Noi che eravamo nati per edificare la gentilezza non potemmo essere gentili

(Bertolt Brecht)

Mentre Alfredo muore, sotto la nostra casa in Paradiso nel pieno della notte sbocciano striscioni azzurri e bianchi. Da un balcone all’altro, stretti ai tubi del gas, agli stipiti delle finestre, agli ingranaggi di monumentali climatizzatori.

E’ come nel ‘90 ma senza Maradona.

I festoni azzurri svolazzarono per mesi trasformando l’atmosfera festosa in uno scenario minaccioso.

Una Blade Runner polverosa e stralunata. Bande colorate venivano smosse da un luogo all’altro da venti opposti con sordi boati. Sbattevano ora mute, ora asmatiche contro tutto ciò che incontravano.

Spinti da folate giunte da terre Vesuviane, Scirocchi capresi, Libecci flegrei, Grecali ionici freschi Maestrali gallici i nodi color cobalto si scioglievano e riallacciavano in una cupa danza.

Appena giunti alla Maddalena con il nostro gommone Gaura Prima lasciammo le stanze della pensione “L’Aquila”, gestita da un veneto che chiamavamo “Sig. Extrina” : il meglio del suo menu soggiaceva alla regole dello “straordinario”, del fuori pasto. Ci avviammo verso l’isola di Spargi, ancora vestiti e stanchi dal viaggio, desiderosi del bel mare sardo e della dolce brezza che pareva rinfrescare l’aria.

Nostra meta era la Spiaggia Rosa, ricordo di onirici deserti rossi.

Il mare appariva di un turchese imbarazzante, pacificati ci abbandonammo a sguardi ammirati.

Eravamo contenti.

All’improvviso si alzò la brezza, si gonfiò un fitto Maestrale. Le onde incresparono spinte dal vento divenuto freddo e il sole d’Agosto si mutò “nell’inverno del nostro scontento”.

Il Maestrale divenne così violento che l’esile gommone cominciò ad imbarcare acqua.

E’ un ben strano terrore quello che assale in mezzo al mare in tempesta: si tace, ci si concentra su ciò che accade e si tace. Ci si immobilizza e si tace. Si prega che il motore non si spenga e si tace.

Alla guida del fuoribordo Johnson c’era Alfredo che senza fare una piega, guardando davanti a sé, efficiente come solo un Vergine può essere, affrontò le onde e ci riportò a riva. Eravamo salvi, sulla costiera bianca di scogli della Maddalena. Impauriti, tremanti approfittammo del caldo sole per riappacificarci con la vita.

Noi eravamo in vacanza, avevamo attraversato il Tirreno su di una nave. Da Civitavecchia a Olbia.

Noi eravamo solo dei turisti, degli “allegri viaggiatori”.

Sono anni che non vado a mare, la malattia di Alfredo me lo ha impedito. Ma ora non ho voglia di farlo.

Sveglierei i mille e mille occhi che lì riposano. Corpi e corpi adagiati sul fondo del nostro mare, Mar Mediterraneo, il loro camposanto.

Noi eravamo agiati turisti, lo abbiamo raccontato esagerando il coraggio e la paura. Ma chi è in fuga dal terrore, dall’orrore, dalla miseria. Chi muto su di un ennesimo “Gaura” parte verso una terra salvifica e in un tuffo a volo di gabbiano sprofonda fin dove la luce non penetra più, no, costui non può essere disturbato. Non si disturbano gli abitanti dei cimiteri. Si lasciano dormire in pace.

Per loro nessuna iscrizione, né date, né nomi in fila su di un muro. Non si alzano monumenti per “I naufraghi ignoti”. Volti sconosciuti, voci inascoltate, corpi perduti.

A far loro compagnia solo sculture in pietra, le bellissime statue sommerse, figure subacquee “viventi” di Jason deCaires Taylor.

Un atto di somma gentilezza, l’espiazione della colpa di Caino verso il “fratello” ucciso. Sì, la gentilezza è l’unica arma del perdono, l’unica forma di consacrazione della negazione del male..

Luci tra i rami, il mio giardino colpito da raggi di sole è una foresta pluviale.

 

A Pontecagnano, mio paese natale, un palazzetto basso con prato, primule e viale alberato sul davanti, ospitava le aule della scuola elementare che accoglieva i bambini del paese assieme ai rifugiati slavi e rom venuti dall’Istria. Una ex caserma faceva loro da casa. Nella mia classe c’era un bambino istriano che mi piaceva molto: i miei zii per sfottermi lo chiamavano “Il biondino”. Lì c’era un uomo che mi terrorizzava: Padre Esposito insegnante di Religione. Una lunga magra presenza in abito nero. Viso scarno, capelli bruni tagliati corti e sguardi di incontrollata perfidia.

Sua vittima una bimba rom che sedeva al primo banco. Lunghe trecce castane e la sfrontatezza di chi vorrebbe stare altrove. Il prete non faceva che provocarla, punirla, violandone la dignità, sottoponendola a punizioni corporali, strappandole le trecce, schiaffeggiandola, colpendola ripetutamente sulla testa.

Rivolgendole frasi offensive fino alla disperazione del pianto.

Mi addolorava quel “gioco manesco”. In verità ero completamente terrorizzata da quella violenza che, allora, non capivo.

Non mi tornava il fatto che nei miei confronti si comportasse in modo diverso. Non ero in grado di sapere che il caro prete non si sarebbe mai permesso cose simili con una bambina di una famiglia “per bene” del luogo. Tutto merito del mio bisnonno che aveva costruito il nuovo ponte sul fiume che dava accesso al paese, per cui il “pontecagnato” si trasformò elegantemente in Pontecagnano, una storia di “eroica melassa” alla Frank Capra.

I predatori, gli stupratori, i torturatori, di qualsiasi ceto, religione o nazionalità siano, hanno una cosa in comune: una profonda, sconfinata viltà.

Così Padre Esposito, ora lo so, nell’eseguire il suo perverso “gioco”, nel massacrare un essere da lui ritenuto men che niente, un cane randagio, un usa e getta si esaltava, fino all’eccitazione dei sensi.

Ed era tutto gratis, niente rimbrotti da parte di Dio, né degli uomini.

Quando lui era in classe io restavo a casa, troppo piccola per esigere un comportamento

corretto, troppo piccola per combattere la prepotenza e la violazione dell’altrui dignità.

Non conoscevo la parola “stupro” ma ne percepivo già il tanfo.

Ieri la città è esplosa, precipitando in un buco nero dal quale sono scaturiti fuochi artificiali, boati, grida festose. E per un secondo nel buio di un giardino notturno sulle chiome degli aranci in fiore sono apparsi lampi di guerra, trasformando il mondo intorno in un campo di battaglia.

Finita la festa, in questa mattina di “presunta” primavera sono seduta al sole a scrivere sotto una coltre viola. Glicini avvolgono il cielo in una pomposa fioritura. Una struggente atmosfera di profumi trascorsi.

E, come sussurrato dal verde, un nome si apre tra i petali sparsi in terra : Emanuela.

Come avviene ogniqualvolta ripenso a lei e al dolore che le alita attorno, da tutto il mio corpo, dal sangue delle arterie al muscolo cardiaco, si alza un grido. Struggente grido tra la bellezza di quegli alberi in fiore.

Una bambina, solo una bambina la cui gentilezza infantile incontra l’Hybris e ne viene travolta.

Diventa così merce da smaltire, roba da barattare, da buttar via, da annullare fisicamente. La tracotanza di chi si è sempre vestito dei panni della prepotenza virile. Di chi ha il “Potere” di usare la cortese bellezza di una bambina, la sua intima dolcezza, come via libera alla predazione. Preda da divorare, corpo da violare, carne da macellare. Sento sulle mie vecchie ossa l’odore della paura, del terrore nella percezione dell’insensatezza di tutta quella sofferenza.

Quando finalmente riuscì ad arrivare ai pali, con l’acqua che ormai giungeva alle caviglie, si strappò di dosso il taleth fradicio, pesante di pioggia, rimase con la sola camicia, e si buttò ai piedi di Jeshua. Tagliò le corde sopra le caviglie, si sollevò sulla traversina inferiore, abbracciò Jeshua e liberò le braccia dai lacci superiori. Il nudo corpo madido di Jeshua cadde su di lui trascinandolo in terra col suo peso. Levi volle caricarselo subito sulle spalle, ma un pensiero lo fermò. Lascio in terra, nell’acqua, il corpo con la testa gettata indietro e le braccia spalancate, e corse verso gli altri pali coi piedi che scivolavano sull’argilla pastosa. Tagliò anche le loro corde, e i due corpi piombarono in terra.”

( Michail Bulgakov- Il Maestro e Margherita- Libro Primo – Il supplizio)

Così mai più Sia!