“Dovremmo essere fieri di vivere in un ‘epoca in cui ciò che facciamo ora determinerà il Futuro della civiltà umana” Al Gore

 

 

Non me ne resi conto fino a che non lo vidi. Tutto bianco lì di fronte ai miei occhi, all’altezza del mio viso. Era riuscito a nascondersi sino ad allora per poi venir fuori all’improvviso, spinto da misteriosi accordi.

Per anni lo avevo atteso. Esausta. Sfiduciata. Tempi di lenti pensieri, estenuanti calcoli. Immaginavo, temevo che mai sarebbe apparso. Da tempo immemore non era dato di vederne. Solo chi era vecchio, molto vecchio, quasi sopravvissuto alla morte, poteva ricordare.

Raccontare. Descrivere. Colori, forme, odori. La loro bellezza, il loro profumo. Solo i vecchi avrebbero potuto riconoscerlo, perché essi solo sapevano.

Di molte cose si parlava solo al passato, di molte altre era del tutto proibito parlare. Fino ad allora ogni cosa era filata per il suo verso. Senza grandi momenti di depressione, senza reali motivi di esaltazione. Una vita tranquillamente piatta, giustamente equilibrata. Ero una persona emotivamente stabile. Eccetto per una strana passione. Un bizzarro attaccamento al verde. Un piccolo estro che mi rendeva diversa dagli altri.

Nel mio esiguo giardino colorato, tutto in splendida materia plastica, erano cresciute alcune piante. Non era stato un miracolo. No! Le avevo curate pazientemente, seguendole attraverso le vaghe stagioni dell’anno. Le foglie stremate cadevano d’autunno e ricomparivano, gemme esangui, in primavera. Un verde così pallido, sordo. Tenerissimo.

Tutto questo veniva considerato un vezzo, un lusso, una bizzarria. Nei grandi giardini alberi di stoffa pregiata e plastica davano ombra e abbellivano, ornando laghetti artificiali.

Nei ricchi parchi si ergevano siepi di malachite e di giada, scolpite dai più noti scultori.

Verdissime, splendenti facevano migliore figura delle delicate piante del mio giardino, così tenui ed esili. Sempre desiderose di terra, di acqua, di sole. Il loro verde era smorto, le loro foglie minute e rare. Era davvero strano e insensato questo mio amore. Ma io ne conoscevo la ragione. Sapevo cosa mi spingeva a coltivarle, a compiere quella gran fatica ogni giorno, senza tregua, instancabilmente. Esse crescevano! Vivevano sotto i miei occhi! Esse nascevano e morivano, diventavano adulte, mature, e infine invecchiavano.

Avevo iniziato molti anni addietro con un alberello, che un tempo lontano aveva dato frutti. Ero ben consapevole della pochezza delle mie illusioni. Era impossibile che potesse crescere. Nulla faceva sperare che crescesse come aveva fatto tanti anni prima.

Un ricercatore addetto alla “Riproduzione in laboratorio” mi aveva regalato quel piccolo seme. Gli avevo posto tante domande. Strane domande senza risposte. Avevamo parlato per giorni e giorni. I motivi, le ragioni. L’estinzione di tutte le specie. L’inizio e la fine. Gli ultimi rari esemplari che morivano a poco a poco. Che erano ormai tutti scomparsi. E il mio amore irrazionale, pervicace, estenuante. Fu allora che volle offrirmi un dono tanto speciale.

Riuscii a farlo crescere fino ad un metro. Tronco esile e flessibile, fogliame verde opaco. Non emanava profumi. Imparai presto a fare delle talee, a propagare quel verde mite e fresco. Quando il terreno ne fu quasi del tutto ricoperto ebbi un regalo, una specie di premio per la mia abilità e costanza. Un ramoscello di un albero molto aspro, le cui foglie erano come plastificate, di carta pressata. Seppi che in passato, all’inizio della stagione estiva, si ricopriva di meravigliose, estatiche inflorescenze dal colore bianco e dal profumo acuto. Non dava frutti. Era un ornamento dei giardini. Lo trovai molto diverso dalle mie altre piante, così duro e diritto nel ramo piccolo e malfermo. Le foglie piuttosto grandi e compatte, al rovescio erano di color argento. Lo posi in un luogo in pieno sole, riuscii ad annaffiarlo ogni giorno ed infine lo vidi crescere. Cresceva così lentamente che quasi lo si poteva vedere nel suo farsi. Non era un albero particolarmente bello. Possedeva un atteggiamento altezzoso e scostante.

Eppure, c’era qualcosa in lui che rivelava un’antica bellezza. L’appartenenza ad una nobiltà sepolta. Fu quel suo essere sobrio e diritto a farmelo amare di un amore senza limiti, a poco a poco, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione. Gli altri erano esili, sornioni, sempre un po’ villani quando il vento li riempiva di gesti e movimenti, lui restava a guardare, sospirando con brevi e cupi suoni. Si ergeva al di sopra di tutto.

A giugno, improvvisamente, mise piccole gemme chiare che si aprirono in foglie verdeggianti.

Era un albero da fiori, ma i fiori da anni e anni erano scomparsi. Non esistevano più da tempo immemore. In principio se ne fecero di carta, di seta, di raso, di perle, di argento, di oro e pietre preziose. Poi gli ultimi artigiani morirono e nessuno più poté riprodurre quelle forme complesse.

Se ne perse il ricordo per sempre. Non sbocciarono più. Nemmeno in laboratorio. Estinti per sempre e fu vietato parlarne. Come una delle grandi, immani sconfitte dell’umanità. Restarono i vecchi, solo i più vecchi, a ricordare.

 

Quando l’albero ebbe raggiunto l’altezza di un metro cominciai a provare un certo disagio. L’osservavo con ansia. Mi scoprii a spiarlo. Non sapevo cosa mi rendesse inquieta, ma cominciai a chiedermi sempre più spesso come potessero essere quei suoi fiori.

Si fece strada impercettibilmente il desiderio di vederne uno. Poi si insinuò nel mio cervello.

Infine, questo pensiero scavò profondamente la mia mente per non lacciarmi più. Cominciai a trascorrere lunghe ore davanti al mio albero. Lo fissavo cercando di capire. Chiedendomi dove fossero andati a finire i suoi fiori. Dovevo sapere. Ma la risposta non c’era. C’era solo la mia follia.

Conseguenza logica della mia diversità. Quella diversità che si esprimeva in una insensata sete di conoscenza, in quel desiderio senza speranza. Cominciai a vivere i miei giorni accanto all’albero.

In attesa.
Le piccole gemme verde chiaro si trasformarono in foglie larghe e grevi. Ero attenta ad ogni suo piccolo cambiamento, fremito, sbigottimento. Lo ascoltavo respirare. Ne percepivo i palpiti lenti del cuore attraverso i rami su fino in cima. Il vento lo infastidiva. La pioggia lo esaltava. Un canto gli nasceva dalle fronde alla brezza della primavera. Gli uccelli, rari e furtivi, vi si posavano per riposare. Gli parlavo della sua antica bellezza, dei suoi fiori dal profumo inebriante nelle notti d’estate. Quattro anni, quattro lunghi anni stetti in attesa di un segnale che rivelasse il suo segreto.

Le domande divennero sempre più numerose, le parole sempre più trasognate. Fino ad evocare antiche immagini: alberi immani, verde livido, tempeste di vento e scoppi di sole.

Le nostre stagioni sono piuttosto piatte; con variazioni molto esigue di clima. Il tutto in un’atmosfera artificiale ben dosata, con un alto grado di vivibilità. Senza tempeste, senza eccessi di

raggi di sole. Rimasi in quel giardino, chiusa dentro i suoi cancelli a guardar vivere una pianta.

Presa da quel mistero profondo.

Il suo portamento diveniva sempre più maestoso, memoria di boschi e foreste, esaltato da grandi rami le cui foglie si aprivano in un verde lucente.

Per quattro anni stetti a sorvegliarlo, ad ascoltarne il respiro attraverso il tronco.  Sentivo la linfa scorrere lungo il suo corpo. Lo udivo fremere, spasimare, sospirare. Era vivo.

Quell’albero era la cosa più bella che avessi mai visto. Ed ebbi paura.

Un giorno nell’oscurità di un mattino plumbeo apparve un luccicore, un biancore insensato sul ramo più basso dell’albero, all’altezza del mio viso. Apparve così all’improvviso che credetti ad uno strano effetto di luce. Non lo avevo notato prima tra le foglie nuove che stavano dischiudendosi poco per volta. Come si era potuto nascondere fino ad allora. Come era cresciuto indisturbato per sbocciare tutto d’un tratto. Dove era stato fino ad allora? Dov’era? E che cosa era? Lo sapevo, lo sapevo da sempre. Riconoscevo le sue forme aeree, i suoi petali carnosi di un bianco di neve, il suo profumo intenso di una suadente carnalità. Sapevo! La più bella cosa mai esistita. Pronuncia il suo nome “Un fiore”. Era un fiore.

Lì bianco e sensuale, senza pari al mondo, lì nel mio giardino, sul mio albero. L’osservai incantata; contemplai la sua perfezione e il suo candore. La purezza dei suoi contorni. L’algore delle sue forme che rimandavano ad una solarità maestosa e perduta.

Toccai un petalo con la punta dell’indice, avvicinai le narici al calice e ne assaporai il profumo.

Non riuscivo a credere a quel miracolo. E me ne stetti accanto al suo tronco per tutto il giorno e la notte. All’alba il fiore era ancora lì, i petali aperti come in un abbraccio. E su di essi macchie scure

come ferite sanguinanti. Piccoli segnali di stanchezza. Il fiore era ammalato. Cercai di dissetarlo irrorandolo con spruzzi lievi di acqua.  Lo accarezzai, pregai.

Il mio fiore stava sfiorendo. Il mio fiore stava morendo.

Devo difenderlo, stare attenta. Come posso sottrarlo alla morte? E’ impossibile. No! Ci sarà un modo. Lo guardo perdere il suo colore, il suo profumo cambiare in alito di morte.  Sto spiando la sua morte. E poi?

Potrà mai nascere un altro fiore? Sarà possibile che venga alla luce un altro esemplare così magnifico? Se ce n’è stato uno ce ne saranno altri…

Se fosse l’ultimo, se fosse l’unico.  Se non dovesse mai più sbocciare un altro fiore?

Mio Dio. Che ne sarà di me? Che ne sarà di noi?

Mio Dio.

 

Napoli Gennaio 1989