Era il 2015 quando mi capitò di incontrare il titolone nelle news: Niente più musi lunghi in ufficio. Arriva il manager della felicità. Perché la felicità rende maggiormente produttivi…

Dire che ero scettica è un eufemismo e decisamente minimizza il mio primo pensiero. Avevo vissuto abbastanza a lungo in azienda per immaginare l’essere felice in una lista di competenze che, come spesso accade in azienda, definiscono criteri meritocratici che in fondo sono solo il quanto stai simpatico al capo declinato in varie forme e sentimenti. Avevo anche avuto un general manager che, forse avendo letto qualche iniziale articolo sull’argomento, girava per gli uffici chiedendo “sei felice?”.

 

 

E poi sono cresciuta, come tanti, con la ferrea convinzione che la felicità sia un’emozione effimera, mentre nella vita bisogna perseguire la serenità, ben più solida e duratura.

Però sono curiosa e ho cominciato ad informarmi.

Poi, come dice Ligabue, Niente paura, ci pensa la vita. Ed è intervenuta a farmi cambiare le convinzioni.

È arrivata la malattia, ed è diventato impossibile perseguire la serenità. Difficile, infatti, essere sereni quando si affrontano diagnosi di tumore, quando passi da un’operazione alla chemioterapia e poi controlli, visite ed esami, tanti, frequenti, e per ognuno temi il peggio. E poi le difficoltà economiche di una partita IVA che guadagna in funzione di quanto lavora, e se non può lavorare non guadagna.

Se la serenità mi era preclusa avevo un paio di scelte: ansia e depressione o forse qualcosa di diverso. Così, come molti, ho scoperto sulla mia pelle che si può essere preoccupati e felici, che la felicità può essere qualcosa di interiore e costante indipendente persino dal tempo che ti prendi per piangere, perché a volte capita.

E poi è arrivato l’incontro, casuale come sanno essere solo le coincidenze della vita, con Daniela e Veruska di 2Bhappy: due splendide donne che stanno portando la scienza della felicità in Italia.

La felicità è una competenza, si può sviluppare. Ci sono seri e rigorosi studi di neurofisiologia, sociologia, economia, psicologia… Certo, da solida laureata in discipline scientifiche sono diffidente verso la psicologia e la sociologia, ma mi convincono la neurofisiologia e l’economia. Per altri sarà, inevitabilmente, diverso.

E in azienda? Lo sappiamo bene, raramente la realtà fa notizia: servono i titoli eclatanti. Ma la scienza della felicità è una roba seria, anche e soprattutto in azienda, e se è vero che il dipendente felice è più produttivo è anche vero che non gli si chiede di stamparsi in faccia un sorriso felice, ma si chiede al management, nell’ambito di una visione di servant leadership, di costruire un ambiente dove si possa essere felici, ci si possa sentire utili, partecipi, importanti, si possa beneficiare di qualcosa che va oltre lo stipendio o la gratifica e si possa affermare orgogliosamente di lavorare in una specifica azienda, come ancor oggi fa, a distanza di anni, chi lavorò in Olivetti.

Nella scienza della felicità c’è molto che risuona per chi ha una certa visione della vita personale e professionale, e c’è anche molto di nuovo in termini di ricerca e conoscenze. Un bel mix. E, secondo me, un bel mix che risponde al bisogno che molti hanno, in questa nostra società complessa e confusa, di costruire un NOI potente e forte che permetta di passare dall’ego-sistema all’eco-sistema.