Una “quasi” recensione de “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro. Alex Williams e  Nick Srnicek. Feltrinelli” 

 

Non è una vera recensione perché l’unico commento è il seguente: – il contenuto è accurato, ben esposto e documentatissimo – . Dell’argomento sono alcuni anni che Il Caos Management si interessa. Preferiamo quindi allegare alcuni estratti con l’obiettivo di fornire spunti di discussione che questa rivista, se si vuole, è disposta ad organizzare ed ospitare. 

       

Gli autori

Alex Williams  – Insegna sociologia alla City University of London

Nick Srnicek  – Insegna Economia Politica Internazionale  alla City University of London ed alla University of Westminister

 

Introduzione

Cosa è successo al futuro? Che fine ha fatto?

Per buona parte del XX secolo è stato il futuro a indirizzare i nostri sogni. Da sinistra arrivavano visioni emancipatrici derivate dall’incrocio tra il potere del popolo e il potenziale liberatorio della tecnologia: dalle previsioni di un mondo nuovo di tempo libero e ozio al comunismo cosmico sovietico, dall’afrofuturismo, che celebrava la natura diasporico-sinte­tica della cultura nera, fino alle proiezioni post-gender del femminismo radicale, l’immaginario collettivo della sinistra è stato in grado di prefigurare società di gran lunga migliori di quelle che sogniamo oggi.  Attraverso il controllo che il popolo avrebbe esercitato sulle nuove tecnologie, tutti insieme saremmo riusciti a trasformare il mondo in un posto migliore.

Oggi, per un verso, questi sogni appaiono più vicini che mai. L’infrastruttura tecnologica del XXI secolo sta producendo risorse tali da rendere plausibile un sistema politico ed economico diverso. Le macchine oggi sono in grado di compiere mansioni inimmaginabili anche solo un decennio fa. Internet e i social media danno voce a miliardi di persone che fino a ieri erano rimaste inascoltate, così che una democrazia partecipativa sembra davvero essere dietro l’angolo. I progetti open source, le potenzialità creative del copyleft, la stampa in 3D, annunciano un mondo dove la scarsità di molti beni potrebbe diventare un ricordo lontano. Nuove forme di simulazione computerizzata potrebbero essere in grado di svecchiare la pianificazione economica, e offrirci dunque possibilità senza precedenti per guidare la nostra economia in maniera razionale. La più recente ondata di automazione sta creando i presupposti per abolire una volta per tutte moltissimi lavori noiosi e degradanti. Le energie rinnovabili rendono praticabili fonti di energia ecologicamente sostenibili e virtualmente inesauribili. Infine, le nuove tecnologie in campo medico sembrano pronosticare non soltanto una vita più lunga e più sana, ma anche nuove sperimentazioni nel campo dell’identità sessuale e di genere. Molte delle classiche richieste programmatiche della sinistra – meno lavoro, fine della povertà, democrazia economica, produzione di beni socialmente utili, liberazione dell’umanità – sono assai più concrete e ottenibili oggi che in qualsiasi altro periodo della storia.

Eppure, sotto la scintillante patina dell’era tecnologica in cui viviamo, rimaniamo schiavi di relazioni sociali vecchie e obsolete. Continuiamo a seguire orari di lavoro massacranti, condannati a un’eterna vita da pendolari, per svolgere mansioni che ci sembrano sempre più prive di senso. Il nostro lavoro è sempre più precario, il nostro salario è mediocre e i nostri debiti sono diventati insostenibili. Facciamo fatica ad arrivare a fine mese, a mettere il cibo in tavola, a pagare l’affitto o il mutuo, a trovare strutture per i nostri bambini a costi ragionevoli, mentre intanto saltiamo da un’occupazione all’altra vagheggiando di pensioni che non otterremo mai. I processi di automazione hanno prodotto nient’altro che disoccupazione, i salari stagnanti hanno devastato la classe media e nel frattempo i profitti delle grandi corporation sono continuati ad aumentare. Sotto la pressione di un mondo sempre più precario e debilitante, la promessa di un futuro migliore è andata in frantumi, oramai dimenticata. E ogni giorno torniamo a lavoro, come sempre: esausti, ansiosi, stressati, frustrati. Su scala planetaria l’orizzonte sembra, se possibile, persino più minaccioso. I peggioramenti climatici si susseguono senza sosta, e le protratte conseguenze della crisi economica hanno spinto i governi mondiali a adottare politiche di austerità paralizzanti e distruttive. Messi all’angolo da forze astratte e impercettibili, ci sentiamo incapaci di eludere e controllare l’immane pressione che su di noi esercitano le spinte economiche, sociali e ambientali. Ma come potremmo sfuggire a una situazione del genere? Se ci guardiamo attorno l’impressione è che i sistemi politici, così come i movimenti e i processi che hanno dominato l’ultimo secolo, siano incapaci di produrre autentiche prospettive di cambiamento: al contrario, l’unico sentiero percorribile è diventato il sacrificio senza fine. Le democrazie elettorali sono ridotte in uno stato pietoso. I partiti di centrosinistra sono stati svuotati, spogliati di qualsiasi mandato popolare: al loro posto, nient’altro che cadaveri vacui guidati da ambizione e carrierismo. I movimenti radicali sbocciano pieni di promesse, per poi venire rapidamente soffocati dalla stanchezza e dalla repressione. I sindacati sono stati sistematicamente privati di qualsiasi potere effettivo, e sono oggi organizzazioni sclerotiche capaci soltanto di opposizioni deboli. Nonostante le calamità dell’oggi, la politica contemporanea rimane drammaticamente a corto di idee nuove: il neoliberismo imperversa da decenni, mentre la socialdemocrazia sopravvive tuttalpiù sotto forma di nostalgia. Nell’esatto momento in cui le crisi che ci troviamo ad affrontare acquistano forza e velocità, la politica appassisce e si tira indietro. E, nella paralisi dell’immaginario politico, il futuro viene cancellato.

Questo libro si domanda come siamo arrivati a una tale situazione, e come ripartire verso il futuro. … 

…  questo libro vuole proporre un’alternativa: una politica che provi a riconquistare il controllo del nostro futuro, che nutra l’ambizione di immaginare un mondo ben più moderno di quello che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Le potenzialità utopiche latenti nelle tecnologie del XXI secolo non possono rimanere schiave della ristretta mentalità capitalista, ma vanno liberate in direzione di un’ambiziosa alternativa di sinistra. Il neoliberismo ha fallito, la socialdemocrazia è impossibile, e solo una visione alternativa potrà essere in grado di traghettarci in un mondo di prosperità ed emancipazione universale. Il dovere fondamentale della sinistra di oggi è quello di articolare, e quindi perseguire, questo mondo migliore.

 

Capitolo 5

IL FUTURO NON STA FUNZIONANDO

Finora abbiamo sostenuto come la sinistra contemporanea tenda a una folk politics incapace di ribaltare la situazione presente e di opporsi al capitalismo globale, mentre al contrario dovrebbe rivendicare la complessa eredità della modernità e proporre visioni di un futuro nuovo. Ma è anche fondamentale che queste visioni si fondino su tendenze già in atto: questo capitolo propone dunque un’analisi circostanziale del capitalismo contemporaneo visto attraverso la lente del lavoro e, sulla base di questa analisi, il capitolo successivo sosterrà che quello a cui dobbiamo puntare è proprio un futuro senza lavoro.

Ma cosa significa invocare la fine del lavoro? Con «lavoro» intendiamo i nostri impieghi professionali, il lavoro salariato, il tempo e la fatica che cediamo a qualcun altro in cambio di un reddito. È un tempo di cui non siamo padroni ma che è sotto il controllo dei nostri capi, manager e datori di lavoro: al servizio di queste figure spendiamo circa un terzo della nostra intera vita. Il lavoro può essere qui compreso in opposizione a «tempo libero», laddove quest’ultimo è generalmente associato ai weekend e alle vacanze. Quello che però chiamiamo tempo libero non va a sua volta confuso con la semplice indolenza, anche perché molte delle attività a cui più ci piace dedicarci richiedono in realtà un impegno enorme: imparare a suonare uno strumento musicale, leggere, socializzare con gli amici o praticare uno sport, sono tutte occupazioni che comportano vari livelli di fatica e sforzo, ma che comunque scegliamo liberamente di intraprendere. Un futuro post-lavoro dunque, non è un mondo di pigrizia: piuttosto, è un mondo dove le persone non saranno più schiave del lavoro salariato, ma libere di modellare le proprie vite.

Un simile progetto riporta a una lunga tradizione – sia essa marxista, keynesiana, femminista, anarchica o nazionalista nera – che ha sempre rigettato la centralità del lavoro; numerosi pensatori hanno provato in maniera diversa a emancipare l’umanità dalla tediosa schiavitù occupazionale, dalla dipendenza dal lavoro salariato, dalla sottomissione delle nostre vite a un capo o a un datore di lavoro, tentando di dischiudere un «regime di libertà» all’interno del quale l’umanità potesse proseguire il suo progetto di emancipazione. Ma, precedenti a parte, sono i recenti sviluppi del capitalismo ad aver attribuito una nuova urgenza a questi problemi.

Il rapido progresso dell’automazione, il crescente surplus di popolazione lavoratrice e la continua imposizione di politiche di austerità economica obbligano a ripensare la funzione del lavoro per prepararsi alle future crisi del capitalismo; …

Questo capitolo spiega perché un mondo post-lavoro è un’alternativa che più passa il tempo più diventa urgente. La prima parte descrive la crisi del lavoro che già si sta profilando: fine del posto fisso nei paesi sviluppati, crescita della disoccupazione, surplus di popolazione, e collasso del «lavoro» inteso come misura disciplinare capace di mantenere la società coesa. Quindi rivolgeremo la nostra attenzione ai vari sintomi di questa crisi, che si manifestano non solo nel numero di disoccupati ma anche nell’aumento della precarietà, nel fenomeno della jobless recovery e nel crescente numero di fenomeni come la marginalità e la segregazione urbana: possiamo già notare gli effetti di questi cambiamenti ovunque, e con essi i nuovi conflitti e problemi sociali che così si producono. Infine, considereremo i vari modi in cui gli Stati hanno gestito la tendenza del capitalismo a produrre un surplus di popolazione.

Oggi la crisi del lavoro minaccia di mettere in crisi i metodi di controllo tradizionali: di conseguenza, da questa crisi è possibile facilitare la produzione di quelle condizioni sociali che permetteranno la transizione verso un futuro libero dal lavoro salariato.

Con la possibilità di un’automazione del lavoro su larga scala è molto probabile che il futuro ci presenterà le seguenti tendenze:

  • La precarietà delle classi operaie nelle economie dei paesi sviluppati si andrà intensificando, per via della crescita del surplus di forza lavoro globale (prodotto da globalizzazione e automazione).
  • Le «riprese senza lavoro» si protrarranno e si presenteranno con forme sempre più marcate, andando a toccare principalmente i lavoratori che possono essere rimpiazzati da macchinari.
  • Le popolazioni di ghetti, baraccopoli e slum continueranno a crescere per via dell’automazione dei posti di lavoro non specializzati, un processo reso ancora più rapido dalla deindustrializzazione prematura.
  • La marginalità urbana nelle economie sviluppate crescerà sempre di più, in seguito all’automazione dei posti di lavoro non specializzati e pagati poco.
  • La trasformazione dell’educazione universitaria in una semplice formazione al lavoro sarà accelerata, nel disperato tentativo di produrre grandi quantità di lavoratori specializzati.
  • La crescita continuerà a essere lenta, rendendo improbabile la creazione di nuovi posti di lavoro che vadano a rimpiazzare quelli perduti.
  • I cambiamenti al workfare, i controlli per l’immigrazione e l’incarcerazione di massa si intensificheranno, e i disoccupati saranno sempre più soggetti a misure coercitive.

Naturalmente, nessuno di questi esiti è inevitabile. Ma la nostra analisi si basa sulle tendenze attuali del capitalismo e sui problemi che, con molta probabilità, emergeranno in seguito all’ulteriore crescita del surplus di popolazione.

Queste tendenze prefigurano una crisi del lavoro, e di conseguenza una crisi che colpirà qualsiasi società fondata sull’istituzione del lavoro salariato. … Partiti politici e sindacati sembrano ignorare la crisi e fanno fatica a controllarne i sintomi, e questo nonostante l’automazione minacci di rendere obsoleti un numero sempre maggiore di lavoratori. Di fronte a queste tensioni, il progetto politico per il XXI secolo deve essere quello di costruire un’economia in cui la sopravvivenza delle persone non dipenda più dal lavoro salariato. … Infine, lo stato sociale va difeso: non come un fine in se stesso, ma come una componente necessaria per il raggiungimento di una società post-lavoro più accogliente e tollerante. Il futuro rimane aperto, e la lotta politica che ci aspetta consiste precisamente nel definire quali saranno le conseguenze della crisi del lavoro

 

POVERI VIRTUALI

Il lavoro è un fenomeno comune a tutte le società, ma all’interno del sistema capitalista acquisisce qualità storicamente uniche. Nelle società precapitaliste, nonostante il lavoro fosse necessario, le persone avevano accesso comune alla terra, praticavano forme di agricoltura di sussistenza e avevano la disponibilità dei mezzi necessari quantomeno a sopravvivere; i contadini erano poveri ma autosufficienti, e la sopravvivenza individuale non dipendeva dal lavoro svolto per qualcun altro. L’avvento del capitalismo cambiò tutto: attraverso il processo conosciuto come accumulazione originaria, i lavoratori precapitalisti furono sradicati dalla loro terra ed espropriati dei mezzi di sussistenza. I contadini si ribellarono, continuando a sopravvivere ai margini dell’emergente mondo capitalista, e fu necessario l’uso della forza – e di nuovi severi sistemi legislativi – per imporre il lavoro salariato sull’intera popolazione. In altre parole, i contadini furono trasformati in proletari.

La nuova figura sociale del proletariato venne dunque definita proprio dalla mancanza di accesso ai mezzi di produzione e di sussistenza e dal bisogno di lavoro salariato per sopravvivere: questo significa che il proletariato non è equivalente alla «classe operaia» e che non è definito da reddito, professione o cultura. Il proletariato è semplicemente quel gruppo di persone costrette a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere, che esse abbiano un impiego fisso o meno, e la storia del capitalismo è la storia della trasformazione della popolazione mondiale in proletariato tramite l’espropriazione progressiva della forza lavoro rurale. …

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Capitolo 6

Mentre i capitoli precedenti hanno analizzato i cambiamenti delle condizioni sociali che stanno rendendo sempre più necessario un mondo post-lavoro, questo capitolo vuole delineare l’aspetto che un futuro del genere potrebbe praticamente assumere. Partiremo quindi da alcune generiche richieste per la costruzione di una piattaforma che ci porti a una società libera dal lavoro salariato: il senso è rompere con quella tendenza che porta una fetta importante della sinistra odierna a individuare nel rifiuto di qualsiasi rivendicazione il non plus ultra dell’intransigenza.

In effetti, diversi critici sostengono che il risultato di qualsiasi richiesta o rivendicazione è legittimare un’autorità esterna e quindi scendere a compromessi con lo status quo: ma è un’interpretazione che perde di vista sia l’elemento antagonista da cui muove il puro gesto di richiedere qualcosa, sia il ruolo essenziale che richieste e rivendicazioni rivestono in quanto agenti attivi del cambiamento. Alla luce di queste considerazioni, rifiutarsi di formulare qualsiasi tipo di rivendicazione è il sintomo di una confusione teorica, più che un progresso pratico: una politica priva di rivendicazioni è semplicemente un insieme di corpi senza un obiettivo.

Una visione coerente del futuro è invece in grado di avanzare proposte e obiettivi concreti, e questo capitolo vuole appunto contribuire a questa potenziale discussione. Nessuna delle proposte che presenteremo qui è radicalmente nuova, ma proprio in questo sta parte della loro forza: non si tratta cioè di un progetto vago o campato in aria, perché movimenti e strutture capaci di sostenerlo esistono già, e hanno un effetto tangibile nel mondo reale

 

IL DIRITTO ALLA PIGRIZIA

Quali ostacoli si frappongono all’istituzione di un reddito base? Se a prima vista il problema di trovare i fondi per finanziare una simile misura sembra insormontabile, studi e ricerche indicano che in realtà si tratterebbe di un compito relativamente facile: servirebbe cioè tagliare quei programmi alternativi che un reddito base renderebbe ridondanti, aumentare la tassazione sui ricchi, e poi imposte di successione, tasse sul consumo, carbon tax, taglio della spesa militare, taglio dei sussidi all’industria e all’agricoltura, e una stretta sull’evasione fiscale.

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Uno dei problemi più grandi per l’attuazione di un reddito base e la costruzione di una società post-lavoro, è quello di superare la pressione sociale che porta a interiorizzare l’etica del lavoro.

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Lasciarsi alle spalle l’etica del lavoro sarà dunque un obiettivo ineludibile per qualsiasi futuro tentativo di costruire un mondo post-lavoro. …

Il neoliberismo ha introdotto una serie di incentivi per spingerci ad agire e a identificarci come soggetti competitivi: è una visione dell’individuo attorno alla quale orbita una costellazione di immagini tutte orientate all’autonomia e all’indipendenza, che necessariamente entrano in conflitto con qualsiasi programma di società post-lavoro. Le nostre vite sono sempre più strutturate attorno a un ideale fortemente competitivo, che nel lavorare duro individua il principale strumento di autorealizzazione, e per quanto degradante, sottopagato o scomodo esso sia, il lavoro viene comunque considerato come un bene in sé. Questo è il mantra dei principali partiti politici come della maggior parte dei sindacati: è un’idea che spesso deriva dalla retorica del lavoro per tutti come dall’importanza che viene attribuita all’immagine della «famiglia di lavoratori», e che si accompagna ai tagli del welfare giustificati dal fatto che «lavorare paga sempre».

La stessa ideologia è parallela alla demonizzazione dei disoccupati: i giornali pubblicano titoli che mettono in dubbio la caratura morale di coloro che ricevono i sussidi, i programmi televisivi ridicolizzano i poveri, e lo stereotipo del parassita dello Stato assistenziale è ormai un classico. Il lavoro è diventato centrale per la nostra concezione di noi stessi, ed è così profondamente radicato in noi che, di fronte all’idea di lavorare meno, molti rispondono: «E allora cosa farei?». Il fatto che così tante persone non riescano neppure a immaginare una vita che abbia significato al di fuori del proprio impiego dimostra quanto in profondità l’etica del lavoro abbia plasmato la nostra psiche.

Per quanto venga spesso associata all’etica del lavoro protestante, la sottomissione al lavoro è in realtà implicita in molte religioni. Questi sistemi etici e valoriali richiedono dedizione al proprio lavoro qualunque esso sia, e instillano il messaggio che la fatica abbia un valore morale intrinseco. Dall’ideale religioso che prometteva una miglior vita futura in cambio del duro lavoro, l’etica del lavoro servì poi alla dedizione – tutta secolare – al miglioramento della vita presente: le forme contemporanee di questo imperativo hanno assunto un carattere liberale-umanista, arrivando a dipingere il lavoro come la principale forma di espressione dell’individuo. Il lavoro è stato insomma trasformato in parte della nostra identità e presentato come l’unico vero mezzo per la realizzazione individuale: tutti sanno, per esempio, che in un colloquio la risposta peggiore alla domanda «perché vuoi questo impiego?» è «per i soldi», anche se questa è chiaramente la verità repressa. Il lavoro nel campo dei servizi esaspera ulteriormente il fenomeno: in assenza di chiari criteri di produttività, i lavoratori sono costretti a recitare la parte dell’impiegato produttivo, facendo finta di godersi i propri incarichi anche quando hanno a che fare con clienti scortesi; lavorare tanto e a lungo è diventato un vero e proprio segno di devozione, e questo nonostante sia un altro modo in cui viene perpetrato il divario retributivo tra i sessi. In una situazione in cui il lavoro è interpretato come elemento indissolubile della propria identità, il superamento dell’etica del lavoro significa poco meno che superare noi stessi.

L’ingrediente ideologico al centro dell’etica del lavoro è che la remunerazione sia legata alla sofferenza. Ovunque rivolgiamo lo sguardo, nella nostra società è facile riscontrare come alle persone venga imposto di soffrire se vogliono raggiungere un traguardo. Gli epiteti rivolti ai mendicanti senzatetto, la demonizzazione di quelli che vivono di sussidi, il labirintico sistema burocratico che per tali sussidi è necessario, l’«esperienza lavorativa» non retribuita che viene richiesta ai disoccupati, la sadica persecuzione di tutti coloro che vengono considerati come parassiti che ricevono beni gratuitamente: esempi del genere sono la dimostrazione che, nella società in cui viviamo, soffrire è considerato come un rito di passaggio obbligato. Le persone devono faticare e lavorare duro prima di poter ricevere un salario, devono dimostrare il loro valore agli occhi del Capitale.

Questa forma di pensiero lascia intendere un ovvio residuo teologico, giacché la sofferenza è considerata non solo intrinsecamente significativa, ma come la vera e propria condizione base per una vita che valga la pena vivere: in parole povere, una vita senza sofferenza viene considerata come frivola e vacua. Questa concezione va rigettata e considerata il residuo di un’epoca storica trascesa da tempo. La spinta a dare un significato profondo alla sofferenza può magari avere avuto senso in quelle epoche passate in cui povertà, malattia e fame erano elementi ricorrenti dell’esistenza umana; ma oggi è doveroso rifiutarne la logica, e riconoscere che abbiamo superato la necessità di fondare il senso delle nostre esistenze sulla quantità di sofferenza provata: il lavoro e il dolore che lo accompagna non meritano celebrazione alcuna.

Quella di cui abbiamo bisogno è una risposta contro­egemonica, un progetto capace di sovvertire l’attuale concezione del lavoro come necessario e addirittura desiderabile, il ribaltamento della logica della sofferenza come condizione per qualsiasi tipo di retribuzione. I media, presentando il reddito base come possibile alternativa e soluzione necessaria alla disoccupazione causata dalle nuove tecnologie, stanno in parte modificando la percezione dominante: dobbiamo amplificare questi primi sintomi egemonici.

Il predominio dell’etica del lavoro è di intralcio anche per i processi di cambiamento della base materiale dell’economia. Il capitalismo pretende che le persone per sopravvivere lavorino, e allo stesso tempo si dimostra incapace di produrre abbastanza posti di lavoro: il contrasto tra i valori promossi dall’etica del lavoro e questi cambiamenti materiali produce un ulteriore potenziale per la trasformazione del sistema. 

La pressione che ci spinge ad accettare l’etica del lavoro è controbilanciata dal disprezzo che proviamo per i nostri impieghi: oggi, in tutto il mondo, solo il tredici percento delle persone sostiene di ritenere il proprio lavoro interessante. Spossati e svuotati dal punto di vista fisico, mentale e sociale, i lavoratori vivono le loro occupazioni come fonte di continuo stress. Per la stragrande maggioranza delle persone il lavoro non ha alcun significato, non offre alcun tipo di gratificazione né di redenzione: è solo un male necessario che serve a pagare le bollette a fine mese. Chi è già escluso dal lavoro, più che battersi per essere incluso in una società di obblighi e di fatica, dovrebbe piuttosto creare le condizioni per riprodurre la propria vita al di fuori del lavoro. Modificare il consenso culturale che circonda l’etica del lavoro significa agire a livello del quotidiano, traducendo questi obiettivi a medio termine in slogan, meme, inni, canti… Richiede la difficile ma essenziale organizzazione degli spazi lavorativi e una campagna politica capace di infiammare gli animi delle persone. Il successo di questi sforzi emergerà chiaramente quando le discussioni dei media sull’automazione cambieranno di tono: dall’allarmismo per il declino dell’occupazione, alla celebrazione della libertà dalla schiavitù del lavoro.

 

IL REGNO DELLA LIBERTA’

La sinistra del XXI secolo deve puntare a combattere la centralità del lavoro nella vita contemporanea: fondamentalmente, la scelta è tra la celebrazione del lavoro e della classe operaia, e l’abolizione di entrambi. La prima posizione trova la sua principale espressione nella tendenza, tipicamente folk politics, a dare valore al lavoro manuale e artigianale. La seconda è la sola e autentica alternativa postcapitalista: il lavoro deve essere rifiutato e ridotto per permettere lo sviluppo della nostra libertà sintetica. Come abbiamo illustrato nel corso di questo capitolo, è quindi necessario conseguire quattro obiettivi essenziali:

  • Piena automazione
  • Riduzione della settimana lavorativa
  • Reddito base universale
  • Rifiuto dell’etica del lavoro

Anche se ciascuna di queste proposte può valere da sola come obiettivo, è quando vengono articolate assieme e all’interno di un programma unitario che esprimono tutta la loro potenza. Non si tratta di immaginare riforme semplici o periferiche, ma una formazione egemonica completamente nuova, che abbia l’ambizione di competere con le alternative neoliberali e socialdemocratiche.

Rivendicare la piena automazione amplifica la possibilità di ridurre la settimana lavorativa e incrementa la necessità di un reddito base che riguardano il lavoro, i poveri e i disoccupati; invece che interpretare la disoccupazione come conseguenza di una scarsa etica lavorativa, il reddito base invita a considerarla un problema strutturale: 

Lasciarsi alle spalle l’etica del lavoro sarà dunque un obiettivo ineludibile per qualsiasi futuro tentativo di costruire un mondo post-lavoro.

 

Capitolo 7

Una società post-lavoro può potenzialmente esercitare un’attrattiva enorme, anche perché porterebbe a un miglioramento delle condizioni materiali di vita della maggior parte delle persone. Questo però non basta a garantirne la realizzabilità: sui media di oggi, le discussioni su argomenti come l’automazione e il reddito base sembrano dare per scontata l’innata magnanimità delle élite, la neutralità politica della tecnologia e l’inevitabilità di una società in cui di lavoro non ce ne sarà più; ma esistono anche forze enormemente influenti che hanno tutto l’interesse di preservare lo status quo. Nei decenni che ci precedono la sinistra ha conosciuto una sconfitta dopo l’altra, mentre la miseria rimane ancora più diffusa del lusso: nella situazione attuale l’automazione finirebbe soltanto col produrre più disoccupazione, e i potenziali benefici portati dalle nuove tecnologie verrebbero sperimentati unicamente dai loro pochi, ricchi padroni. Allo stesso modo, il poco tempo libero di cui disponiamo verrebbe cancellato da nuovi e tediosi posti di lavoro o dall’estensione del precariato. E se un domani un reddito base venisse garantito, con molta probabilità verrebbe stanziato al di sotto della soglia di povertà, e servirebbe semplicemente ad arricchire imprese e compagnie.

Di conseguenza, la creazione di una vera società post-­lavoro non può che partire dal cambiamento della condizione politica presente. A sua volta questo significa che la sinistra dovrà affrontare a viso aperto la deprimente situazione in cui versa: sindacati in rovina, partiti politici ridotti a marionette governate dagli interessi neoliberali e un’egemonia culturale e intellettuale in drammatico declino. La repressione subita dalla sinistra per mano di governi e corporation è andata crescendo da diversi decenni a questa parte, leggi e provvedimenti vari hanno reso l’organizzazione politica più difficoltosa, la precarietà ci ha reso tutti più insicuri, e la militarizzazione delle forze di polizia sta procedendo a passo sempre più spedito; a questo va aggiunto che le nostre vite private, il nostro mondo sociale e l’ambiente stesso in cui viviamo sono tutti organizzati attorno al lavoro e al suo mantenimento. La transizione verso una società post-lavoro, come pure la transizione verso un’economia decarbonizzata, non è solo questione di superare l’opposizione di qualche potente gruppo di interesse: si tratta piuttosto di mettere in atto una totale trasformazione della società. Lo scontro con l’apparato di potere del Capitale è insomma inevitabile, e non dobbiamo farci illusioni riguardo alle difficoltà che un simile progetto si troverà a incontrare. E se un cambiamento radicale non sarà immediatamente possibile, i nostri sforzi dovranno concentrarsi sull’espansione di quegli spazi di possibilità che esistono già, promuovendo col passare del tempo migliori condizioni politiche: dobbiamo cioè raggiungere uno spazio da dove potranno essere formulate rivendicazioni più radicali e – se vogliamo alterare significativamente il terreno politico – prepararci allo sviluppo di un processo a lungo termine.

 

Conclusione

… Il più recente ciclo di lotte si è ormai esaurito …, e ovunque si rivolga lo sguardo il risentimento delle masse si mescola alla loro impotenza. Abbiamo sostenuto che la strada più promettente da seguire è quella di recuperare gli ideali della modernità e di attaccare il senso comune neoliberale che condiziona ogni aspetto delle nostre vite, dalle più esoteriche discussioni politiche ai nostri più vividi stati emotivi. È un progetto controegemonico che può essere messo in pratica soltanto lasciandosi alle spalle le battaglie difensiviste e immaginando mondi migliori, e in questo libro abbiamo delineato un possibile progetto che prende la forma di una politica post-lavoro in grado di renderci liberi di sviluppare le nostre vite e le nostre comunità nel modo che preferiamo. Affinché una simile battaglia possa avere successo, serve una sinistra populista che costruisca l’ecologia organizzativa necessaria per un approccio politico ad ampio raggio, capace di agire su molteplici fronti e di fare pressione, quando possibile, sui punti strategici della nostra economia.

Ma la fine del lavoro non sarà la fine della storia. Costruire una piattaforma per una società post-lavoro sarebbe un risultato immenso, ma sarebbe comunque solo l’inizio. È per questo che resta cruciale concepire la politica di sinistra come una politica per la modernità: serve a ricordarci di non confondere l’avvento di una società post-lavoro – o di qualsiasi altra società – con la fine di tutto. L’universalismo vive un continuo processo di autodisfacimento, conservando in sé le risorse necessarie per una critica immanente capace di approfondire ed espandere i suoi ideali: nessuna specifica formazione sociale è sufficiente a soddisfare le sue richieste, concettuali o politiche che siano. Allo stesso modo, la libertà sintetica ci impone di non accontentarci dell’attuale orizzonte delle possibilità. Accontentarsi di una società post-lavoro rischierebbe di lasciare intatte le divisioni razziali, sessuali, coloniali ed ecologiche che continuano a strutturare il nostro mondo, e anche laddove queste asimmetrie di potere venissero messe in crisi da un mondo post-lavoro, gli sforzi per eliminarle dovranno senza dubbio continuare. Inoltre, dovremo anche individuare un sostituto sistematico ai mercati e confrontarci con la creazione di nuove istituzioni politiche. Non sappiamo ancora cosa può un corpo sociotecnico, e dobbiamo ancora svincolare appieno lo sviluppo tecnologico per dischiudere nuove forme di libertà. Trascendere la nostra dipendenza dal lavoro salariato è importante, ma dovremo comunque affrontare l’enorme compito di disfarci di altri limiti di tipo politico, economico, sociale, fisico, biologico. Il progetto mirato allo sviluppo di un mondo post-lavoro è certamente necessario, ma non sufficiente. 

Una piattaforma post-lavoro pone comunque l’obiettivo di un nuovo equilibrio che completi la transizione che dalla socialdemocrazia postbellica ha portato al neoliberismo, e da lì conquistare una nuova egemonia post-lavoro. Crediamo che tale piattaforma possa aiutarci a mettere a fuoco i compiti da affrontare nel presente, e al tempo stesso fornisca un punto di appoggio stabile da cui procedere per puntare a nuovi obiettivi di emancipazione. Come con qualsiasi piattaforma, coloro che sono responsabili della sua progettazione non possono prevedere come verrà utilizzata in futuro: benché opportunità e limiti siano fattori impliciti della sua struttura, non esauriscono tutte le possibilità che da essa derivano. Una piattaforma lascia il futuro aperto, piuttosto che chiuderlo: se progettata correttamente, ha successo proprio nel momento in cui offre alle persone le condizioni per portare avanti iniziative nuove. Con una piattaforma post-lavoro le persone potrebbero ricominciare a partecipare ai processi politici, come potrebbero finire con il ritirarsi in mondi individuali, magari ritagliati all’interno dalle forme di intrattenimento offerte dai media. Ma ci sono motivi per nutrire speranza, considerando che la transizione verso una simile società richiederà anche un sovvertimento dell’etica del lavoro. Questo progetto implica insomma una trasformazione delle soggettività, nel senso che offre le risorse necessarie per una trasformazione completa che porti dall’egoismo individuale proprio del sistema capitalista a forme di espressione comuni e creative rese possibili proprio dalla fine del lavoro. L’umanità è stata per troppo tempo schiava degli impulsi dettati dal capitalismo, e un mondo post-lavoro promette un futuro in cui questi vincoli verranno quantomeno allentati. Ciò non significa che questa nuova società sarà un mondo dei sogni, ma che il lavoro non sarà più imposto da fuori, si tratti di un datore di lavoro o dal semplice bisogno di sopravvivere: verremo spronati al lavoro dai nostri desideri, non da una forza a noi estranea. Contro l’austerità imposta dalle forze conservatrici e contro la frugale esistenza cara agli antimodernisti, la rivendicazione di un mondo post-lavoro aspira alla proliferazione dei desideri, all’abbondanza, alla libertà.

Si tratta sicuramente di un futuro rischioso, come rischioso è qualsiasi progetto per la costruzione di un mondo migliore. Non ci sono garanzie che le cose andranno come previsto: un mondo post-lavoro potrebbe generare dinamiche immanenti che condurranno alla dissoluzione del capitalismo, oppure le forze reazionarie potrebbero cooptare nuovi desideri all’interno di un rinnovato sistema di controllo. Simili preoccupazioni hanno portato diverse frange della sinistra contemporanea a ipotizzare sì il nuovo, ma un nuovo senza rischi: abbondano gli inviti generici a sperimentare, a creare, a prefigurare, ma le proposte concrete vengono spesso accolte da un’ondata di critiche che descrivono nel dettaglio tutti i modi possibili in cui tali proposte finirebbero col produrre risultati negativi. Alla luce di queste due opposte tendenze – essere da una parte favorevoli alla novità, e temere il rischio implicito in una trasformazione sociale – diventa chiaro il fascino esercitato da quelle idee politiche che celebrano «l’evento spontaneo»: si tratta fondamentalmente di un’espressione del desiderio di novità senza responsabilità. L’evento messianico promette di distruggere il nostro mondo stagnante e di far emergere un nuovo stadio storico, convenientemente scevro dal difficile lavoro che la politica è. L’arduo compito che ci attende è quello di costruire un mondo nuovo, pur con la consapevolezza che questo potrebbe anche generare nuovi problemi. In fondo, nelle migliori utopie ci sono sempre disarmonie sotterranee.

Questo imperativo va contro ai principi precauzionali pensati per eliminare la contingenza e il rischio, elementi che fanno parte di qualsiasi processo decisionale. Secondo un’interpretazione particolarmente severa, il principio precauzionale serve a convertire l’incertezza epistemica per preservare lo status quo, invitando coloro che vorrebbero costruire un futuro migliore a desistere dal loro intento, magari con la raccomandazione di portare avanti «più ricerca». Possiamo anche notare come il principio precauzionale contenga al suo interno una lacuna che gli è quasi costitutiva: ignora il rischio prodotto dalla propria applicazione. Messa in altri termini, il tentativo di rimanere estremamente cauti – e dunque di eliminare i rischi – denuncia una miopia riguardo ai pericoli prodotti dall’inattività e dall’omissione. Mentre i rischi devono essere certamente calcolati con prudenza, una più profonda consapevolezza delle complicazioni introdotte dalla contingenza rende chiaro come scegliere la strada più cauta spesso non sia la scelta migliore. Il principio precauzionale è pensato per minimizzare la contingenza e precludere la possibilità del futuro, quando in effetti sono proprio le contingenze inerenti ai progetti ad alto rischio che conducono a un futuro più promettente. 

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Costruire il futuro significa insomma accettare il rischio che si possano verificare conseguenze inaspettate e che le soluzioni adottate si rivelino imperfette: forse resteremo in trappola, ma quantomeno potremo scappare verso trappole sempre migliori.

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NOTA: il libro disponibile anche in formato digitale da Feltrinelli si chiude con circa 90 pagine di note e riferimenti bibliografici.