Un’intervista al Professor Giorgio Vallortigara condotta da Roberto Maffei

 

 

 

PremessaQuesta intervista continua la serie concepita avendo in mente la “gente comune”. I temi sono vari, possono essere legati alle tecnologie informatiche e potranno apparire troppo specialistici; allora perché orientare questo lavoro alle “ordinary people”? Perché, per esempio per quanto riguarda le tecnologie, da una parte esse sono le utilizzatrici e, insieme, il bersaglio delle strategie che guidano la rivoluzione informatica; dall’altra parte, oggi le circostanze le stanno chiamando sulla scena della Storia, stanno trasformando i cittadini comuni in protagonisti.

Alla gente comune solitamente non piace il ruolo di protagonista e tende a preferire quello di spettatore; l’economista francese Jean Paul Fitoussi ha sottolineato questo aspetto e ha lanciato richiami al fatto che, non per scelta soggettiva ma per effetto delle circostanze storiche, su molte grandi questioni siamo tutti ATTORI. Questa serie di interviste è, appunto, rivolta a tale riluttante protagonista e intende fornirgli elementi culturali per metterlo in condizione (se vuole) di interpretare meglio il ruolo che, benché non intenzionalmente scelto, ha ormai assunto nella Storia.

 

L’intervistatoGiorgio Vallortigara è professore di Neuroscienze presso il Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, di cui è stato a lungo anche direttore.

Per vari anni Adjunct Professor presso la School of of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’ Università del New England, in Australia.

È autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali (con oltre 20.000 citazioni, h-index Google Scholar: 79) e di alcuni libri a carattere divulgativo: “Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze”, Bollati-Boringhieri, Torino, 2005 (vincitore del Premio Pace per la divulgazione scientifica nel 2006), “Nati per credere” (con V. Girotto e T. Pievani) Codice, Torino, 2008, “La mente che scodinzola” Mondadori, Milano, 2011 (selezionato dalla Giuria Scientifica del Premio Galileo 2013), “Cervelli che contano” (con N. Panciera) Adelphi, 2014, “Piccoli equivoci tra noi animali” (con L. Vozza) Zanichelli, 2015 e “Da Euclide ai Neuroni”, Castelvecchi, 2017.

Ha inoltre pubblicato nel 2013 la monografia “Divided Brains” con L.J. Rogers and R.J. Andrew per Cambridge University Press, tradotta per Mondadori Education (con il titolo “Cevelli divisi”, 2017).

Nel 2011 ha ottenuto uno dei prestigiosi ERC Advanced Research Grant della Comunità Europea e nel 2019 un secondo ERC Advanced Research Grant.

Nel 2016 ha ottenuto il Premio internazionale Geoffroy Saint Hilaire per l’etologia, e una laurea honoris causa dall’Università della Ruhr, in Germania. È socio dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti e Fellow della Royal Society of Biology.

Oltre alla ricerca scientifica svolge un’intensa attività di divulgazione, collaborando con le pagine culturali di varie testate giornalistiche e riviste, quali il Sole 24 Ore e Le Scienze.

 

Domanda 1 – Nella sua conferenza di Firenze[1] lei, in risposta a una mia domanda, disse che, nell’ambito della ricerca, l’intelligenza è considerata come la capacità di risolvere problemi. Conferma questa definizione?

Questa è la definizione accettata perlomeno da chi utilizza un approccio comparativo. Io non sono uno specialista dello studio dell’intelligenza dal punto di vista psicologico (quella condotta, per esempio, da chi si occupa di test e dello sviluppo di procedure psicometriche), ambito nel quale potrebbero valere definizioni differenti. La definizione basata sul problem solving penso che sarebbe accettata da chiunque affronti la questione in termini di biologia del comportamento e, quindi, pensi all’intelligenza non tanto come a una singola capacità ma come a un insieme di capacità delle quali sono dotate le creature biologiche per far fronte ai problemi che incontrano nella loro nicchia ecologica. Poi uno può chiedersi in cosa consiste, esattamente, fronteggiare un problema…

 

Domanda 2 – Questo è proprio ciò che volevo chiederle subito dopo: cos’è un problema?

L’aspetto minimale è avere un obiettivo da raggiungere e trovarsi di fronte a un qualche genere di ostacolo (di qualsiasi tipo, non necessariamente un ostacolo fisico, materiale) rispetto al raggiungimento di questo obiettivo.

Dunque, il problema coincide con l’ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo? Sì, tenendo presente che l’aspetto cruciale per un organismo vivente è il fatto di avere un obiettivo, il fatto di avere scopi.

 

Domanda 3 – In che modo, in termini generali, un problema viene risolto? Intendo dire: come “funziona” il processo che porta alla soluzione di un problema? Il problem solving coincide con il pensiero razionale?

Nella gran parte dei casi, secondo me, la risoluzione di un problema corrisponde alla capacità di allontanarsi momentaneamente dall’obiettivo al fine di poterlo raggiungere. Infatti, uno dei compiti più studiati in etologia è sempre stato quello del detour, dell’aggiramento: per esempio si prende l’animale e lo si mette davanti a una barriera al di là della quale c’è qualcosa che l’animale vuole raggiungere. La difficoltà consiste nel fatto che c’è una pulsione immediata a “spingere”, a percorrere la via diretta per raggiungere l’obiettivo; l’intelligenza consiste, appunto, nell’avere la capacità di fermarsi, di avere un po’ di controllo inibitorio e mettersi a cercare una via diversa. Lo schema generale è questo: c’è un obiettivo da raggiungere, c’è un qualche tipo di ostacolo e tu devi trovare un modo per aggirare l’ostacolo. Ho idea che anche i colleghi che studiano l’intelligenza artificiale si trovino di fronte a questo tipo di problemi.

Questo vale anche se, alla fine, l’Intelligenza Artificiale cerca le soluzioni solo tramite algoritmi (cosa che a me lascia degli interrogativi)? Anche le creature biologiche, alla fin fine, devono risolvere i loro problemi con un algoritmo di un qualche tipo. L’algoritmo è un modo generale di descrivere una procedura.

In effetti, alla fine ci sono sempre treni di spike di neuroni[2]; il punto, secondo me, è che nel mezzo (tra il livello profondo dei neuroni e il comportamento che risolve il problema) ci sono processi di elevata complessità che si spiegano male con il paradigma meccanicista (l’algoritmo è una procedura meccanica)[3]. Però, come dicevo, anche le creature biologiche, alla fine, devono far ricorso a un algoritmo di un qualche tipo per risolvere i loro problemi. E la questione della complessità, che è molto interessante, andrebbe approfondita: la complessità, anziché interna agli organismi, potrebbe essere, per così dire, nel mondo. Può essere che il problema, nell’atto di intelligenza volto a superare l’ostacolo, non sia relativo tanto a cosa c’è “dentro” ma piuttosto a cosa c’è” fuori”, cioè alla natura dei problemi che la creatura biologica deve affrontare per assolvere il proprio compito. Da questo punto di vista, la complessità potrebbe stare nell’ambiente, nella nicchia ecologica con la quale interagiamo continuamente a livello senso-motorio. Se il mondo “fuori” fosse semplice, per esempio stimoli singoli ai quali si risponde in modo continuo, come nel caso del fototropismo (mi avvicino / mi allontano dalla luce[4]), le creature biologiche avrebbero un compito facile. Il punto è che, invece, devono codificare e rispondere a una luce che, magari, non arriva direttamente ma è il risultato di processi di riflessione in un ambiente complesso come questa stanza, e devono usare l’insieme delle informazioni che arrivano ai recettori periferici veicolate da quella particolare struttura della luce, modellata da quell’ambiente. Lì devono fare dei calcoli, o qualcosa di analogo ai calcoli.

 

Domanda 4 – Ma l’essere vivente del quale parliamo, lo sa di avere un obiettivo?

Questa è una faccenda ancora più complicata perché ha a che fare con la consapevolezza, con la coscienza, cioè con un problema rispetto al quale, io credo, non abbiamo ancora le idee chiare; personalmente preferisco chiamarlo il problema dell’esperienza. Comunque lo si chiami, la mia risposta è che non è necessario che l’organismo lo sappia: una creatura può risolvere un problema, “aggirare l’ostacolo”, senza alcun bisogno di avere anche un’esperienza cosciente dell’obiettivo e dell’ostacolo. La sfida, semmai, è capire, appunto, che bisogno ci sia di introdurre anche questo aspetto esperienziale, per quale ragione le cose non possano essere semplicemente condotte senza di esso. D’altra parte anche la maggior parte del comportamento di noi esseri umani ha queste caratteristiche; Gazzaniga[5], in una pubblicazione, ha detto che la mente è sempre l’ultima a sapere, intendendo che la parte cosciente è la punta dell’iceberg della nostra attività mentale, la quale, invece, è in larga parte inconsapevole.

Ma allora, tenendo presente la struttura del Sistema Nervoso Centrale, le osservazioni sperimentali andrebbero effettuate soprattutto sui centri profondi, sedi dell’istinto e delle funzioni vitali inconsce; invece, dalle mie letture, ricavo l’impressione che le rilevazioni si facciano soprattutto sulla corteccia cerebrale, sede delle elaborazioni e delle risposte consapevoli[6]. Le mappe che si trovano in letteratura sono soprattutto mappe corticali; è una questione di comodità, per evitare interventi troppo intrusivi? Per la verità no. Lasciando da parte il caso della ricerca sugli esseri umani, per i quali certe sperimentazioni non sono consentite, non ci sono problemi tecnici ma solo scelte dei ricercatori in funzione degli scopi della ricerca. Nei nostri laboratori, per il lavoro che facciamo noi, l’impianto degli elettrodi in profondità è spesso più semplice perché l’impianto rimane più stabile, mentre impiantare in superficie ci mette a rischio di distacco. Per esempio, negli uccelli l’ippocampo, che è una struttura che studiamo abitualmente, è situato in superficie e abbiamo problemi a tenere stabili gli elettrodi. Per quanto riguarda le “mappe del cervello” la prevalenza di quelle corticali dipende, secondo me, essenzialmente da due fattori: il primo è una specie di pregiudizio antropocentrico[7], il secondo è che certe parti anatomiche sono più note e più facili da descrivere. Di fatto i ricercatori oggi concordano sull’idea che la macchina cerebrale funzioni tutta insieme, che non sarebbe appropriato registrare dalla corteccia ignorando tutto quello che c’è sotto.

Mi ha colpito la sua citazione di Gazzaniga sul fatto che il pensiero razionale viene “dopo” le risposte emotive. Anche ciò che abbiamo trovato noi[8] corrisponde a questa idea; dunque il semplificato modello cognitivista della sequenza lineare percezione-elaborazione-reazione è un’eccessiva semplificazione, in realtà le cose sono molto più complesse? Questo ce lo conferma anche l’anatomia del Sistema Nervoso Centrale: ci sono aree del cervello raggiunte da fibre nervose afferenti[9] che inviano all’indietro, ai centri della percezione dai quali hanno ricevuto, una quantità di fibre nervose superiore a quelle afferenti stesse.

Dunque, per fare un esempio, il tradizionale modello dell’occhio come camera oscura passiva è obsoleto? Dunque, anche la percezione è, in realtà, un processo attivo? In effetti è così.

 

 

 

Domanda 5 – Questa domanda non era prevista nella traccia iniziale ma mi pare sia impossibile evitarla: parliamo della complessità, che molti (anche nell’ambito della ricerca) identificano con la complicazione. Un oggetto “complesso” è semplicemente un oggetto molto complicato? Un microchip è complicato o complesso?

Un modo di guardare alla questione è basato sulle quantità: una cosa è complicata in quanto è fatta di unità componenti, e quanto maggiore è il numero di queste unità tanto più è complessa la cosa stessa. Per questo ci si è preoccupati per molto tempo, e secondo me in modo ingiustificato ed esagerato, delle dimensioni fisiche del cervello, associando le facoltà intellettive alla sua grandezza. Di fatto si è cercato di combinare la nostra idea di scala naturale[10] con tale grandezza, introducendo una serie di correttori per compensare rispetto alle dimensioni del corpo (altrimenti le balene dovrebbero essere le creature più intelligenti) o alla sua superficie, alla ricerca di “quozienti di encefalizzazione” che potessero  convalidare questa concezione. Oggi ritengo si sia diffusa la consapevolezza che le dimensioni non siano un buon indicatore dell’attività intellettuale.

Ciò appare evidente soprattutto se si tiene conto che ci sono componenti del Sistema Nervoso Centrale che hanno un gran numero di elementi e una struttura molto ripetitiva, che sono coinvolti in processi di feedback e di regolazione molto sofisticati ma che non sono la sede di processi mentali superiori (per esempio il cervelletto). Una persona che si trovi, a causa di lesioni alla testa, privata del cervelletto ha certamente delle difficoltà (per esempio cammina male) ma non perde la gran parte delle sue facoltà cognitive come accadrebbe se, per esempio, avesse una lesione ai lobi frontali. Qui coglie nel giusto Tononi[11] con la sua idea che non conta solo il numero delle unità ma anche quanto sono connesse, quanto interagiscono fra di loro.

Devo aggiungere che, secondo me, la questione della complessità è stata un po’ esagerata. Quello che è emerso di sbalorditivo, negli ultimi anni, dalla ricerca nelle neuroscienze è il fatto che i meccanismi fondamentali dei processi di pensiero li possiamo rintracciare anche in organismi molto semplici dal punto di vista delle strutture neurali e del numero di neuroni. Una specie ben studiata è l’ape, che ha meno di un milione di neuroni (960.000, per la precisione) e che è capace, per esempio, di riconoscere le facce. Il riconoscimento delle facce è considerato di per sé una cosa complicata, nella specie umana, con diverse strutture del cervello coinvolte, e pare strano che ci possa riuscire un organismo così relativamente semplice. Tuttavia, anche se si usano le reti neurali artificiali, alla fine si trova che, per raggiungere un buon livello di affidabilità nel riconoscimento delle facce, non servono circuiti di straordinaria complicazione. Reti di qualche centinaio di neuroni virtuali possono raggiungere un tasso di successo dell’80% circa nel riconoscimento delle facce.

Mi pare che la lezione da trarre da questo tipo di ricerche sia che, forse, dovremmo prendere in considerazione una possibilità un po’ estrema ma che io, per esempio, sto iniziando a sostenere: per realizzare i processi di base dell’attività cognitiva non è necessaria una straordinaria complessità, non è necessario un numero elevatissimo di neuroni. Piuttosto, il numero elevato di neuroni che osserviamo in alcune specie animali potrebbe essere al servizio non del pensiero ma della memorizzazione (in termini informatici: non sarebbero CPU ma memoria di massa). Per esempio, se torniamo sul riconoscimento delle facce e ci chiediamo che cosa effettivamente differenzia un’ape da un essere umano o da una scimmia antropomorfa, possiamo facilmente ipotizzare che i meccanismi del riconoscimento siano gli stessi (la discriminazione si può fare con un centinaio di neuroni) mentre è enormemente diversa la necessità di memorizzare facce. Infatti, le api non usano il riconoscimento individuale visivo nell’alveare mentre la vita sociale di scimmie antropomorfe e esseri umani è fortemente legata al riconoscimento dei conspecifici, in particolare quelli dello stesso gruppo, per cui devono memorizzare un gran numero di facce. Questo non implica un’intelligenza maggiore, questo è “hard disk”.

La questione della complessità entra in gioco anche nell’altra grande questione che abbiamo toccato, cioè quella della coscienza. L’idea che la coscienza possa “emergere”, come una specie di miracolo, quando si incrementa la complessità del sistema (cioè quando il numero dei neuroni supera una certa quantità)[12], a me pare incredibile. Inoltre, cozza con i dati di fatto. Per esempio, l’attribuzione di esperienza (coscienza) che noi facciamo nei confronti dei nostri simili prescinde dalla complessità delle computazioni; tanto è vero che non abbiamo difficoltà a riconoscere che persone in uno stato di grave handicap mentale, incapaci di svolgere i compiti che svolgono i miei topolini e i miei polli in laboratorio, nondimeno “sentano”, cioè abbiano esperienza / coscienza. L’intelligenza e la coscienza non hanno bisogno di una grande complessità.

 

Domanda 6 – Devo dire che, introducendo nel discorso la complessità, avevo in mente un’idea più generale di quella sviluppata da lei e che enfatizza la complessità strutturale del Sistema Nervoso Centrale. In particolare, una parte delle mie riflessioni attuali si concentra su ciò che distingue un sistema complesso da un sistema meccanico, ciò che differenzia il loro modo di reagire o di comportarsi. Posso prendere come riferimento la vecchia immagine sintetizzata con: se dai un calcio a un sasso puoi prevedere cosa accadrà (agisci su un sistema meccanico le cui reazioni sono calcolabili); se dai un calcio a un cane non puoi farlo (agisci su un sistema complesso le cui reazioni hanno margini, più o meno ampi ma mai nulli, di imprevedibilità). Qual è la sua idea in proposito?

Lei parla del comportamento e, in questi termini, la metafora è efficace. Tuttavia, se usiamo solo criteri comportamentali, rischiamo di ingannarci di grosso sulla soggiacente struttura materiale. Uno dei miei maestri è stato Valentino Braitenberg, altoatesino e cittadino onorario di questa città nella quale mi sta intervistando, Rovereto. Temo che, purtroppo, pochi si ricordino di lui; è un peccato perché è stato uno dei pochi studiosi italiani di rilievo internazionale; per esempio, venendo da studi di anatomia e fisiologia, aveva fatto parte del gruppo costituito a Napoli da Eduardo Caianiello sulla cibernetica, un gruppo che aveva attratto personaggi come Norbert Wiener e Warren McCulloch, i padri storici della cibernetica[13]. Poi ha diretto il Max Planck Institut di Tubinga ed è morto qualche anno fa.

Ha scritto, tra le altre cose, uno straordinario libriccino intitolato “I veicoli pensanti” (in originale semplicemente “Vehicles”, edito dalla MIT Press)[14]; in estrema sintesi il libro descrive una serie di piccole macchine, costruite a crescenti livelli di complessità, e mette in relazione il loro comportamento osservabile con la loro struttura interna. Parlare di “comportamento” in relazione a queste macchine ha senso perché, per quanto partano da strutture veramente elementari, sono dotate di sensori (che reagiscono alla luce, al calore o ad altro) e di effettori (tipicamente piccole ruote comandate in modo indipendente in funzione dei segnali ricevuti dai sensori) i quali, collegati tramite circuiti di crescente ma non eccezionale complessità, le fanno muovere in un modo che gli osservatori esterni descrivono facendo ricorso a facoltà psicologiche ed emozioni umane (l’amore, la gelosia, la rabbia e via dicendo). Valentino ha dimostrato come, a questa iper-attribuzione mentalistica, corrisponda, all’interno, un circuito di una sorprendente semplicità. In sintesi: il fatto di attribuire tanta “mente” al comportamento che si osserva in un organismo (compreso l’essere umano) non garantisce affatto che la complessità mentale che vi si legge corrisponda a una reale complessità cerebrale.

Mi ricordo di aver letto di un esperimento fatto con semplici figure geometriche (triangoli, rettangoli, cerchi); messi in movimento reciproco su uno schermo stimolavano negli osservatori descrizioni in termini di storie (del tipo “si vede che al triangolo piccolo piace il cerchietto perché va verso di lui e…”). Mi ricordo bene? Si, è il famoso esperimento di Heider e Simmel, del 1944[15]; di fatto evidenzia la tendenza umana ad attribuire stati mentali pressoché a qualsiasi cosa, non solo ai veicoli di Braitenberg.

 

Domanda 7 – Alcune linee di ricerca considerano le interazioni essere vivente / ambiente come operazioni di attribuzione di SIGNIFICATI; in questo senso anche un essere veramente molto semplice, neanche un’ape ma un essere unicellulare come il paramecio[16], avrebbe una sua intelligenza e si comporterebbe in base ai significati che attribuisce alle caratteristiche dell’ambiente in cui vive. Qual è il suo pensiero in proposito?

Non ho grande difficoltà ad attribuire la possibilità o l’eventualità di comportamento intelligente ad animali come il paramecio. Quando il paramecio incontra una zona di relativa tossicità, si trova di fronte a un problema e deve, per esempio, aggirare tale zona. Come fa lo sappiamo abbastanza bene: il paramecio si muove grazie a ciglia e, quando incontra una zona tossica, si verifica un afflusso di ioni Calcio che modifica temporaneamente le proprietà della membrana cellulare e tale modifica, a sua volta, fa cambiare direzione alle ciglia. Così il paramecio arretra; poi ci sono delle “pompe” che riportano in equilibrio gli ioni Calcio all’interno e all’esterno della membrana, le ciglia riprendono il loro movimento abituale e il paramecio, ora che si è girato, riprende ad andare avanti. Possiamo usare l’autoscontro come metafora: ti scontri, vai un po’ indietro, sterzi e riparti in avanti. Questo rientra in un paradigma di comportamento intelligente.

Rispetto al comportamento “intelligente” l’equivoco nasce, ancora una volta, dall’idea che il fatto che una entità (creatura o robot che sia) manifesti un comportamento intelligente implichi anche che quell’entità abbia una rappresentazione cosciente del proprio comportamento. In realtà non c’è ragione di immaginare questo, né per il paramecio né per gli esseri umani (almeno nella maggior parte delle circostanze); gli esseri umani risolvono continuamente problemi in modo inconsapevole (quando guidiamo l’automobile, per esempio, i nostri comportamenti, nella stragrande maggioranza dei casi, sono automatici e solo in certi momenti, ovviamente importanti, ritorniamo a un controllo cosciente di ciò che stiamo facendo). Personalmente non ho preclusioni rispetto al tipo di struttura materiale nella quale il comportamento intelligente possa venir realizzato. Semmai ci possono essere classi o tipi di problemi che determinati organismi non possono risolvere, ma ciò dipende solo dal modo in cui sono costruiti.

Mi viene da pensare che il riconoscimento di un comportamento intelligente possa dipendere anche da come definiamo l’intelligenza: se la definiamo come “capacità di risolvere problemi”, allora anche il paramecio ha comportamenti intelligenti. Tuttavia, non posso fare a meno di chiedermi, e di chiederle, come mai non esiste una civiltà (di qualunque tipo, non necessariamente una civiltà industriale) degli animali più vicini a noi? Come mai non esiste una civiltà dei gorilla o degli scimpanzé? Per amore di precisione, sottolineerei innanzitutto che non è esatto dire che tali civiltà “non esistono”; quantitativamente sono molto limitate ma esistono. Per esempio, è noto che ci sono comportamenti trasmessi socialmente all’interno di specifici gruppi di scimmie[17]. D’altra parte, va sottolineato che queste “culture” sono sempre e solo locali, rimangono chiuse all’interno del gruppo nel quale sono emerse, non si diffondono. Di fatto sono eventi molto piccoli e fortemente circoscritti mentre nella nostra specie queste attività socio-culturali sono letteralmente esplose, sono condivise socialmente a livello molto ampio e sono intenzionalmente trasmesse. Anche nei gruppi di scimmie che abbiamo ricordato c’è una trasmissione; però non c’è il linguaggio, quindi non ci sono le “protesi cognitive” realizzate dagli esseri umani (scuole, libri, biblioteche, manufatti…) e si apprende solo per osservazione diretta e imitazione nel gruppo ristretto.

 

Domanda 8 – Procedendo su questa linea: i computer, pensano?

Parliamo dei computer così come sono oggi, naturalmente. Indubbiamente sono capaci di risolvere alcuni tipi di problemi; per esempio l’Intelligenza Artificiale, in particolare il Deep Learning[18], si è mostrata in grado di farlo. Di nuovo, anche in questo caso, non ci sono motivi per presumere che ci sia alcuna coscienza associata alla capacità di risolvere problemi; né, di nuovo, ce n’è alcuna necessità. Ma è anche più interessante chiedersi se domani le macchine (altri tipi di macchine) penseranno; su questo la mia risposta è SÍ. L’alternativa è credere negli spiriti, cioè credere che gli organismi biologici posseggano qualche cosa di ineffabile. Invece gli organismi biologici sono macchine biologiche; perciò, se non sarà il silicio, saranno i neuroni artificiali o le tecniche di bio-genetica a consentirci di riprodurre i processi mentali. Ma anche noi, alla fine, siamo macchine.

Su questo vedo due difficoltà: una è la possibile incommensurabilità fra i processi digitali e quelli analogici; se un processo analogico non può essere completamente tradotto in algoritmi, forse la cosa non è possibile (fermo restando che possiamo comunque immaginare che domani potremmo produrre computer analogici). La seconda difficoltà è il tempo: l’essere umano richiede decenni per sviluppare pienamente le proprie potenzialità, ha bisogno di accumulare esperienza, perché è questa che contribuisce in modo decisivo a modellare le sue interazioni con il mondo. Però lei mi ha chiesto se riusciremo ad avere computer intelligenti; in questa prospettiva, dipende dagli obiettivi che ci poniamo. Se, per esempio, si tratta di riprodurre i comportamenti osservabili in un paramecio, questo è plausibile ottenerlo in tempi abbastanza rapidi; se, invece, parliamo di organismi (esseri umani, elefanti…) che acquisiscono le informazioni sul mondo in un arco di tempo molto lungo, allora abbiamo indubbiamente difficoltà. Tuttavia, mi preme sottolineare che non sono difficoltà di principio ma solo pratiche: se, in un organismo inventato (un organismo artificiale), potessimo comprimere quella lunga fase di apprendimento in tempi molto brevi, ce la potremmo fare. Mai dire mai. E comunque non possiamo esimerci dal provare; d’altra parte, accanto ai problemi che un paramecio non potrà mai risolvere, dovremmo sempre considerare quelli che noi esseri umani non potremo mai risolvere.

Però potremmo inventare macchine che ci aiutano a risolverli, come nel caso dei problemi di calcolo per i quali funzionano così bene i computer attuali. Sempre ammesso, naturalmente, che riusciamo a identificarli, i problemi, perché, a volte, ciò che manca non è un dispositivo che ci aiuti ma la precisa identificazione del problema. Di fatto siamo fortemente limitati dal nostro linguaggio e dalla nostra esperienza. Certo, ci sono problemi che non siamo nemmeno in grado di pensare e di formulare e, in effetti, questo potrebbe essere il vero ostacolo.

 

Domanda 9 – L’ultima domanda: penso che il nome di Stefano Mancuso, il Professor Mancuso dell’Università di Firenze[19], le dica qualcosa; qual è, dunque, il suo pensiero sull’intelligenza delle piante?

Stefano Mancuso è un mio caro amico, e anche sull’intelligenza delle piante non ho particolari difficoltà a riconoscere che questi organismi posseggano modi per mantenere le informazioni (quindi forme di memoria), che abbiano modi per comunicare tra di loro, che abbiano modi per risolvere l’equivalente dei problemi risolti dagli animali (problemi di detour, di aggiramento e via dicendo). Solo che, nel caso delle piante, e contrariamente al caso degli animali, ho molta difficoltà a immaginare che possano avere esperienze (coscienza). Per un’ape, come per un verme, riesco a immaginare una qualche forma di coscienza, anche se probabilmente incommensurabile nei contenuti rispetto alla nostra, in forza della quale, come dicono i filosofi, si “senta”, si “provi” qualcosa ad essere un’ape o un verme. Non sono convinto che si provi o che si senta qualcosa ad essere una pianta.

Il motivo di fondo è che, secondo me, il cervello è stato fatto essenzialmente per il movimento attivo, per l’azione; invece le piante, per quel che ne so, non hanno un vero movimento attivo, hanno solo l’equivalente di processi di crescita e i loro movimenti sono sempre relativi ad una stimolazione. Il punto è che, secondo me, la coscienza e l’esperienza cosciente nascono nel momento in cui gli organismi sono capaci di movimenti attivi e devono distinguere le sensazioni che provano come risultato dei loro movimenti dalle sensazioni che sono indipendenti da essi. Anche un verme lo deve fare: se lo si tocca, lui reagisce ritirandosi; però quando si muove dentro il suolo ha tutta la superficie corporea continuamente a contatto con qualcosa, allora perché non manifesta continuamente una reazione di difesa? La ragione è che un conto sono gli stimoli che riceve quando si muove lui mentre un conto del tutto diverso è quando sta fermo e all’improvviso gli arriva qualche stimolo, perché questo gli può giungere solo da fuori. Questa distinzione è cruciale per lo sviluppo delle sensazioni e dell’esperienza cosciente, e non sono convinto che questo circuito minimo sia presente nelle piante perché non si muovono attivamente.

Per quanto mi riguarda, ho difficoltà ad accogliere un altro concetto in qualche modo collegato a quanto lei diceva; mi spiego con un esempio. Se due piantine crescono vicine e le loro radici si toccano e si scambiano sostanze chimiche, ci sono ricercatori che sostengono che le due piantine “comunicano”; per me che lavoro sulla comunicazione interpersonale è difficile accettare una definizione così riduttiva di comunicazione. Bisogna distinguere il caso nel quale un organismo emette un segnale (una sostanza odorosa, un grido) e ottiene un certo effetto, dal caso nel quale fa la stessa cosa ma con l’intenzione di ottenere un effetto sul destinatario del segnale. Penso che stia qui la differenza tra il tipo di comunicazione al quale si riferiva lei e il tipo che si attribuisce alle piante. La comunicazione interumana, tra l’altro, si avvale di quello straordinario strumento che è il linguaggio. Mentre con il linguaggio umano l’intenzionalità è la regola, dimostrare che i segnali emessi dagli animali siano intenzionalmente comunicativi è difficile; anche tecnicamente è difficile inventare esperimenti che possano dimostrare questa intenzionalità.

 

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NOTE dell’INTERVISTATORE

Queste note non sono un commento all’intervista rilasciata dal Professor Giorgio Vallortigara ma una mia sintesi di quelli che mi sembrano i punti cruciali in essa toccati, i quali sono quattro.

Innanzitutto la distinzione fra i diversi campi di ricerca che si occupano dello stesso argomento (l’intelligenza, nel nostro caso) e la libertà di scelta dei ricercatori in relazione alla definizione dell’oggetto di studio e al tipo di approccio sperimentale da impiegare.

In secondo luogo, lo sganciamento dell’intelligenza dalla coscienza: sulla coscienza non abbiamo le idee molto chiare ma non abbiamo motivi di legare necessariamente il concetto di intelligenza a quello di coscienza. Comportamenti intelligenti possono esistere senza che sia presente alcuna coscienza o, addirittura, in assenza di un Sistema Nervoso Centrale, come nel caso del paramecio.

Poi la distinzione fra ciò che accade a livello di base (a livello dei neuroni) e ciò che accade a livello dei comportamenti. Al livello dei meccanismi di base, l’intelligenza non richiede strutture particolarmente complesse; per la ricerca scientifica a questo livello, l’introduzione delle osservazioni a livello dei comportamenti può risultare fuorviante. Al livello dei meccanismi di base ha senso parlare di processi di tipo algoritmico (cosa che sarebbe difficile al livello dei comportamenti) e di esseri biologici come macchine.

Infine, la questione che potremmo chiamare del rapporto fra materia e spirito: il pensiero è astratto ma non possiamo dubitare del fatto che sia il prodotto di strutture materiali identificabili, almeno in prima istanza, con i neuroni (senza materia non c’è spirito, senza corpo non c’è mente). Il rapporto fra questi due aspetti fondamentali della vita umana è ancora un problema irrisolto dalla ricerca scientifica; il lavoro del Professor Vallortigara è volto a investigare alcuni processi fondamentali del pensiero che si svolgono a livello dei neuroni.

 

[1]Il Professor Vallortigara ha tenuto, il 21 giugno 2019, una conferenza sul tema dell’intelligenza animale presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze.

[2]Gli “spike” sono brevi cicli di variazione del potenziale d’azione della membrana di alcuni tipi di cellule dette “cellule eccitabili” (neuroni, cellule muscolari e cellule endocrine). Sono dovuti all’improvvisa inversione della polarizzazione della membrana stessa e corrispondono all’invio o alla ricezione di un segnale elettrico; la trasmissione di questi segnali da un neurone all’altro è alla base dell’attività del Sistema Nervoso. Per approfondire: su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Potenziale_d%27azione e https://it.wikipedia.org/wiki/Neurone; in inglese, sull’Encyclopedia Britannica, https://www.britannica.com/science/action-potential e https://www.britannica.com/science/neuron .

[3]Il riferimento è al meccanicismo, una concezione filosofica che concepisce il mondo naturale esclusivamente come una serie di rapporti causa / effetto tra le componenti materiali dei sistemi allo studio; si oppone quindi, ad ogni interpretazione magica o religiosa dei fenomeni naturali. Nello studio scientifico della Natura coincide con il determinismo e costituisce, di fatto, il paradigma sul quale si è sviluppata tutta la scienza moderna da Galileo in poi; da circa un secolo è messa in discussione dalla scoperta della complessità (che secondo alcuni potrebbe costituire un nuovo paradigma nello studio della Natura) e dell’indeterminabilità di certi fenomeni. Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Meccanicismo ; http://www.treccani.it/enciclopedia/meccanicismo_(Dizionario-di-filosofia) .

[4]Il fototropismo (o fototattismo) è una reazione automatica di certi organismi (detti “fotosensibili”, appunto) nei confronti di stimoli luminosi e può essere positivo o negativo. Il fototropismo positivo implica che l’organismo reagisca allo stimolo luminoso avvicinandosi; quello negativo che reagisca allontanandosi.

[5]Michael Gazzaniga, nato nel 1939, è Professore di Psicologia all’Università di California a S. Barbara, dove dirige un centro per lo studio della mente. È uno dei leader mondiali per la ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive. Per approfondire: la sua scheda dell’Università http://www.psych.ucsb.edu/~gazzanig/ ; Wikipedia in italiano https://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Gazzaniga ; Wikipedia in inglese https://en.wikipedia.org/wiki/Michael_Gazzaniga .

[6]Il riferimento, qui, è innanzitutto al cervello umano il quale, confrontato con quello di altri animali (in particolare quelli evolutivamente più vicini, mammiferi e vertebrati in genere), presenta un eccezionale sviluppo della parte più anteriore del Sistema Nervoso Centrale, la cosiddetta “neo-corteccia”. Questa, per motivi di spazio, si ripiega su se stessa formando le tipiche circonvoluzioni corticali e copre tutte le parti sottostanti risultando, di fatto, la più esterna. Altri animali (soprattutto i Vertebrati) hanno una struttura del cervello del tutto comparabile, anche se la corteccia è progressivamente meno estesa passando dai Mammiferi agli Uccelli e ai Rettili. Per approfondire: in italiano https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello e in inglese https://en.wikipedia.org/wiki/Brain (con ampia bibliografia).

[7]Il Professor Vallortigara si riferisce al fatto che, siccome la corteccia cerebrale (la neocorteccia) manifesta il suo massimo sviluppo nella specie umana, in genere si ritiene che, a livello anatomico, ciò che ci rende umani sia la nostra corteccia cerebrale e si tende a privilegiare lo studio di essa.

[8]Il riferimento è alla ricerca pubblicata da “A.L.B.E.R.T.”, Gruppo interno di ricerca dell’Associazione ARPA-Firenze APS, nel 2015 (https://peerj.com/articles/1361/).

[9]Afferenti / Efferenti: fibre nervose in entrata e in uscita.

[10]La scala naturae è un’antica idea (che si può far risalire a Platone e Aristotele) che concepisce tutti gli “esseri” come gerarchicamente disposti lungo una scala (“The great chain of beings”); sviluppata nel Medioevo, vedeva al suo apice Dio e, sotto di lui in ordine, angeli, esseri umani, animali, piante e minerali (si veda https://it.wikipedia.org/wiki/Scala_naturae ma, ancora meglio, in inglese, https://en.wikipedia.org/wiki/Great_chain_of_being). Anche nell’ambito della scienza moderna è rimasta diffusa a lungo (e non è ancora del tutto scomparsa, nonostante molti studi recenti sull’evoluzione naturale l’abbiano decisamente smentita) l’idea che gli esseri umani fossero (mettendo da parte Dio e gli angeli) un vertice, il punto di arrivo di un percorso evolutivo iniziato dalle prime forme di vita e dagli animali inferiori. Per questo, in modo più o meno esplicito, a lungo ci si è sforzati di dimostrare che il cervello umano, rispetto agli altri, era quello “più” (più sviluppato, più funzionale, più potente e via dicendo).

[11]Giulio Tononi, psichiatra e neuroscienziato italiano che lavora negli Stati Uniti d’America. È uno specialista nello studio del sonno e ha fatto ricerche e pubblicato ipotesi sulla coscienza. Per approfondire: Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Tononi ; una pagina de “Il Sole 24 Ore” che indirizza a una serie di articoli di Tononi pubblicati tra il 2019 e il 2017 https://argomenti.ilsole24ore.com/giulio-tononi.html?page=1 ; il resoconto di una sua conferenza all’Università di Trento nel 2014 https://webmagazine.unitn.it/eventi/792/la-coscienza-spiegata-da-giulio-tononi ; intervista radiofonica a Radio 3 Scienza del 4/5/2018 https://www.raiplayradio.it/audio/2018/04/RADIO3-SCIENZA-In-tutta-coscienza-4cbd5bb4-41af-4b4a-bd5d-244d480b5a5d.html .

[12]Il Professor Vallortigara, qui, si riferisce alle cosiddette “teorie emergentiste”, note in particolare nell’ambito degli studi sulla mente e la coscienza ma presenti anche in altri campi. Si rifanno a un’idea generale di circa un secolo fa, nata dal tentativo di precisare scientificamente l’antica idea secondo la quale, in un sistema composito (fatto di molte parti diverse), il tutto (il sistema nel suo complesso) è qualcosa di più della somma delle sue parti. Questo quid è la parte “emergente” spontaneamente dal sistema (https://it.wikipedia.org/wiki/Emergentismo ; https://it.wikipedia.org/wiki/Comportamento_emergente). Un tale sistema esibisce proprietà che non sono spiegabili in base alle leggi che governano le singole parti, dunque quelle proprietà vanno attribuite alle (emergono dalle) relazioni lineari e non-lineari tra le componenti. Nel caso specifico, la coscienza sarebbe un fenomeno emergente in quanto non può essere spiegata completamente con i processi studiati a livello dei neuroni.

[13]Eduardo Caianiello (1921-1993) https://it.wikipedia.org/wiki/Eduardo_Caianiello e http://www.treccani.it/enciclopedia/eduardo-renato-caianiello_%28Dizionario-Biografico%29/ ; Norbert Wiener (1894-1964) https://it.wikipedia.org/wiki/Norbert_Wiener e http://www.treccani.it/enciclopedia/norbert-wiener/ ; Warren Sturgis McCulloch (1898-1969) https://it.wikipedia.org/wiki/Warren_McCulloch e uno scritto di Heinz von Foerster su McCulloch http://www.vordenker.de/metaphysics/metaphysics.htm .

[14]Valentino von Braitenberg https://it.wikipedia.org/wiki/Valentino_von_Braitenberg . Il testo: Valentino Braitenberg, Vehicles – Experiments in Synthetic Psychology, 1986, A Bradford Book / MIT Press, Cambridge (Massachussets). I veicoli pensanti – Saggio di psicologia sintetica, 2018 (1986), Mimesis, Sesto San Giovanni (MI).

[15]Sull’esperimento di Heider e Simmel: in inglese, da Scientific American https://blogs.scientificamerican.com/thoughtful-animal/animating-anthropomorphism-giving-minds-to-geometric-shapes-video/ ; il video https://www.youtube.com/watch?v=VTNmLt7QX8E&feature=youtu.be ; in italiano https://www.demenzemedicinagenerale.net/mens-sana/le-grandi-ricerche/281-in-cosa-consiste-la-illusione-di-heider-simmel .

[16]Il paramecio è un organismo unicellulare classificato tra gli Eucarioti Protisti. Ha dimensioni microscopiche, da 80 a 300 μ (micron = millesimi di millimetro), una struttura cellulare interna ricca e complessa e si riproduce sia per riproduzione sessuale che asessuale. Per approfondire: in inglese https://www.britannica.com/science/Paramecium ; in italiano https://it.wikipedia.org/wiki/Paramecium e http://www.treccani.it/enciclopedia/paramecio/ .

[17]E non solo di scimmie: un testo classico su questo tema, datato ma sempre valido e di piacevole lettura, è L’animale culturale, di Danilo Mainardi, edito da Rizzoli (Milano, 1974). Sulle capacità di social learning da parte di scimpanzé ecco una pubblicazione scientifica recente (in inglese) Bandini E, Tennie C. 2017. Spontaneous reoccurrence of “scooping”, a wild tool-use behaviour, in naïve chimpanzees. PeerJ 5:e3814 (https://peerj.com/articles/3814/) e un’intervista a uno degli autori https://peerj.com/blog/post/115284879765/chimpanzees-spontaneously-use-tools-without-social-learning-author-interview-with-elisa-bandini/?utm_content=bufferdf137&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer .

[18]Il Deep Learning è, nell’ambito degli studi sull’Intelligenza Artificiale, un settore di ricerca sull’apprendimento automatico (machine learning) che è basato su reti neurali artificiali organizzate su diversi livelli (“strati”) collegati in modo gerarchico: ogni “strato” usa come input l’output dello strato di livello inferiore. Con queste reti si cerca di simulare il funzionamento del cervello umano, almeno per quanto lo si è capito. Per approfondire: http://www.intelligenzaartificiale.it/deep-learning/ ; https://www.ai4business.it/intelligenza-artificiale/deep-learning/deep-learning-cose/ ; https://it.wikipedia.org/wiki/Apprendimento_profondo .

[19]Stefano Mancuso è Professore ordinario presso l’Università di Firenze e dirige il LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale). Una sua presentazione di provenienza universitaria si trova in https://www.unifimagazine.it/author/stefano-mancuso/ ; il website del LINV si trova in http://www.linv.org/ ; una breve presentazione della Neurobiologia vegetale è in https://it.wikipedia.org/wiki/Neurobiologia_vegetale .