In nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato”

( Pier Paolo Pasolini)

 

 

I luoghi del passato. Quelle piccole cose tenui senza colori. In bianco e nero.

Stradine curve. Case basse. Alberi. Tutto sommesso.

Il ricordo si apre sui rumori. Sull’assenza di rumori. Sulle strane atmosfere d’ovatta.

I suoni sempre lontani. Accorti. Senza echi. Come profumi.

Le risonanze di pomeriggi d’estate accarezzati da insetti nervosi, non invasivi. Non nemici irati.

Le voci scontornate provenienti da chissà dove. Perennemente in richiamo di qualcuno.

Perdutesi nel calore di polvere di strade ancora non asfaltate. Vie senza rimbombi. Senza nomi.

La via del fontanone. Il vialone alberato. Il posto delle fabbriche.

Esseri solitari. Risate colme di odori.

E passi tintinnanti zoccoli di legno ancora bagnati di mare.

 

Adoro le video cassette.

Adoro pensare a ciò che hanno rappresentato per me. Manna caduta dal cielo sulla terra per nutrire corpi affamati di cinefili.

I vhs furono come i 33 giri per gli spietati cultori della musica.

Il vinile mise in scena lo spettacolo sonoro della vita. Gesti semplici, sempre uguali:

la nera ruota estratta dalla copertina, posta sul piatto del giradischi, la puntina adagiata sul solco.

Il fruscio, sì quel fruscio che i perfezionisti del suono, come quelli dell’immagine, trovano disdicevole. Come se il mondo fosse privo di impurità, di imperfezioni, di disabilità.

Come se soltanto nella purezza ci fosse vita.

Significava agire, usare l’ insostituibile pollice opponibile, scegliere…quasi eseguire.

Deutsche Grammophon, etichetta gialla, scritta delimitata da una cornice nera.

Beethoven, Brahms, Mahler, Schubert e le più grandi e prestigiose orchestre.

Per alcuni non c’era altro. Così per i cultori della musica jazz nulla valeva un Blue Note introvabile, ordinato al rivenditore di fiducia.

Gli inediti di Charlie Parker. Alcune improvvisazioni registrate segretamente per ascoltarle in solitudine. Dopo anni le bobine ritrovate furono riversate su vinile.

Il grammofono Pioneer in funzione, un libro, una sigaretta accesa e tutto il tempo del mondo davanti agli occhi. Il pick-up ripetutamente adagiato sul disco con un movimento lieve e soffuso della mano.

Pomeriggi leggeri, a volte evanescenti. Notti interminabili, insonni.

Pochi amici riunitisi dopo cena, un bicchiere di whisky tra le dita, senza parlare, chiudere gli occhi per ascoltare, la stanza pregna di fumo.

Gauloises Papier Mais, sontuose e spesse. Fumate da scrittori, poeti, pittori e giovani fannulloni con la testa piena di idee e di rivoluzioni. Rarità di pacchetti di Davidoff dorate.

Ostentati doni di amici di ritorno da un viaggio in aereo.

I fumatori di pipa, con le loro pipe di radica color Tiziano scuro. Lenti, abituati ad un rituale complesso ma necessario. Il fornello battuto sul posacenere per espellere il tabacco residuo, pulirlo poi con un raschiapipe, piccolo strumento a tre elementi, infine con lo scovolino alleggerire il cannello. Brebbia, Non canta la Raganella, Savinelli, curve e grosse Peterson, bellissime e costose Dunhill, sottili ed eleganti Comoy’s riempite di trinciati direttamente dalle buste o dalla borsa per il tabacco in pelle, consolidato regalo insieme all’accendino “antivento” Zippo dalla forma perfettamente rettangolare, rassicurante lucore, e alla rossa scatola di Dunhill Standard Mixture Medium.

I più rivoluzionari, oltre a portare nelle tasche eterni residui di tabacco di sigarette Nazionali senza filtro che avevano la prerogativa di alleggerirsi e svuotarsi completamente del contenuto, ostentavano mezzi toscani dal profumo acuto e, in momenti perfettamente felici, un Montecristo o un Romeo y Julieta.

Era necessario prendere tra pollice ed indice il sigaro, rigirarlo leggermente fra le dita per ammorbidirlo, ammansirlo, addolcirlo.

Un morso o una piccola ghigliottina o infine una forbice per trinciarne la punta, prima di annusarne il flavour e metterlo fra le labbra. Una volta in bocca lunghe sorsate d’aria per accenderlo. Forti tirate, sbuffando perché il fuoco potesse infiammare il tabacco secco.

Profumo forte, che riempiva i polmoni e il cervello.

Fumare era un rito, non una mera necessità. Cartine Rizla azzurre o rosse e macchinette per arrotolare sigarette fatte a mano o spinelli. Fumo profumato, fumo intrigante di cannabis.

La mano sinistra teneva la cartina, la destra addestrata metteva il tabacco estratto dalla busta insieme all’erba stendendolo in verticale, poi c’era il salto mortale: arrotolare e dare una leccatina lieve per chiudere. Ne veniva fuori una brutta copia di una qualsiasi sigaretta, uno spinello o un cannone. Quando la fumavi il sapore era molto convincente, assomigliava alle nostre preziose Nazionali senza filtro, ma con un sottofondo dolciastro.

Mai nessuno che si lamentasse del fumo passivo.

 

La videoteca a differenza della discoteca era un affare più intimo, per pochi amici, per serate solitarie.

La visione di un film in cassetta era un’attitudine più privata, personale.

Necessitava di altri rituali.

Informarsi di ciò che la televisione propinava, cercare il titolo imperdibile, vecchi film mai visti che Fuori Orario e il suo curatore Enrico Ghezzi offrivano.

La morte corre sul fiume, Il ragazzo dai capelli verdi, L’arpa birmana, Rashomon, L’occhio del diavolo, Sorrisi di una notte di estate.

Una volta registrata la cassetta doveva essere etichettata, numerata e messa a riposo nello scaffale.

I dvd come i cd sono piccole cose, non prendono spazio. Asettiche, poca polvere, per usarle bastono due dita, quasi fatte per non sporcarsi, per non entrarci dentro, per non esplorarle e farsi coinvolgere. Oggetti che vivono nel presente, senza ambizione, senza visione del futuro.

Guardando attentamente il contenuto di una vecchia cassetta senza titoli di riferimento mi sono trovata davanti una immagine di un nero profondo, cupo e luminosissimo.

Un nome conosciuto e dimenticato: Robert Flaherty, documentarista e regista americano.

Un titolo: L’uomo di Aran.

Insieme al “ Sale della terra” di Herbert J. Biberman, mitico film socialista mai visto, noto solo a cinefili ormai arrugginiti e a vecchi intellettuali, L’uomo di Aran è una rarità.

Un capolavoro assoluto. Un esempio palpabile di come i Primi Grandi Costruttori di quest’arte abbiano seminato in terreno fertile.

Le isole Aran sono uno dei luoghi più affascinanti d’Irlanda e uno delle mete preferite dai turisti”

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L’elemento più affascinante delle Aran è sicuramente il paesaggio: brullo, interamente ricoperto di pietra e suddiviso in tanti piccoli terreni contornati da muretti a secco; cupo e silenzioso nelle giornate di tempesta, caldo sulle spiagge nelle assolate giornate d’agosto, spaventoso e maestoso nelle scogliere che si affacciano sull’Oceano Atlantico”.

Il film -documentario, girato nel 1934, ci sottopone bellissime immagini di un mare scontroso, incontenibile: onde alte che graffiano la roccia, schiume biancolatte, infinita distesa di acque salate.

Il mare è il protagonista assoluto della storia con le scogliere e le stratificazioni calcaree del terreno come comprimarie. Le diverse specie animali: uomini, muli, pesci, uccelli fanno solo da comparse, la flora che anima questo spettacolare mondo. Uno strano e claustrofobico Eden senza esseri viventi. Un infernale paradiso, confinato dentro foto in bianco e nero.

Ad Inishmore, inospitale isola ad ovest dell’arcipelago delle Aran, la lotta dell’uomo contro le avversità della natura per gli abitanti dell’isola rappresenta la quotidianità, e la principale fonte di sostentamento è il mare, che in quel luogo, soggetto a ripetute tempeste, incute ancora timore”

(Marco Iafrate)

A Inishmore (Inis Mòr) c’è solo un casolare, una donna, un ragazzo e un uomo. Una vita di quotidiana fatica.

Inesorabile, inesausta fatica di gesti consueti, “strade”di pietra a strapiombo, caccia allo squalo di giorni e giorni per procurarsi il grasso per le lanterne, ceste di alghe trasportate a spalla per coltivare patate. Il sonno accomuna uomini e animali. Un bellissimo setter irlandese rosso mogano e un agnello bianchissimo riposano l’uno accanto all’altro.

L’oceano scrive le regole, pretendendo che l’uomo le rispetti.

C’è in tutto questo arrabattarsi, sfiancarsi, lottare, intimorirsi, perdere, una profonda, soave liricità.

Tutto il film è un piccolo immenso poema in cui la laica religiosità dei gesti, silenziosamente enumerati, scanditi, analizzati, si contrappone alla crudele superba superiorità dei luoghi.

Le riprese in “campo lungo”, in cui gli esseri umani appaiono come piccole, smunte figure al margine estremo della scena; esili forme nere in movimento sotto un enorme, vasto, sconfinato orizzonte poggiato sulle loro spalle, sottolinea la supremazia incontrastata della Natura sull’uomo:

animale della specie homo sapiens sapiens, classe mammiferi, ordine primati, famiglia ominidi, genere homo.