Abbiamo ritrovato in questi giorni su Facebook un post del 18 marzo 2017 di Diego Asproni dedicato a Iride Peis. Diego è un poliedrico artista, originario di Bitti (Sardegna), studente dell’Istituto d’arte di Sassari, minatore per tre anni, Assessore alla Cultura del suo paese che ha aperto le scuole comunali di ceramica, di tessitura professionale e di canto a tenore, ed è stato insegnante di sostegno e le sue opere si trovano in varie località, tra le quali Lula, paese della Barbagia sul quale torneremo prossimamente.

Iride è una donna di cultura, fiera e coraggiosa, che abbiamo imparato a conoscere attraverso gli articoli scritti per la nostra rivista a quattro mani con Graziella Falaguasta, a cavallo tra il 2017 e il 2018, con i quali ci ha raccontato l’importante storia delle miniere di Montevecchio, nel Sud Sardegna.

Proprio perché le riconosciamo un ruolo di narratrice instancabile delle vite di chi normalmente non fa la “grande storia” le rendiamo omaggio riprendendo l’intero articolo di Diego Asproni, che ringraziamo per averci concesso di ripubblicarlo qui.

 

Iride Peis è una persona importante, preziosa.

Lo è per la sua famiglia, per la Sardegna, per le donne e per gli uomini che nel mondo studiano, e si impegnano.

E’ stata maestra a Montevecchio, dove ha insegnato a leggere e a scrivere ai figli dei lavoratori della miniera.

Con i figli e il marito Bruno, medico della miniera, ha vissuto per molti anni nel villaggio di Genna Serapis, nei cantieri di Levante.

Così, per lei è stato naturale studiare questa grande struttura industriale, il lavoro degli uomini e delle donne, la storia del luogo, la ricchezza del sottosuolo, le opportunità per le famiglie di Guspini e Arbus.

Mentre i figli crescevano, lei osservava, ascoltava, studiava e … scriveva.

Scriveva e pubblicava libri, con una idea, un progetto, pilastro della sua vita: raccogliere, documentare e costruire memoria per i figli, per le famiglie dei paesi, per coloro che ora e sempre avranno cuore e amore per i propri luoghi e per la propria storia.

Per loro e per noi ha scritto e pubblicato questi libri:

Montevecchio, miniera di blenda e galena” del 1991.

Donne e uomini della miniera di Montevecchio” del 1992.

La meccanizzazione nelle miniere di Montevecchio” del 1993.

Donne e bambine nella miniera di Montevecchio” del 1998.

Gente di miniera” del 2002.

Contus de mena” del 2010.

Oltre ai libri, tante collaborazioni per teatro, cinema, conferenze, manifestazioni culturali, poesie, video con fotografie, ecc.

Un percorso lungo e coerente, quello dei suoi libri.

Prima la miniera, con il filone da levante a ponente, la dichiarazione di scoperta, la concessione del 1848.

Poi la meccanizzazione, lo sviluppo dei cantieri, il grande numero degli occupati e l’aumento della produzione.

E ancora, ricercando e studiando negli archivi, Iride scopre la nostra storia.

Una storia sepolta, nascosta, cancellata, mai insegnata.

Nei documenti, nelle perizie sugli incidenti (frequenti nelle gallerie), è certificata la vita dei lavoratori.

E anche le brevi vite delle bambine e dei bambini, caduti sul lavoro.

Bisogna leggerlo il suo libro “Donne e bambine nella miniera di Montevecchio”, per capire molte cose.

Dovrebbe essere adottato in tutte le scuole della Sardegna questo testo che racconta la nostra rivoluzione industriale e il tributo di sangue pagato dalle bambine e dalle donne di Arbus e Guspini.

Quando ha iniziato a raccontare la vita dei lavoratori, Iride la miniera la conosceva e l’aveva già abbracciata tutta.

Dai piazzali alle laverìe, dalle discariche agli ultimi livelli di coltivazione.

Conosceva i giorni di paga e di festa, la sirena del cambio di turno, il puzzo dei reagenti della flottazione e il lamento dei ventolini che spingevano aria pulita negli avanzamenti.

VOCI DI DONNA, presentato oggi non è dunque il primo lavoro di Iride.

Come tutti i suoi lavori, anche queste pagine si aprono nelle valli e nelle colline metallifere, tra Genna Serapis, Scirìa e Atzuni, fino alle dune di Scivu.

Sono storie di persone realmente vissute, donne sarde, siciliane, continentali e straniere.

Tutte diverse: povere, ricche, donne mature, bambine o ragazze, provate dalla sfortuna o fortunate.

Tutte con un unico destino: Montevecchio.

Molte di esse sono operaie addette alla cernita del minerale, altre lavorano nelle laverìe, vengono anche da paesi lontani, alcune tornano a casa a piedi nudi, altre rientrano nei dormitori della miniera.

Ci sono le mogli dei minatori con le loro famiglie, le mogli dei capisquadra, le mogli dei geologi, dei geometri, dei capiofficina, degli arganisti, degli armatori, dei chimici.

Le maestre delle scuole, le ostetriche, le figlie del padrone della miniera, le domestiche, le addette alle pulizie, le impiegate nei negozi della miniera, le prostitute.

Tutte raccontano la loro storia, il luogo di nascita, la vita in famiglia.

Descrivono i sogni e i progetti dell’adolescenza, parlano delle giornate luminose e di quelle tristi; la gioia per la nascita del primo figlio, la disperazione per la malattia e per la perdita di una persona cara.

La loro vita è legata alla vita della miniera, ai periodi di prosperità e a quelli di crisi.

Gli anni di maggiore preoccupazione sono quelli delle guerre: i figli e i mariti richiamati al fronte, il razionamento, la fame, i bambini denutriti, la difficoltà nel trovare alimenti.

Tutto questo è raccontato in prima persona dalle donne protagoniste, attraverso la scrittura affettuosa di Iride.

Sembra che lei, l’autrice, le abbia incontrate tutte, ascoltandole e registrando fedelmente.

Anche le donne vissute nell’800 ritornano in vita in queste pagine.

Tutte hanno uno spazio adeguato, tutte ritornano nella collina di Spianamento, perché Montevecchio è stata la loro patria.

Ma tutte ritornano soprattutto perché Iride ha pensato a loro.

Chissà quando è iniziato questo progetto!

Quando Iride?

Chissà per quanto tempo ci hai pensato?

E’ stata una idea grande, una intuizione alla quale hai lavorato con fiducia e anche con paura, forse.

Perché il lavoro da fare era grandioso e impegnativo, veramente.

Iride ha scelto di dedicare parte del suo tempo per ricostruire le esistenze di queste donne.

Non è un lavoro facile dare alla luce un libro, costruire un testo letterario fatto di ritratti, di vite individuali.

Non è facile. Eppure, lei attraverso le voci di queste donne riesce a raccontarci la storia di un villaggio industriale.

Sono gli ultimi 150 anni di Montevecchio, visti attraverso la vita delle famiglie, nella intimità delle case.

Ma visti anche attraverso il viaggio di andata e ritorno a piedi nudi, che le donne e le ragazze di Guspini e di Arbus compivano ogni giorno, nella durezza del lavoro quotidiano sul piazzale, con il sole e con la pioggia, sotto lo sguardo spesso severo del caporale.

Un altro degli obiettivi di Iride (forse il faro che l’ha guidata per tutta la vita), è quello di raccogliere e conservare scrupolosamente la memoria di un luogo che, per più di un secolo, ha significato molto per tante persone.

Vedere oggi Montevecchio, per chi lo ha conosciuto popolato da migliaia di minatori, da diverse centinaia di famiglie, con la scuola, la chiesa, il cinema, il teatro, l’ospedale, il campo di calcio, vederlo oggi per chi lo ha conosciuto in altri tempi è certo una sofferenza.

Ma se l’obiettivo è quello di salvare la memoria, cosa si può fare per conservare la memoria di un luogo?

Intanto iniziare a riportarvi la vita, semplicemente.

Attraverso l’arte, con la poesia, con la bellezza dei racconti e con le storie delle persone che lo hanno abitato.

Iride riporta tutte le sue donne a Montevecchio. Lo dice in modo chiaro, lo fa dire ad ognuna di loro.

Con questo libro, Genna Serapis è viva perché vediamo le case e le strade nuovamente abitate.

Questo è il miracolo che opera la poesia, la letteratura, l’arte.

Un risultato importante, un lavoro riuscito.

Ma come ha fatto Iride a organizzare la scrittura, resistere e perseverare, completare il progetto creativo che si era data?

Perché è chiaro, un libro complesso e impegnativo come questo, richiede un lavoro lungo e una volontà costante, sostenuti da grandi motivazioni intime.

Il libro si apre con le voci infantili delle bambine e delle donne morte il 4 maggio 1871 nel cantiere di Atzuni e si chiude con i ritratti delle persone care alla nostra autrice.

Ecco le motivazioni forti che sostengono un impegno forte.

Certamente il libro è un omaggio alla gente che ha popolato Montevecchio, è un dono ai paesi di Guspini e Arbus, e alla Umanità tutta.

Ma è anche una abbraccio affettuoso ai suoi cari che lì hanno vissuto, hanno lavorato, abitando nella casetta costruita sulla discarica, sopra il filone.

L’altro abbraccio affettuoso che sostiene Iride nel suo lungo e fortunato lavoro, è quello delle donne e delle bambine del cantiere di Atzuni.

E’ anche per la loro memoria che lei lavora così tanto, con entusiasmo sempre rinnovato.

Forse tutto il progetto artistico e intellettuale di Iride è cominciato guardando i visi dei suoi alunni a scuola, conoscendo le loro mamme, visitando le loro case, ascoltando le loro storie di lavoro e di vita.

Forse già allora ha capito che aveva un dovere da compiere, un impegno quasi sacro: raccogliere tante testimonianze, tessere di varie esistenze in modo da costruire in seguito un grande mosaico, con metodo e molta, molta pazienza.

Sono soprattutto i bambini e le bambine caduti sul lavoro che muovono il suo cuore.

Essi sono simili ai bambini e alle bambine della sua scuola, hanno gli stessi occhi, sognano gli stessi sogni, chiamano i loro genitori quando hanno paura.

Come poterli dimenticare?

Una che scrive libri potrebbe fermarsi anche qui e dire di aver concluso il suo dovere con la pubblicazione.

Ma a Iride questo non basta.

Lei si presenta a noi come una intellettuale militante, una donna che ha molte cose da raccontare, molti segreti da rivelare.

Ogni suo libro scritto nasconde un lavoro preparatorio fatto di ascolto e di osservazione precedenti.

E infatti, anche in “Voci di donna” i ritratti più belli e più riusciti sono quelli dei suoi testimoni.

Quelle donne che lei ha potuto conoscere e intervistare per raccogliere e salvare una memoria che altrimenti sarebbe andata perduta.

In questo senso Iride è una intellettuale.

Lei ci insegna quanto sia importante osservare e distinguere da subito le cose preziose.

La vita delle persone, la nostra stessa vita passa davanti a noi che la viviamo. Osservare e capire quanto e cosa raccogliere è nelle possibilità di ciascuno. Mettersi a lavorare subito in questa direzione è nella intuizione di alcuni più sensibili e più fortunati.

Forse è anche per questo che accetta tutti gli inviti che le vengono rivolti da associazioni, biblioteche, istituzioni e scuole.

La cercano, e lei viaggia da un paese all’altro per parlare dei suoi libri, ma soprattutto per rispondere con l’impegno civile, a una promessa fatta alle donne e alle bambine di Montevecchio, tanti anni fa.

Lei partecipa rispondendo a tutti e, con la sua presenza così piena di speranza, ci suggerisce quanto sia importante guardare e studiare la nostra realtà, la vita delle nostre comunità.

Siano essi paesi contadini o comunità minerarie.

Anche oggi la sua presenza a Lula ha un significato e un messaggio che possono essere accolti, come un dono.

Alcuni dei vostri concittadini hanno già fatto ricerca in questo paese: i libri di Franca Rita Porcu, Mariangela Dui, le rappresentazioni teatrali di Ilos e di Antoni Marras sono un esempio di studio e recupero della memoria, pur se presentato con linguaggi diversi.

C’è altro ancora può essere studiato e raccolto? Forse si, se noi lo vogliamo.

Anche per questo serve un libro. Per farci queste domande.

E anche per questo e di questo che ringraziamo Iride.

Intellettuale militante, donna preziosa e cara.

Diegu Asproni

 

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Nella foto: Iride Peis, nella biblioteca di Lula, il 17 marzo 2017, alla presentazione del suo libro “Voci di donna”. Dopo la pubblicazione di quel libro ne sono usciti anche altri, ovviamente, tra i quali ci piace segnalare “Le janas di Montevecchio”, una raccolta di “leggende” del suo tanto amato territorio.