Processi decisionali e influenza dei fattori culturali in situazioni critiche: il caso della battaglia di Midway.
1 * Perché ho deciso di scrivere su questo tema
Io sono un pacifista convinto ma insieme, forse contraddittoriamente, sono un appassionato di storia militare e mi sono spesso chiesto il perché [1]. Quando ero verso la conclusione della mia carriera di insegnante e l’inizio della mia carriera di formatore degli adulti e consulente, avevo affrontato la professione dal lato delle nuove tecnologie; si tenga presente che sto parlando di una fase storica (a cavallo tra gli Anni ’80 e ’90 del secolo scorso) nella quale le “nuove tecnologie”, viste con gli occhi di oggi, appaiono in realtà vecchissime, primitive (ancora non c’era nemmeno Internet, tanto per capirsi).
Attraverso un percorso molto rapido, e che non sono mai riuscito a ricostruire completamente, a un certo punto mi resi conto che a me, in realtà, non interessavano le macchine ma le persone che con esse lavoravano; così cominciai a guadagnarmi da vivere nell’ambito delle risorse umane sulla base delle competenze trasversali (le soft skills, detto all’inglese).
Nessuno conosce veramente se stesso, per cui non so se ciò che mi sono raccontato dopo è quanto è davvero accaduto o se è una mia ricostruzione soggettiva a posteriori, probabilmente deformata. Comunque, dopo, la spiegazione che mi sono dato è che anche sui campi di battaglia ci sono esseri umani (che rimangono il centro del mio interesse), che le decisioni che deve prendere chi è in posizione di comando possono andare dal luminoso, al brillante, al catastrofico, e di mezzo c’è sempre la vita di persone, a volte poche, ma a volte anche tante.
Al di là dell’abbozzo di spiegazione di me stesso, come fanno a decidere le persone in queste circostanze è davvero un punto che mi interessa professionalmente e scientificamente.
Due precisazioni, la prima delle quali riguarda i livelli del comando: non parliamo solo degli “alti papaveri”, dei grandi generali; anche un sergente (dunque un sottufficiale) o un sottotenente (il grado più basso degli ufficiali) che guidano una squadra o un plotone possono trovarsi a dover prendere decisioni come quelle che ho detto.
Un esempio di ciò può essere il Tenente Richard Winters: durante lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) si trovò a comandare prima un plotone e poi una compagnia della 101a Divisione aerotrasportata americana (il diretto superiore era rimasto ucciso all’arrivo sul suolo francese); la sua azione del giorno successivo, il 7 giugno, volta a ridurre al silenzio una batteria tedesca che sparava sulle spiagge dove era sbarcata la 4a Divisione americana, pare sia ancora studiata come esempio di strategia e tattica a West Point [2].
La seconda precisazione riguarda i fattori che influiscono su processi decisionali che devono essere sviluppati sotto forti pressioni del contesto, in tempi strettissimi e con rischi molto elevati di fallimento. Ovviamente sono tanti; qui ne prenderò in considerazione alcuni (in particolare i pregiudizi, dai quali gli alti comandi non sono immuni) e ne analizzerò uno in particolare, cioè la cultura che ispira la gestione del comando e, in generale, la gestione del potere in un esercito, come in un’organizzazione (ma un esercito E’ un’organizzazione), come in una nazione.
Applicherò questo particolare punto di vista al caso della battaglia di Midway.
2 * La battaglia di Midway – Introduzione
Non a caso il titolo del mio pezzo parla di “decodificare un miracolo”; il termine “miracolo” non l’ho scelto io ma specialisti della materia, e ne fanno fede i titoli di due famosi libri sull’evento [3]. Sull’argomento si è scritto moltissimo e io ho avuto la fortuna di poter leggere (e poi ho riletto e proprio studiato) uno dei libri più recenti, Shattered sword [4] (in inglese, non mi risulta che esista una traduzione italiana).
L’interesse di questo libro sta nella sua proposta, abbastanza originale a quanto risulta a me come appassionato e non esperto, di incorporare nella trattazione storica i particolari della fenomenologia che caratterizzava la decisioni e le azioni descritte.
Questi possono sembrare apparentemente, ma solo apparentemente, dettagli secondari; tuttavia, per esempio, il prendere in esame le procedure con le quali la marina giapponese e quella americana gestivano le operazioni quando erano in battaglia emerge come aspetto rivelatore. Ciò perché, innanzitutto, le procedure erano diverse, come diversi erano i particolari costruttivi delle portaerei delle due parti. Solo per fare un esempio, perché non vorrei dare troppo spazio a questi aspetti: gli aerei imbarcati allora non erano jet come adesso ma avevano motori a scoppio con i cilindri disposti a cerchio (cosiddetti “motori stellari”) e richiedevano complesse operazioni per essere armati (potevano portare bombe o siluri ma gli agganci erano diversi e richiedevano tempo per poter essere cambiati) e preparati al volo (andavano messi in moto e scaldati adeguatamente prima di alzarsi).
E le portaerei giapponesi erano diverse da quelle americane: queste ultime avevano le fiancate degli hangar sotto il ponte di volo apribili, l’aria poteva circolare e i motori potevano essere scaldati prima di salire sul ponte con gli appositi ascensori; così, appena disposti sul ponte, gli aerei potevano partire. Le portaerei giapponesi, invece, avevano le fiancate totalmente chiuse, il ricambio dell’aria era forzato, garantito da ventilatori, e i motori degli aerei potevano essere scaldati solo dopo aver fatto salire gli aerei sul ponte. Fra tutto ci volevano circa tre quarti d’ora dal momento nel quale gli aerei erano armati a quello in cui salivano sul ponte e partivano; nel frattempo erano esposti e vulnerabili ad attacchi di sorpresa nemici.
E c’è un altro aspetto della fenomenologia che vale la pena di sottolineare: i sistemi di sicurezza sulle portaerei e la loro evoluzione, per esempio i sistemi di protezione come l’antincendio.
Questo aspetto tocca direttamente l’argomento che mi interessa di più, cioè i fattori culturali e la loro influenza in decisioni critiche da prendere sotto pressione.
I giapponesi (almeno gli ufficiali giapponesi) mostravano disprezzo non solo per il nemico e la sua vita, ma anche per la vita dei propri soldati e anche per la propria, e non avevano applicato il loro ingegno a migliorare i sistemi di sicurezza come avevano fatto per quanto riguardava le armi. Per esempio gli americani pensavano a Pearl Harbour (attaccata il 7 dicembre 1941) come una base “sicura” perché le sue acque erano troppo basse per i siluri giapponesi, che si immergevano a 20 metri dopo essere stati sganciati dagli aerosiluranti; ma i giapponesi modificarono i loro siluri [5] e devastarono la flotta americana all’ancora.
Forse fu anche per questa negligenza che il bilancio delle perdite risultò, alla fine della battaglia, drammaticamente sbilanciato [6]: gli americani persero una portaerei (la Yorktown), un cacciatorpediniere, circa 150 aerei e 317 uomini fra marinai, aviatori e marines; i giapponesi persero quattro portaerei, un incrociatore, 320 aerei e più di 3.000 uomini.
Tornando sulla sicurezza delle portaerei, sei mesi dopo Pearl Harbour fu un ufficiale di basso rango che portò un’innovazione decisiva nei sistemi antincendio americani: una fonte di pericolo, nelle portaerei, erano i tubi che portavano il carburante dai grandi serbatoi nelle viscere della nave agli aerei negli hangar o sul ponte, per cui c’erano condutture piene di infiammabilissima benzina avio [7] praticamente ovunque.
Per questo Oscar Myers, un ufficiale addetto ai rifornimenti dell’americana Yorktown, dopo essere stato testimone del destino della portaerei gemella Lexington [8], affondata durante la battaglia del Mar dei Coralli (meno di un mese prima di Midway), avanzò l’idea che le conduttore del carburante, quando non in immediato uso, dovessero venire svuotate e riempite con un gas inerte (anidride carbonica). Contrariamente a quanto accadeva nelle forze armate giapponesi, questi suggerimenti erano tenuti in attento conto in quelle americane, e il sistema venne rapidamente implementato mentre venne adottato dai giapponesi solo molto più tardi.
A questa introduzione va aggiunto che le portaerei rappresentavano un’arma nuova della quale nemmeno i comandanti delle grandi unità conoscevano bene certi particolari operativi. Inoltre erano vittime dei pregiudizi derivati dalle esperienze precedenti e controproducenti nel caso di una guerra aeronavale moderna.
E’ la criticità strutturale dei generali: sono sempre addestrati sull’ultima guerra precedente, non su quella che si sta preparando.
Infatti era molto diffusa l’enfasi sui siluri e sul cannone mentre la chiave erano ormai gli aerei (e i mezzi per portarli in battaglia, cioè le portaerei).
Anche i giapponesi, sia marinai che aviatori degli aerei imbarcati, temevano molto più gli aerosiluranti che i bombardieri in picchiata; però le squadriglie di aerosiluranti americane furono tutte quasi completamente distrutte dalla caccia di protezione [9] e nessun siluro (nessuno!) di quelli lanciati andò a segno. Tutte e quattro le portaerei giapponesi di Midway furono affondate da bombardieri in picchiata. Forse c’era stato poco tempo per imparare, forse i giapponesi avevano problemi nell’imparare dai loro errori o, forse, aveva semplicemente ragione Gramsci nel dire che “la storia insegna ma non ha scolari”: perché un anno prima c’era già stato l’esempio della caccia alla Bismarck, nella quale aerei del tipo “Prima Guerra mondiale”(però AEREI portati da una portaerei, la Ark Royal) [10] avevano bloccato, quindi permesso la distruzione della più potente e moderna nave della marina tedesca (e probabilmente del mondo) alla fine di maggio del 1941.
3 * La battaglia di Midway – Preparazione ed esito

L’atollo di Midway
Una traduzione di “Midway” dall’inglese può essere “mezza strada” o “a mezza strada”. In effetti l’isoletta (è un piccolo atollo, con due striminziti isolotti e una laguna) è a un’estremità delle Isole Hawaii, a nord- ovest della catena delle isole, più o meno a mezza strada tra le coste occidentali degli Stati Uniti e le coste orientali del Giappone. Non è vicinissima agli insediamenti militari (dista più di duemila chilometri in linea d’aria da Oahu e dalle sue basi) ma era presidiata da un distaccamento di marines e aveva ben due piste di atterraggio e decollo per gli aerei. Perché i giapponesi, dopo il folgorante successo dell’attacco a Pearl Harbor (7 dicembre 1941) e sei mesi di ininterrotte vittorie (dicembre 1941 – maggio 1942) decisero di attaccare gli americani proprio lì? E qui c’è il primo, pesante, pregiudizio, quello dell’Ammiraglio Yamamoto sul suo nemico.
Un inciso: per essere esatti, alla fine del semestre la sequenza delle vittorie si era un po’ interrotta; la battaglia del Mar dei Coralli, un mese circa prima di quella di Midway, era finita con un successo strategico per gli americani e più o meno alla pari in termini di perdite. Tuttavia i giapponesi, anche a causa di altri funesti (per loro) pregiudizi che impedivano loro di imparare dagli insuccessi, l’avevano ingiustificatamente ascritta alle vittorie.

Isoroku Yamamoto, comandante in capo delle forze navali imperiali nipponiche.
A parte questo, secondo l’Ammiraglio Isoroku Yamamoto [11] (comandante in capo della flotta imperiale, personaggio molto noto e molto famoso, lo stratega che aveva ideato e condotto l’attacco a sorpresa a Pearl Harbour) gli americani, dopo quel disastro, si sentivano sconfitti e stavano in difesa. Per poter affrontare e sconfiggere un nemico così timido bisognava attirarlo in mare aperto offrendogli un’esca, o portandogli una provocazione, alla quale fosse impossibile non abboccare o non rispondere. Midway era l’esca: gli americani non si potevano permettere di perderla, in particolare di perdere le due piste dalle quali potevano far decollare aerei da guerra per un vasto raggio d’azione nel Pacifico Occidentale (verso il Giappone, in prospettiva). E Isoroku Yamamoto preparò il suo piano.
Preparare un piano: anche questa è un’attività che viene influenzata dalle culture dei soggetti che vi sono coinvolti; per esempio, il libro al quale faccio principalmente riferimento [12] descrive in modo abbastanza dettagliato il processo di pianificazione dell'”Operazione MI” (l’attacco a Midway). Da questa descrizione emerge un processo molto diverso da quello che doveva essere stato seguito dagli Stati Maggiori americani per i loro piani; in quest’ultimo caso, almeno in generale, i piani erano frutto di un lavoro di squadra ed erano sottoposti a un attento vaglio nel momento nel quale venivano presentati. Chi vagliava i piani non era sempre tra coloro che li avevano elaborati e, anche se facevano tutti parte dello stesso esercito, applicava un punto di vista “esterno”; le eventuali critiche erano dirette, pubbliche (fatta salva la necessaria segretezza, cioè erano pubbliche dentro lo Stato Maggiore) e puntuali (ogni dettaglio poteva essere oggetto di attento scrutinio). Nello Stato Maggiore Imperiale giapponese il processo era completamente diverso: Yamamoto aveva ideato e impostato il suo piano da solo, lo aveva fatto completare con i dettagli operativi dai suoi collaboratori e lo aveva sottoposto a un vaglio che era una vera e propria farsa.
Il vaglio era consistito nei “War games” del maggio 1942 tenutisi sulla corazzata “Yamato”, momentaneamente adibita a sede del comando e dello Stato Maggiore della Marina da guerra Imperiale. La tecnica dei war games era praticata in tutti gli eserciti ed era ritenuta (e credo lo sia ancora) efficace [13]. In breve: i partecipanti venivano divisi in due gruppi, con criteri di assegnazione che potevano essere scelti ad-hoc, all’interno dei quali si attribuivano ruoli specifici (chi comandava cosa); ai due gruppi venivano assegnate le parti (spesso estraendo a sorte, un gruppo interpretava i giapponesi, l’altro gruppo gli americani) e si simulava la battaglia.
Perché questi specifici “giochi” furono una farsa?
Perché durante l’esercitazione emerse proprio quello che era uno dei punti deboli del piano, cioè l’ipotesi che una forza aeronavale americana potesse essere già in mare all’arrivo dei giapponesi e potesse attaccare sul fianco la forza che aveva l’impegno più gravoso, il Kido Butai, ovvero la Prima Forza Mobile d’attacco, sotto il comando dell’Ammiraglio Chuichi Nagumo.
La farsa consistette nel fatto che, in sostanza, l’ipotesi fu bocciata dall'”arbitro” dei giochi e non fu né discussa né, tantomeno, presa in esame. Ma quell’ipotesi è proprio ciò che si verificò davvero meno di un mese dopo nelle acque a nord e a nord-ovest di Midway, e la flotta giapponese subì conseguenze catastrofiche.

Nagumo, Chuichi,tenente ammiraglio, comandante in capo della 14ª flotta aerea e della flotta del Pacifico centrale nelle Isole Marianne.
Per la cronaca: Nagumo aveva al suo comando il nerbo della flotta portaerei giapponese, cioè due divisioni portaerei, quattro vascelli di grande stazza, fortemente armati (anche se forse non adeguatamente scortati) e capaci di mettere in aria 150-200 aerei da combattimento tra caccia, bombardieri e aerosiluranti. Roba che faceva impressione al solo pensiero. Ma tre delle portaerei [14] furono colpite a morte (e alla fine affondarono o, non potendo essere salvate, furono più tardi affondate dai giapponesi stessi) in un arco di 12-14 minuti, tra e 10:20 e le 10:40 del mattino del 4 giugno 1942; e la quarta (la Hiryu) subì la stessa sorte quello stesso pomeriggio. La forza comandata da Nagumo era completamente distrutta.
4 * La battaglia di Midway – I fattori culturali
Un fattore culturale specifico, il pregiudizio nei confronti dell’avversario, l’abbiamo già introdotto; ma non era l’unico. Per esempio i militari giapponesi avevano una concezione particolare del combattimento; tendevano a privilegiare l’aggressività nell’attacco e andavano sempre alla ricerca di uno scontro decisivo in mare, una specie di battaglia definitiva con la quale erano convinti fosse possibile mettere fine a una guerra da vincitori. Secondo i più volte citati Parshall e Tully (vedi Nota 12) questi pregiudizi erano soprattutto frutto della strepitosa vittoria della flotta giapponese a Tsushima, nel 1905, quando distrussero la flotta russa e costrinsero la Russia al tavolo della pace. Solo che tali idee erano più coerenti con i duelli medievali che con uno scontro tra potenze industriali moderne, nel quale tutte le risorse di una nazione (o di un gruppo di nazioni alleate) venivano messe in campo, nel quale le guerre duravano a lungo e non c’era alcuna battaglia decisiva sulla quale contare. Ma c’era qualcosa di più profondo dei pregiudizi o, forse, i pregiudizi avevano una radice più profonda.
I soliti Parshall e Tully trattano anche loro, nel loro libro [15], certi aspetti culturali retrostanti la battaglia. Trattando argomenti che riguardano una cultura diversa dalla nostra è inevitabile far riferimento ai cosiddetti aspetti caratteriali del popolo giapponese, come è inevitabile cadere in una certa quantità di semplificazioni e genericità.
Tuttavia la loro rappresentazione è sostanzialmente confermata da un altro importante testo, che tratta della Guerra del Pacifico in termini più generali, ma si apre sul tema della cultura generale giapponese: “La guerra del Pacifico 1941-1945”, di Bernard Millot [16].
Il popolo giapponese era quello rimasto isolato più a lungo dalle intrusioni occidentali e aveva subito una frenetica metamorfosi da nazione agricola a nazione industrializzata moderna nell’arco di un cinquantennio, a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Il popolo giapponese avvertiva, e apprezzava, la propria notevole uniformità razziale e culturale e, accortamente orientato dalla pesante propaganda (e disinformazione) delle caste militari e politiche, riteneva di avere una missione da compiere in Asia, che era quella di cacciare gli invasori occidentali e unire i popoli asiatici in una cosiddetta “sfera comune di prosperità”.
Millot nota la stridente discrepanza fra gli aspetti raffinati e gentili della cultura giapponese e quelli feroci, anche inutilmente sadici e crudeli, mostrati in occasione di guerre o circostanze simili; tende a spiegarla con la forte repressione che i giapponesi esercitavano su se stessi (e che la società giapponese esercitava sui propri appartenenti), che rende possibile l’estremo opposto quando questi freni vengono tolti.
Non so quanto questo corrisponda alla realtà; tuttavia ho notato che Millot fa riferimento a due termini che non ho trovato in altri testi e che interessano in modo particolare il tema della cultura: feudalesimo e Bushido.
Il Giappone, nonostante la frenetica industrializzazione alla quale si era sottoposto, era rimasto un paese feudale e, soprattutto, con una mentalità feudale, cosa della quale darò presto qualche esempio.
Per quanto riguarda il Bushido, la mia ricerca di fonti mi ha insistentemente portato su un unico libro in italiano, quello di Inazo Nitobe [17]; questa parola significa, letteralmente, “la via del guerriero” ed era il codice non scritto al quale facevano riferimento i samurai, un codice cavalleresco a tutti gli effetti (e i riferimenti alla cavalleria medioevale occidentale sono frequenti nel libro).
Questo è importante perché, nei comportamenti dei militari di grado superiore, si ritrovano aspetti che sembrano precisamente far riferimento ad esso; tuttavia, per gli estratti che ho potuto leggere su Internet [18], il libro di Inazo Nitobe è una trattazione di tipo astratto-filosofico, non esente da retorica, e poco dice su come le virtù dei guerrieri venivano praticate.
Dunque, a parte le questioni teoriche e ideali, proviamo a guardare cosa accadeva in pratica nella Marina Imperiale Giapponese.
Il libro di Parshall e Tully approfondisce il sistema di relazioni esistente nelle Forse Armate Imperiali e sfiora il tema più ampio dei modi nei quali era gestito in generale il potere nel sistema di governo nipponico.
La brutalità e la violenza erano prassi comuni nella gestione dei rapporti tra superiori e inferiori: colpire i soldati e i marinai semplici era assolutamente normale e nessun ufficiale poteva pensare di doversi aspettare sanzioni per questo.
La vita a bordo durante le operazioni era ancora peggio di quanto veniva subito durante l’addestramento; secondo un reduce, citato nel libro, sembrava che gli ufficiali fossero convinti che violenza e brutalità fossero gli strumenti migliori per istruire e addestrare.
Non c’erano insubordinazioni, nella marina giapponese, e gli autori fanno osservare lo stridente contrasto fra questa rigidissima disciplina e la violenta indisciplina nei rapporti all’interno dei ranghi superiori: ai livelli più alti erano comuni e frequenti gli scontri accesi, anche in pubblico, anche con l’impiego di tecniche marziali e minacce con armi.
Vengono citati episodi nei quali, per esempio, un ammiraglio, per esprimere il suo dissenso contro l’aver escluso la sua unità dal previsto attacco a Pearl Harbour, affrontò fisicamente Nagumo bloccandolo con una presa di Judo. Oppure nel quale lo stesso Nagumo si scagliò contro un pari grado brandendo un pugnale o una spada (era presente lo zio dell’Imperatore, che si interpose). Pare che in entrambi i casi gli aggressori fossero ubriachi.
Questo sembra avere poco a che vedere con i principi di “rettitudine, coraggio e benevolenza (magnanimità)” che erano i fondamenti dichiarati del Bushido.
Forse tra le forze militari giapponesi aveva prevalso un’interpretazione estrema del codice, ma lo stato delle relazioni era quello suddetto. Allargando la visuale si evidenzia un quadro generale di rapporti estremamente tesi tra la Marina e l’Esercito, che gestivano i propri piani in modo completamente separato, isolatamente, in un contesto nel quale il bene della nazione, che avrebbe dovuto essere interesse comune, era invece assolutamente secondario mentre era primario l’interesse del gruppo.
Molti avevano pensato che la promozione dell’Ammiraglio Isoroku Yamamoto a capo della flotta fosse stato un modo per allontanarlo da Tokyo, dove rischiava di essere ucciso. In effetti, l’impiego dell’assassinio come mezzo per risolvere conflitti di natura politica sembra non fosse estraneo alla gestione del potere in Giappone; secondo un passo del libro di Millot perfino l’era moderna (l’era Meiji, a metà del XIX secolo) era iniziata con l’assassinio dello Shogun di palazzo, e ai tempi tra la Prima e la Seconda guerra mondiale diversi politici moderati furono vittime di omicidi.
A un occhio esterno, e molto a posteriori, appare chiara una conclusione: la gestione del potere nella società giapponese seguiva modelli feudali, nei quali ciò che contava di più era la sopravvivenza e la salute della propria fazione, della propria setta o del proprio gruppo mentre gli interessi nazionali erano assolutamente secondari.
Parshall e Tully riportano da altre fonti che il capo del Governo, Generale Hideki Tojo (dell’Esercito), quando fu informato del disastro di Midway, invece di esprimere costernazione per l’evento e per le sue implicazioni sul futuro della nazione, espresse invece un’irata soddisfazione per il fatto che la Marina aveva finalmente subito una disfatta in un’azione alla quale l’esercito si era opposto.
5 * Culture a confronto
E’ interessante provare a confrontare, sia pure en passant e sulla base di elementi sommari, i sistemi di governo e di assunzione delle decisioni dei Paesi democratici rispetto ai Paesi totalitari e considerando la specifica diversità del caso giapponese da quello tedesco.
Sui processi decisionali dei Paesi democratici abbiamo l’opinione di Winston Churchill: da una parte diceva che il sistema democratico di governo è in sé pessimo, però non ne abbiamo uno migliore; dall’altra parte lamentava, a volte, di non poter avere il potere e la libertà di decisione che aveva Hitler e di doversi sempre mettere d’accordo con i suoi collaboratori ed alleati [19].
Per quanto riguarda gli americani, innanzitutto sembra venisse applicata con precisione la regola di Von Clausewitz secondo la quale la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi [20], quindi era il potere politico (il Presidente Roosevelt e il suo staff) che aveva l’ultima parola su tutto. Inoltre, analogamente a quanto accadeva a Churchill, i subalterni avevano la possibilità (e la volontà e il carattere per farlo) di esprimersi, e i responsabili di eventuali mancanze o errori gravi potevano aspettarsi conseguenze.
Per esempio, alla vigilia della battaglia di Midway, a Washington erano molto preoccupati per una possibile invasione delle coste americane da parte di una forza di spedizione giapponese; tuttavia Nimitz aveva fiducia negli uomini al suo comando e decise, con una certa libertà e senza tenere conto dei timori di Washington, che l’obiettivo sul quale concentrarsi e al quale destinare le forze disponibili era Midway.
Un altro episodio è rivelatore dei diversi rapporti tra gradi superiori e subordinati: a bordo dell’Enterprise, il 5 giugno (il giorno dopo l’affondamento delle portaerei giapponesi), l’ufficiale addetto preparò un piano di volo per gli aerei disponibili; a un pilota il piano sembrava sbagliato e andò a dirlo all’ufficiale, il quale ribadì il suo ordine. Allora il pilota andò a consultare il caposquadriglia, ferito e in infermeria; questi vide che il pilota aveva ragione, si alzò anche se ferito e si mise a rapporto direttamente dal comandante, l’Ammiraglio Spruance, sostenendo in sua presenza il confronto con l’ufficiale che aveva redatto il piano. Sostanzialmente il caposquadriglia chiese all’ufficiale se avesse mai pilotato un aereo di quel tipo in condizioni operative e con quell’armamento, e l’ufficiale dovette ammettere di no. A questo punto l’Ammiraglio Spruance dette ragione ai piloti e chiese che il piano fosse cambiato. L’ufficiale addetto al volo, umiliato e offeso, si ritirò nella sua cabina, dove poco dopo andò a richiamarlo un subalterno; ma non si dimise e non si suicidò.
In Germania, invece, il potere era totalmente accentrato nelle mani di Hitler, che aveva l’ultima parola sempre su tutto, anche sulle cose delle quali si intendeva poco (tanto per dirne una a lui, che era un fanatico delle statistiche e dei dati quantitativi, non ci fu mai modo di far accettare l’idea che un carro armato in condizioni operative, cioè sul campo di battaglia, consuma molto di più che lo stesso carro armato in spostamenti ordinari).
In Giappone, infine, il potere era amministrato dai gruppi al vertice in continua contesa tra loro e non c’era un livello che potesse fare da supervisione e da sintesi fra di essi; l’interesse della nazione non era presidiato da nessuno, né dall’Imperatore né dal capo del Governo. Un episodio come quello avvenuto sull’Enterprise, nel quale il comandante accettò pubblicamente il punto di vista di un subordinato e impose il cambio di piano a un superiore di quest’ultimo, era semplicemente impensabile nella Marina Imperiale Giapponese. Non c’erano margini di manovra, i subalterni (ma anche i pari grado) non avevano alcuna possibilità di esprimersi e di dare suggerimenti (che a volte avrebbero potuto essere preziosi, perfino vitali). E nessuno dei livelli più alti pagava mai per i propri errori.
Per esempio il piano dell’Ammiraglio Yamamoto era sbagliato. I difetti più evidenti erano il teatro di operazioni troppo vasto, scelto perché, oltre all’operazione “MI” (Midway) in senso stretto, lo stratega si era fatto inviluppare (sempre per colpa delle fazioni che non smettevano mai di perseguire i propri interessi di parte) in un’espansione verso Sud dalla quale era uscita la battaglia del Mar dei Coralli (erroneamente considerata una propria vittoria dai giapponesi) e in un’operazione verso Nord (l’operazione “AL”, l’attacco contro le Isole Aleutine) che disperdevano le sue forze invece di concentrarle come necessario. Dell’idea sbagliata di Yamamoto sui suoi avversari abbiamo detto; l’altro errore fondamentale, che si dimostrò irrecuperabile, fu un piano di ricognizione assolutamente inadeguato e, oltretutto, lasciato incompleto in forza di fattori contingenti ma, soprattutto, della trascuratezza con la quale venivano trattati questi “dettagli” mentre l’enfasi era tutta sull’offensiva e sulle forze di attacco. Questi difetti erano chiari a diversi membri dello Stato Maggiore, ma nessuno osò avanzare critiche, nemmeno dopo i disastrosi war-games del maggio 1942. Parshall e Tully chiamano questo atteggiamento rispetto ai piani che venivano dall’alto “plan inertia”, cioè una sorta di “inerzia” per cui un piano, una volta passato nella catena di comando, non poteva più essere toccato. Ma l’inerzia, ovviamente, non stava nel piano, ma nella cultura sottostante. Nessuno dei più diretti responsabili, i capi supremi Yamamoto e Nagumo, subì alcuna conseguenza per il disastro; invece i marinai e gli aviatori di basso rango superstiti furono trattati con discredito e con disprezzo perché “avevano perso la battaglia”. Furono dispersi nelle più lontane guarnigioni del Sud Pacifico, i feriti furono ricoverati in reparti speciali degli ospedali militari e furono isolati dal mondo perché nessuna informazione trapelasse. Una grande differenza rispetto a come la popolazione inglese accolse i superstiti di Dunkerque, sconfitti e salvati dalla sacca nel 1940: neanche loro si aspettavano di essere accolti come eroi.
A proposito di questo va sottolineato un altro risvolto della cultura giapponese, anche mettendo da parte l’estremismo del codice (cosiddetto) d’onore sposato dagli alti gradi militari: quello che oggi chiameremmo la manifestazione di una “shame culture”, una “cultura della vergogna”. Secondo il dizionario di psicologia dell’APA (American Psychological Association) la shame culture è una “tendenza o un principio organizzativo in una società caratterizzata da un forte desiderio di preservare l’onore e di evitare la vergogna” [21].
Insomma in Giappone, almeno allora, la cosa più importante sembra non fosse ottenere risultati per il bene collettivo, ma evitare di perdere la faccia in pubblico; era meglio la morte.

Husband Edward Kimmel, il capro espiatorio di Pearl Harbor.
Per esempio la notizia della disfatta a Midway fu all’inizio nascosta anche all’Imperatore, oltre che al capo del Governo (il già citato Generale Tojo); e il Bushido prevedeva anche il suicidio rituale (seppuku) se non si era potuta evitare la vergogna (era l’unico modo per riscattarla). Come ho detto, degli alti gradi della Marina Imperiale nessuno pagò le conseguenze per la sconfitta di Midway e per i catastrofici errori commessi [22]; però dei sei ammiragli che furono coinvolti nello scontro principale almeno tre scelsero volontariamente di inabissarsi con la loro nave [23]. Né Nagumo né Yamamoto persero il loro grado o il loro comando. Al contrario, per esempio, l’Ammiraglio Husband Edward Kimmel, che comandava la Flotta del Pacifico a Pearl Harbour, fu rimosso dal comando e subì un’inchiesta; nel 1999 il Senato USA votò per reintegrarlo nel grado, ma il Presidente Clinton non dette seguito alla decisone [24].
6 * Culture e sconfitte: perché a Midway nel 1942 andò così
La battaglia di Midway è un evento storico complesso che va trattato rispettando la sua complessità. Dunque è vano cercare “una causa” per i suoi accadimenti; i fattori che hanno influito sono tanti (non ultimo il puro e semplice caso) ed eleggerne uno a determinante assoluto sarebbe arbitrario.
Però tra questi fattori la cultura c’è e ha avuto un grosso peso.
La mentalità feudale, la shame culture ad essa connaturata e l’interpretazione estrema del Bushido che sembra dominasse negli alti gradi delle Forze Armate giapponesi hanno senz’altro influito molto.
Un piano di battaglia era sacro anche quando era palesemente sbagliato, l’attacco andava privilegiato ad ogni costo rispetto alla difesa, i processi decisionali erano pesantemente condizionati da una mentalità nella quale ciò che contava non erano le competenze e i risultati (cioè il merito) ma l’appartenenza e la posizione. Non si poteva andare molto lontano con queste idee.
I più volte citati Parshall e Tully non fanno mai riferimento al feudalesimo e alla cultura feudale, però toccano spesso il tema dei fattori culturali che intervennero nella battaglia. Notano, innanzitutto, che durante il combattimento i soldati possono fare solo ciò che sono addestrati a fare: lo stress è estremo, i tempi sempre strettissimi e la vita in gioco, dunque non c’è tempo di pensare, si attuano fondamentalmente automatismi, e questi sono influenzati pesantemente dall’inconscio e dalla cultura.
Uno degli aspetti più egregi del lavoro dei due autori è ampliare il ventaglio delle domande “perché”: il piano di Yamamoto era sbagliato, ma perché lo era?
I piani di ricognizione giapponesi erano miseri, assolutamente insufficienti, ma perché lo erano? E così via.
Diciamo che, con questo lavoro, il mio contributo a una ancora maggiore comprensione di questo evento storico potrebbe consistere nell’aver ulteriormente ampliato il ventaglio dei “perché”: perché Generali e Ammiragli si comportavano nei modi che loro descrivono così dettagliatamente?
Perché, alla fine, il principio che restava più rilevante del codice d’onore dei samurai era soprattutto la prescrizione che la cosa più importante era morire bene?
Perché i giapponesi mostravano tante difficoltà a imparare dai loro errori [25]?
A pagina 415 vengono prese delle posizioni rispetto a questi aspetti. Per esempio si qualifica la mentalità dominante nella Marina Imperiale Giapponese come “the most parochial”. La parola inglese si può tradurre con l’italiana “parrocchiale”, ma questa non rende il senso, che significa piuttosto “provinciale”, “ristretta”; io aggiungerei “feudale”. E vale la pena di citare estesamente il passaggio finale [26]:
A dispetto dell’incredibile velocità con la quale avevano modernizzato le loro forze combattenti dopo il 1848, essi erano ancora legati a modelli di pensiero provenienti da una precedente epoca militare e culturale, come anche alla distorta eredità di Tsushima. Come analisi finale, non è esagerato dire che il conflitto innescato dai giapponesi nel 1941 non era solo al di là delle loro risorse, ma anche oltre la loro capacità di comprensione.
Per questo gli autori arrivano alla conclusione (corretta, secondo me, si veda pagina 402) che i Giapponesi, anche se avessero cambiato i loro comandanti, alla fine sarebbero rimasti ugualmente intrappolati nei loro modelli di pensiero, cioè nella loro cultura.
E’ interessante anche la citazione che viene fatta nel libro (pagina 413) del Maresciallo di campo inglese William Slim. che era stato sconfitto e cacciato da Burma nel 1942 ma era tornato vittorioso nel 1944. Il Maresciallo Slim, rispetto allo spirito dei militari di alto grado giapponesi, parla di mancanza di “coraggio morale” per l’impossibilità non solo di ammettere errori ma anche di modificare i piani una volta che erano emanati. A proposito di questa osservazione, Parshall e Tully si spingono a ipotizzare una possibile motivazione molto “occidentale”: trasmettere ai subordinati piani sbagliati consentiva a chi li trasmetteva di autoassolversi. Secondo me quella “mancanza di coraggio morale” non è che la manifestazione di una cultura feudale estremamente radicata.
Abbiamo detto che Parshall e Tully non citano il Bushido tra i fattori culturali dei quali parlano; però parlano di Sun Tzu e dell’influenza delle sue opere [27] sui comandanti.
Per esempio pare che l’Ammiraglio Yamamoto lo prendesse molto sul serio, e alla sua influenza viene fatta risalire quella che sembra una caratteristica tipica dei piani giapponesi: la complessità, la forte tendenza all’intreccio delle operazioni, la dissimulazione e la preferenza per le tattiche indirette e basate sull’inganno. E anche questo è, sicuramente, un aspetto culturale.
Dunque il Giappone, a Midway, è stato sconfitto dalla propria cultura?
Questo non lo si può affermare, anche se sicuramente la cultura ha influito e non in modo secondario.
Tra l’altro è interessante il piccolo esercizio di “storia controfattuale” nel quale Parshall e Tully si impegnano chiedendosi cosa sarebbe successo se il Giappone avesse vinto la battaglia di Midway: avrebbe vinto la guerra?
La risposta è decisamente un “no”: altri fattori avrebbero col tempo preso il sopravvento, per esempio lo sterminato potenziale produttivo degli Stati Uniti, insieme alla volontà di resistere del popolo americano. Tuttavia la loro conclusione è che Midway, con il suo esito, fece risparmiare agli americani 18 mesi di tempo nel percorso verso le loro vittorie; e direi che non è poco.
La storia del XX secolo ci ha insegnato che i casi dell’agire umano sono talmente tanti che possono verificarsi circostanze nelle quali si apprendono facilmente e velocemente delle tecniche e dei processi produttivi; tuttavia la cultura con la quale questi vengono gestiti cambia solo in tempi lunghi, molto lunghi, e se non c’è coerenza fra sistemi produttivi e cultura si possono creare drammi sociali e tragedie.
E’ il problema di questa epoca: tutto sembra procedere a velocità vertiginosa, ma il come accelerare il cambiamento culturale nelle società attuali non l’abbiamo ancora imparato. Probabilmente è lì che dovremmo concentrare le nostre energie e i nostri sforzi: capire come fanno gli esseri umani a cambiare, se e come è possibile facilitare questi processi e se e come è possibile accelerarli. E’ un aspetto sul quale potrebbe giocarsi il futuro dell’umanità.
Note
[1] Tuttavia sono anche convinto che, almeno nella storia umana che conosciamo, la pace e la guerra sono dei RAPPORTI, si è sempre almeno coinvolti in due, e di solito c’è uno che attacca e uno che viene attaccato. Quindi credo che la pace vada cercata nel coltivare buone relazioni e rapporti di buon vicinato, non nel disarmo unilaterale.
[2] Il Tenente Winters (https://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Winters) comandava la compagnia easy (cioè “E”) del 2° Battaglione, 506° Reggimento della 101a Divisione paracadutisti (le cosiddette “aquile urlanti” per la testa d’aquila che caratterizzava le mostrine divisionali). L’azione qui richiamata si svolse contro il castello di Brécourt, presso il quale era stata posizionata la batteria tedesca; con circa 20 uomini, parte suoi e parte di un’altra compagnia, e a prezzo di minime perdite, Winters annientò una compagnia tedesca di 60 uomini la quale, verso la fine, aveva anche ricevuto rinforzi. Nel 2001 la HBO (casa di produzione americana) realizzò, a partire dall’omonimo libro dello storico e scrittore Stephen E. Ambrose basato anche su testimonianze dirette dei reduci, la mini-serie televisiva in 10 puntate “Band of brothers”, nella quale il personaggio del tenente Winters (poi capitano e infine maggiore) è un protagonista e al quale viene dato ampio risalto. Nel 2003 la serie fu trasmessa anche dalla televisione italiana con lo stesso titolo originale accoppiato con la traduzione italiana (“Band of brothers – Fratelli al fronte”).
[3] Prange, Gordon W., con Donald Goldstein e Katherine Dillon, Miracle at Midway, 1982, New York, McGraw-Hill; Lord, Walter, Incredible victory, 1967, New York, HarperCollins.
[4] Jonathan Parshall e Anthony Tully, Shattered sword, 2005, Williamsport (USA-MD) Potomac Book Company, Inc. Il significato letterale del titolo è “spada frantumata”.
[5] Non conosco i dettagli, ho solo letto da qualche parte che vennero usate pinne di legno per poter raggiungere il risultato.
[6] Fonte Enciclopedia Britannica, https://www.britannica.com/story/casualties-from-the-battle-of-midway.
[7] E’ il nome che si dava alla benzina per l’aviazione la quale, dovendo fornire alte prestazioni, aveva una percentuale di ottani superiore a quella normale ed era molto più infiammabile. Le portaerei non erano solo sistemi d’arma micidiali capaci di portare l’offensiva a grandi distanze e di colpire senza neanche essere avvistati; erano anche delle grandi bombe pronte a esplodere in ogni momento.
[8] La Lexington fu colpita da 2 bombe e da 2 siluri ma non rischiò immediatamente l’affondamento; i danni irreparabili le derivarono da due enormi esplosioni successive innescatesi al suo interno per effetto dei colpi ricevuti.
[9] Per questo, rispetto al destino degli aerosiluranti americani, la parola più usata per descriverlo è “sacrificio”: gli equipaggi degli aerosiluranti si sacrificarono davvero tentando di usare le proprie armi.
[10] Per l’esattezza erano biplani (!) Fairey Swordfish; per i dettagli: https://it.wikipedia.org/wiki/Fairey_Swordfish. Gli aerei colpirono la Bismarck con due siluri ma il primo, a centro nave, non ebbe praticamente conseguenze data la poderosa corazzatura; fu il secondo, che colpì a poppa danneggiando il meccanismo di controllo del timone, a rendere ingovernabile la nave. Non essendo il danno riparabile, la nave derivò finché le forze di superficie inglesi arrivarono e la affondarono; era il 27 maggio 1941.
[11] I nomi giapponesi li trascriviamo all’occidentale, prima il nome proprio e poi quello della famiglia (per noi il cognome). I giapponesi direbbero “Yamamoto Isoroku“, invece di Isoroku Yamamoto.
[12] Parshall e Tully, Shattered sword, citato.
[13] In effetti si usa diffusamente anche oggi qualcosa di simile, sia pure con nomi diversi, nella formazione manageriale: si disegnano scenari ipotetici ma coerenti con i problemi dell’organizzazione allo studio, si definiscono dei ruoli e li si fanno interpretare dai formandi. Dalle dinamiche che si innescano si possono trarre indicazioni e apprendimenti.
[14] La Akagi, la Kaga e la Soryu.
[15] Parshall e Tully, Shattered sword, citato, in particolare il Capitolo 5, pagine 76-77.
[16] Bernard Millot, La Guerra del Pacifico 1941-1945, (1968) 2002, Milano, RCS Libri SpA.
[17] Inazo Nitobe, Bushido – L’anima del Giappone, 2021, Firenze, Giunti. Questa edizione della Giunti è una delle tantissime in circolazione perché una prima edizione del libro è stata pubblicata alla fine dell’Ottocento e una seconda, ampliata, nel 1905. Il testo non sembra aver subito ulteriori modifiche da quelle del 1905. Del Bushido si può avere una vaga idea (anche se più vivida) nella filmografia, per esempio quella relativa all’episodio dei 47 ronin (https://en.wikipedia.org/wiki/Forty- seven_rōnin): nel 1942 apparve una versione (I leali 47 ronin) in due parti diretta da Kenji Mizoguchi; nel 1958 ne uscì una versione a colori con lo stesso titolo diretta da Kunio Watanabe; del 2013 è la versione hollywoodiana (Universal Picture) diretta da Carl Rinsch e con Keanu Reeves come star. Qualche riferimento si trova anche ne “L’ultimo samurai” (The last Samurai, diretto da Edward Zwick nel 2003 e interpretato da Tom Cruise), che non pare abbia qualcosa a che vedere con l’omonimo film del 1967 diretto da Masaki Kobayashi e con Toshiro Mifune (https://it.wikipedia.org/wiki/L%27ultimo_samurai_(film_1967)).
[18] Si veda, per esempio, https://www.google.it/books/edition/Bushido_L_anima_del_Giappone/dt9GEAAAQBAJ? hl=it&gbpv=1&pg=PP3&printsec=frontcover.
[19] Winston Churchill, La seconda guerra mondiale, 1948-1953, Milano, Mondadori, 12 volumi. Altre edizioni esistono, compresa una economica negli Oscar Mondadori (la prima del 1970). Nelle “Churchill’s war rooms”, le stanze dalle quali si diresse la guerra e che si trovano in sotterranei sotto Downing Street, a Londra, ora trasformate in museo, proprio all’ingresso c’è la stanza nella quale si riuniva il gabinetto di guerra e un pannello esplicativo riporta che, durante le riunioni, Churchill si comportava in modo molto poco “inglese”, per esempio urlando. Tuttavia, alla fine, se i presenti resistevano, si adeguava sempre alle loro indicazioni.
[20] Carl von Clausewitz, Della guerra, 2007, Torino, Einaudi. Ovviamente ne esistono molte altre edizioni.
[21] Si veda https://dictionary.apa.org/shame-culture. La traduzione dall’inglese è mia.
[22] L’Ammiraglio Nagumo fu solo momentaneamente rimosso dal comando, per decisione di Yamamoto, alla fine della battaglia, ma non subì altre conseguenze come perdita di grado o arresto di carriera.
[23] Erano i 4 comandanti (i “capitani”) delle portaerei: Akagi = Toijiro Aoki, fu distolto dall’affondare con la nave dall’ordine di un suo pari grado più anziano (ma portò per tutta la vita il rimorso e il marchio di essere l’unico comandante di portaerei sopravvisuto a Midway); Kaga = Jisaku Okada, rimasto ucciso al momento dell’attacco americano perché una bomba divelse l’ascensore di prora e lo scagliò contro la plancia; Soryu = Ryusaku Yanagimoto, visto fugacemente da un superstite mentre la nave bruciava, con l’aria incredibilmente serena, e poi scomparso senza fare alcun tentativo per mettersi in salvo; Hiryu = Tomeo Kaku, rimasto volontariamente a bordo fino all’affondamento della nave insieme a Yamaguchi. Poi il comandante della 2a Divisione Portaerei Tamon Yamaguchi, che si inabissò volontariamente insieme all’Ammiraglio Kaku. Infine il comandante della 1a Divisione portaerei e comandante in capo della Forza Mobile, Chuichi Nagumo. Nagumo morì anche lui di propria mano, ma solo alla fine della guerra (7 luglio 1944) a seguito della caduta di Saipan (Isole Marianne), che era sotto il suo comando.
[24] Si veda, per esempio, https://en.wikipedia.org/wiki/Husband_E._Kimmel.
[25] Questo punto è toccato più volte nel loro libro.
[26] Parshall e Tully, Shattered sword, citato, Pagina 415 (la traduzione dall’inglese è mia).
[27] Si veda Pag. 409. Sun Tzu è un personaggio, non sappiamo quanto leggendario, del V secolo A.C., nato in Cina. Ci è arrivato un suo libro (ma forse è un’opera collettiva di filosofi dell’epoca), L’arte della guerra, che è stato stampato in moltissime edizioni, per esempio 2013, Milano, Feltrinelli Editore.