritrovato fra le rovine di Mohenjo-daro ci mostra una figura maschile seduta con le gambe incrociate, una posizione del tutto simile a quella dello yoga così come lo intendiamo oggi. L’uomo raffigurato è assorto in meditazione, una testimonianza importante non solo per la disciplina yogica ma soprattutto per la chiara volontà di quel popolo di connettere il microcosmo interiore con il macrocosmo delle cose e degli dèi. La meditazione ha un legame intimo con la concezione dello spazio, con la sua presenza e la sua sparizione; la consapevolezza dei nostri pensieri può avvenire soltanto attraverso la presenza dello spazio che ci contiene e che ci pervade. Nello stato meditativo ogni discriminazione perde consistenza; si diventa consapevoli che spazio interno e spazio esterno, immaginazione e realtà non sono altro che convenzioni generate dalla costruzione quotidiana di filtri cognitivi che formano la struttura dello spazio reale e il suo analogo immaginario. 

Dall’altra  parte del mondo, in un altro tempo, una storia narra che sotto la direzione di uomini e donne straordinari, fiorì nel Messico precolombiano una cultura che non è stata mai veramente compresa dagli storici. Gli sciamani di quel tempo avevano portato le loro tecniche del sognare a un punto tale di perfezione, che erano in grado, tramite le loro attenzioni del sogno accomunate in un solo sforzo, di proiettare copie di case o di intere città in altre dimensioni, per poi seguire essi stessi e fermarsi a vivere in quei mondi. Sognavano e creavano insieme un nuovo mondo. 

 

Proseguendo nel nostro viaggio immaginario, scopriamo un’interminabile distesa di terra rossa, un territorio che si estende per migliaia di chilometri in tutte le direzioni; l’Outback australiano non ha veri e propri confini, si sa solo che inizia oltre il bush, e indica, per i nativi un luogo molto, molto lontano. Migliaia di linee immaginarie attraversano l’intero territorio; ogni canto aborigeno è una mappa dettagliata contenente le caratteristiche visibili e invisibili di ogni luogo. Lo spazio immaginario dell’Outback è infinitamente più complesso dello spazio reale che offre pochi riferimenti fisici di orientamento, una fitta rete si estende nel luogo mentale delle vie dei canti: una rete che unisce lo spazio e il tempo alla memoria degli antenati e che struttura la vita della popolazione aborigena fin dal concepimento. Gli aborigeni credono che gli spiriti-bambini siano depositati sulla terra per mezzo del canto degli antenati del “Tempo del sogno”. La donna aborigena concepisce danzando canti che individuano un luogo. Lo spirito-bambino di quel luogo entra nel suo utero. La donna ricorda l’esatta ubicazione e informa gli anziani. Questo è il luogo del concepimento e appartiene alla persona che nascerà; è il luogo dove risiede l’essenza del bambino.

 

Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la Terra, si sentirono stanchi. Di nuovo sentirono nelle membra la gelida immobilità dei secoli. Alcuni sprofondarono nel terreno, lì dov’erano. Altri strisciarono dentro le grotte. Altri ancora tornarono lentamente alle loro “Dimore Eterne”, ai pozzi ancestrali che li avevano generati. Tutti tornarono “dentro” ( Bruce Chatwin, Le vie dei canti).

 

Per gli aborigeni, non esiste il passaggio dal passato al futuro, ma uno spazio immaginario che contiene sogno e realtà; complessi rituali mettono in scena le storie del tempo del sogno dove il passato, il presente e il futuro coesistono in mondi paralleli, non vi è separazione tra tempo ed eternità: tutto il tempo si svolge nel presente e attraverso il canto gli aborigeni mantengono viva la consapevolezza dell’eterno presente.

Cosa accomuna popoli così distanti nello spazio e nel tempo? I loro modi di intendere lo spazio e di misurarlo sono molto diversi eppure in tutti è possibile rintracciare una sovrapposizione e uno sdoppiamento fra lo spazio concreto e quello semplicemente immaginato. L’immaginazione di eventi è il motore che configura lo spazio concreto, la geografia si rivela essere prima di tutto una proiezione della mente. I mezzi per generare spazi reali influiscono a loro volta sugli spazi immaginari in un processo autopoietico che è alla base di ogni creazione umana.

In quest’ottica di interdipendenza, modelli fisici possono trovare riscontro in mondi mentali abolendo le illusorie linee di demarcazione fra le due realtà. Un’illusione che si dilegua quando mettiamo a tacere il pensiero razionale per immergerci nella realtà dell’attimo presente. Il limite fra i due mondi è quanto mai labile e sfumato e non avremmo esperienza di alcuno spazio fisico senza una primaria prefigurazione e proiezione dello spazio mentale oltre i limiti della nostra mente razionale.

 

Cos’è lo spazio immaginario? Tentiamo una definizione:

Lo spazio immaginario è generato da un processo della mente che elabora un’esperienza di uno spazio non percepito ma vissuto in una simulazione sensoriale. La mente emula il proprio corpo nel momento in cui esplora uno spazio immaginario; un’esperienza mentale dove la percezione viene immaginata in relazione ad un modello del proprio corpo e del proprio sistema percettivo. Semplificando, chi fa esperienza di uno spazio immaginario non è il proprio sistema corporeo ma una sua emulazione all’interno della mente. Analogamente alla simulazione spaziale, la simulazione del tempo viene effettuata “spazializzando” la dimensione temporale: non riusciremo a vedere lo scorrere del tempo senza immaginarlo in una forma di spazio, ad esempio secondo eventi disposti su una linea retta orientata. Ricordiamo e raffiguriamo degli eventi passati mettendoli in “prospettiva” ponendo una distanza fra due o più eventi secondo una direzione spaziale che visualizziamo nella nostra mente.

 

La distinzione fra spazio immaginario e spazio reale è data dallo scarto fra pensiero e materia che si rispecchia nella volontà di separazione tra il mondo dell’arte e quello della scienza. Finché questa distinzione di valori continuerà a esistere, ci sarà questa divisione di spazi e la lotta per la supremazia dell’uno sull’altro. Oggi la scienza tende a non considerare l’immaginario come radice del reale, come l’altra faccia della stessa medaglia: il paradosso è che la faccia nascosta è quella che, nella sua presunta irrealtà, determina ogni agire umano. Maurice Merleau-Ponty annota, nel suo breve ma intenso saggio L’occhio e lo spirito, che la scienza pur manipolando le cose rinuncia poi ad abitarle. La scienza conserva quell’opacità del mondo che tende a esaminare il generale a scapito del particolare e a considerare reale solo ciò che è duplicabile.

La scienza non può essere ignorata ma il suo velo di opacità può essere squarciato e l’arte ha questa possibilità: usandone la tecnica, figlia legittima della scienza, può permettere la comunione delle due facce della medaglia.

Il Novecento si dimostrerà essere il secolo dell’immaginario tecnologico, il secolo della fede e della speranza in una tecnologia che può salvare quella materia inafferrabile ad ogni scienza che sono i nostri sogni e la nostra immaginazione. I primi del Novecento furono gli anni dell’esaltazione della luce che doveva, nelle intenzioni, essere la nuova guida per una società migliore. La luce sarà utilizzata per rischiarare la notte di intere città, un cambiamento  che  finirà per  cambiare  ogni abitudine  e ogni immaginario dell’uomo pre-industriale  ma  la manipolazione   della tecnologia  allo scopo di  cambiare la visione del mondo non  sempre  porterà i risultati sperati dai fautori di un futuro migliore. Un esempio: Negli anni trenta del secolo scorso  la luce sarebbe stata un potente mezzo di propaganda; lo spazio ideale di un’ideologia esaltata avrebbe preso forma per la propaganda nazista: la Cattedrale della Luce fu lo spazio progettato dall’architetto del Führer, Albert Speer, per i convegni del partito nazista a Norimberga a partire dal 1933. La Cattedrale era composta da 130 proiettori anti-aerei, posti a intervalli di 12 metri, puntati verso il cielo per creare una serie di colonne di luce che sembravano congiungersi con la volta celeste e che circondavano il pubblico in uno spazio tanto immateriale quanto visionario. Lo spazio delimitato dalla luce poteva ospitare più di 300.000 persone. L’effetto di grande suggestione  aveva lo scopo di  indirizzare le emozioni del popolo e con esse le convinzioni più profonde verso la ragione dell’orrore generato dalla manipolazione dello spazio immaginario.

 

Operare distinzioni è prerogativa necessaria per ogni forma di potere e di controllo: lo spazio immaginario nel suo intrecciarsi con quello reale può trasformarne lo statuto di realtà e avviarlo verso la dissoluzione in mondi fittizi. Quegli stessi mondi che Hannah Arendt ha indicato come all’origine di ogni totalitarismo il cui scopo è quello di organizzare le masse intorno a un immaginario determinato da un’ideologia; un sistema che, ponendosi come fulcro generatore di un mondo, vuole porre ordine in ogni livello di realtà ottenendo come risultato la sparizione della realtà stessa a favore di un mondo creato ex novo e isolato dalla costellazione del reale.

L’isolamento di un uomo o di un intero popolo genera mondi atomistici, isole di pensieri incontrastati nella loro presunta validità universale. La conoscenza dei meccanismi che sono alla base della formazione dello spazio immaginario e della sua profonda relazione con lo spazio reale, ci permette di preservare la libertà e l’autonomia nel controllo della nostra mente e del nostro spazio vitale. Lo spazio immaginario è quel territorio misterioso e inaccessibile della mente dove si formano immagini e pensieri. Chi controlla questo spazio controlla il mondo intero.

 

 (Tratto da: Claudio Catalano, Mindspace: la costruzione dello spazio immaginario, meltemi editore 2018)