Numero 76 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Il più grande furto della storia repubblicana

 

di Walter Zanuzzi

 

Ho riflettuto a lungo sul titolo da dare a questo articolo e poiché non sono un provocatore, né un cronista mi sembrava all’inizio un po’ forte. Ma poi, dopo tutte le riflessioni, considerazioni ed analisi fatte, anche a freddo, non ho trovato altra espressione per descrivere  il contenuto di questi miei pensieri. Lascio quindi al lettore giudicare se il titolo è rappresentativo, o meno, di ciò che di seguito descrivo.

La storia inizia molti anni fa, quando l’allora governo Dini introdusse per la prima volta il cosiddetto metodo contributivo nel calcolo delle pensioni. Fu una prima e parziale introduzione metodologica in quanto interessò solo coloro che alla data del 31/12/1995 avevano maturato meno di 18 anni di contributi. Per costoro, e per tutti coloro che iniziavano a lavorare dall’anno successivo si stabilì che dal 1/1/1996 la loro pensione sarebbe stata calcolata con il metodo contributivo. In altri termini avrebbero percepito, da quella data, un importo proporzionale ai contributi versati e non più, come precedentemente fatto un importo proporzionale alla retribuzione (in linea di massima si poteva considerare un 2% per ogni anno lavorato e percepire quindi dopo 40 anni di contributi un importo pensionistico pari all’80% circa della retribuzione). Ora non mi inoltro in dettagli e/o tecnicismi, sia perché non sono un esperto di previdenza, sia perché lo scopo di queste mie riflessioni, pur basate sulle metodologie prescelte dai vari governi ed attualmente in vigore, non è quello di entrare nelle maglie dei tecnicismi ma di affrontare nella sostanza un problema a mio modesto avviso importante.

 

 

Non me ne vogliano quindi tutti gli esperti e gli studiosi di previdenza e perdonino eventuali inesattezze su dettagli.

Non entro neanche nella valutazione di merito del metodo contributivo, non voglio fare confronti o esprimere giudizi rispetto al metodo retributivo precedentemente applicato. Accetto laicamente che sia un metodo condivisibile e, al momento, per una serie di motivi l’unico applicabile.  Ovvero accetto il principio secondo il quale un lavoratore possa e debba (in quanto obbligato a farlo per legge al fine di garantirgli un reddito quando smetterà di lavorare) accantonare una parte del suo reddito per garantirsi una prestazione previdenziale quando smetterà di lavorare. Ma qui inizia l’analisi che mi ha portato a scrivere queste righe e ad intitolare l’articolo con una espressione “forte”.

Per consentire a tutti di seguire le mie riflessioni devo aggiungere ancora qualche elemento tecnico. Il metodo contributivo, che è stato recentemente esteso a tutti i lavoratori e quindi lo possiamo prendere ad esempio universale per il futuro del calcolo degli importi pensionistici di tutti i lavoratori italiani prevede, in estrema sintesi che il lavoratore versi all’istituto di previdenza (es. INPS) una percentuale del suo imponibile previdenziale che oggi, per semplicità, diciamo che è intorno al 33%. In realtà, se consideriamo anche le altre voci sulle quali si basa il nostro sistema  (disoccupazione, garanzia TFR, CUAF, CIG ordinaria, CIG straordinaria, mobilità, malattia, maternità) la percentuale da versare oscilla tra il 36,15% ed il 45,07% (si veda a titolo di esempio tabella INPS 2012  1.6 industria edile). Tale sistema prevede quindi che al maturare del diritto di quiescenza  – attualmente stabilito al raggiungimento dei 66 anni e 3 mesi di età per gli uomini,  il lavoratore possa  richiedere la pensione.  Anche in questo caso ometto considerazioni sull’età o sul numero di anni di contributi da maturare per aver diritto alla pensione ma voglio soffermarmi sempre sul metodo di calcolo e sulle conclusioni di tipo economico che tale sistema determina. Tralascio quindi, per semplicità di calcolo ma anche per analizzare le conseguenze sulle future generazioni il calcolo delle pensioni fatto con il vecchio sistema retributivo, o con il sistema cosiddetto “misto”, non più in vigore per chi inizia oggi a lavorare.

Partiamo quindi da zero ed ipotizziamo un giovane che entra oggi nel mondo del lavoro, vuoi come lavoratore dipendente, vuoi come libero professionista (le aliquote tendono ad uniformarsi e quindi saranno pressoché simili in futuro). Ipotizziamo anche un reddito annuo di 30.000,00 euro per il quale si versano circa 9.900,00 euro annui all’Istituto Previdenziale (parte a carico azienda + parte a carico lavoratore).  Se ipotizziamo che il lavoratore inizia a lavorare a 20 anni ed aspetta il requisito di vecchiaia per andare in pensione (oggi 66 anni) significa che verserà all’Istituto previdenziale, senza considerare le rivalutazioni monetarie, gli aumenti di stipendio, etc. qualcosa come 455.400,00 euro (9.900,00 euro annui x 46 anni). Come vedete avrà accantonato, del suo reddito,  un importo significativo.

Ultimo passaggio. Il nostro sistema previdenziale (metodo contributivo) prevede quindi che al lavoratore che maturi il diritto alla pensione (dai 66 anni e 3 mesi minimo) venga corrisposto un assegno (un importo) pari ad una percentuale variabile tra il 5,624% applicato ai 66 anni ed il 6,541% applicato ai 70 anni di età del capitale accantonato. Nel nostro esempio, a 66 anni il lavoratore maturerebbe una pensione di 25.611,00 euro lordi. Al netto delle tasse pagate in ipotesi nel Lazio(Irpef, add. Reg, add. Com, etc.) significa circa  18.324,05 (ovvero 1.409,54 euro al mese x 13).

Ora poiché la vita media degli italiani rilevata dall’Istat nel 2011 è stata di 78,8 per i maschi e 84,9 per le femmine, significa che nel caso dei maschi la durata media del percepimento della pensione sarà di 12,8 anni (78,8 – 66) e nel caso delle femmine sarà di 18,9 (84,9 – 66). Calcolando l’assegno mensile di 1.409,54 euro significa che il cittadino medio maschio riceverà indietro 234.547,84 e la cittadina media femmina riceverà indietro 346.324,54 a fronte di 455.400,00 versati.

Questo è il punto. Nella migliore delle ipotesi il cittadino riceverà indietro un importo che oscilla tra il 51,50% (uomini) ed il 76,04% (donne) del denaro da lui stesso guadagnato ed accantonato e, in questo caso, trattandosi di soldi privati è lecito che i cittadini si chiedano: che fine hanno fatto i miei soldi?

E’ certamente difficile rispondere a questa domanda, ma anche solo addentrarsi nei dettagli tecnici, attuariali, matematici di questi calcoli ma credo onestamente che non ce ne sia bisogno. Non rincorriamo per l’ennesima volta tecnicismi spesso inutili, i calcoli, alla luce di un più approfondito esame potrebbero anche cambiare, ma il problema esiste. Il differenziale tra quanto versato e quanto si possa avere speranza di ricevere indietro dei propri soldi c’è tutto. E allora perché non considerare la possibilità di risolvere alla radice tale problematica? Se abbiamo superato (“ob torto collo” per molti) perché non più sostenibile il metodo retributivo, ovvero la possibilità di remunerare le pensioni  in una percentuale sulla retribuzione percepita a prescindere dai contributi versati, ed abbiamo condiviso un nuovo metodo, ovvero di restituire ai cittadini quanto da loro versato, facciamolo fino in fondo. Lasciamo l’obbligo di versare i contributi (per garantire una vita dignitosa al cittadino quando smetterà di lavorare) ma accettiamo l’idea che lo stesso cittadino possa rientrare pienamente nel possesso dei suoi soldi, ovvero possa riprendere il suo capitale, magari al netto di una piccola quota che possa andare a finanziare le esigenze dei più bisognosi. Sarebbe, a mio modesto avviso, non solo una risposta equa ad una esigenza oggettiva, ma un segnale di trasparenza della pubblica amministrazione che ha tutto da guadagnare nel recuperare un rapporto serio e costruttivo con i suoi cittadini.

 

 

Walter Zanuzzi: attualmente Amministratore Unico Svi.Va – Sviluppo del Valore Società di Consulenza di Direzione, walterzanuzzi@libero.it

      • Consulente di Direzione per Risorse Umane e Sviluppo Organizzativo
      • Specializzato in processi di Change Management
      • Responsabile del progetto “La valutazione e lo sviluppo del Capitale Intellettuale”
      • Docente di management presso numerose aziende.
      • Conferenziere al Corso “Capitale e Lavoro” presso la Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana di Roma
      • Consulente ABIServizi – Divisione ABIFormazione
      • Consulente e Docente Associazione Italiana Direttori del Personale (AIDP)
      • Docente di management presso il Centro Studi C.I.S.L.
      • Responsabile Rubrica “Appunti di management” di rivista indirizzata alle Alte Professionalità
      • Promotore del Corso di Alta Specializzazione su “La valutazione del Capitale Intellettuale” presso l’Università degli Studi di Padova
      • Socio fondatore del Comitato per la Promozione Etica
      • Consulente nel progetto “ Master in Human Capital Management” presso l’Università degli Studi di Malta – Sede di Roma
      • Docente al Corso di Alta Specializzazione in “Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane” presso l’Università degli Studi LUISS di Roma
      • Docente di management al Banking & Financial Diploma dell’ABI – Percorsi Specialistici – Sviluppo Manageriale