Gli italiani sono anche noti per essere “mammoni”. Questo appellativo nella sua interpretazione positiva è sinonimo di attaccamento alla famiglia. Nel tempo ha fatto quindi crescere la salvaguardia degli affetti e il senso di solidarietà da e verso i membri della famiglia. Tale situazione, beninteso positiva in certe circostanze, non ha però fatto crescere e sviluppare il senso di autonomia, di autostima e di forza di volontà individuale e collettiva. In altri termini fin da bambini la nostra situazione familiare ci ha abituato ad appoggiarci alla mamma quando ci facevamo male, quando un compagno a scuola ci picchiava, quando prendevamo la febbre o l’influenza, etc. Ovvero in tutti i casi di difficoltà c’era la mamma ad occuparsi di noi e dei nostri problemi.

Ebbene questa prassi, a memoria d’uomo caratteristica storica degli italiani, ha generato, tra le altre cose, la cultura dell’assistenza e dell’assistenzialismo, nel senso che quando un segmento di popolazione viene colpito da una difficoltà di qualsivoglia natura (economica, lavorativa, calamità naturale, etc.) la prima, se non unica manifesta esigenza che si esprime è quella di chiedere aiuto (allo stato, al datore di lavoro, a…). In altri termini, come da bambini alla prima difficoltà ci appoggiavamo alla mamma, ora il popolo italiano alla prima difficoltà si appoggia, chiede aiuto a quei soggetti che ricoprono in altra veste il ruolo materno.

Ci è molto distante il concetto del “self made man” di tipo americano, ovvero di “Persona che si è fatta da sé, il cui successo è dovuto esclusivamente alla sua forza di volontà e al suo spirito di sacrificio”, ma anche lo spirito di sacrificio e di abnegazione tipici dei popoli anglosassoni (inglesi e tedeschi).

Ora non voglio fare confronti e paragoni ne idolatrare una caratteristica di un popolo a sfavore di un altro, affermo solo che questa nostra caratteristica ci ha già creato molti problemi e se non evolviamo in questo senso come popolo ne avremo ancora

Il costume nazionale (oserei dire la procedura informale nazionale) in caso di difficoltà prevede di appoggiarsi ad un altro soggetto per risolvere la situazione/problema, a volte peraltro creato da noi stessi e/o dalle nostre incapacità (è il caso tipico di alcuni imprenditori).

Ebbene non entro nel merito etico di questo comportamento, affermo solo che questo non è un comportamento da “adulti”.

Cosa intendo per adulto? Non affiancherei il concetto di adulto, “l’adultità”, nè ad una età anagrafica, né ad un concetto giuridico, ma, come facevano i romani, sono più propenso a considerare “l’adultità” come un concetto di “emancipazione”, di autonomia che può avvenire, a seconda delle circostanze in età differenti. In altre parole ci sono molte persone che, pur avendo compiuto da tempo i famosi 18 anni, a mio modesto avviso non sono ancora adulti. Ed altre persone che, pur avendo un’età inferiore possono considerarsi adulte.

Allora a cosa leghiamo questa “adultità”?

La mia proposta è quella di considerarsi adulti quando si è perfettamente in grado di assumersi delle responsabilità, quando si è perfettamente in grado di sostenersi economicamente, quando si sa ciò che si vuole. In tutti gli altri casi, facciamo finta di essere adulti, ma finché chiediamo soldi allo stato (mamma), finché non ci sosteniamo autonomamente, finché non abbiamo acquisito le competenze per svolgere un’attività (mestiere, attività commerciale o professione), finché non siamo in grado di risolvere autonomamente i nostri problemi, facciamo finta.

Il conseguimento dell’”adultità” dipende naturalmente da molti fattori. Pesano certamente in questo senso le esperienze individuali ma anche la cosiddetta “educazione”.

Ma cosa è l’educazione?

Il significato originale ed etimologico della parola educazione viene dal latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Si intende il processo attraverso il quale l’individuo riceve e impara quelle particolari regole di comportamento che sono condivise nel gruppo familiare e nel più ampio contesto sociale in cui è inserito. Può essere anche definita come l’atto, l’effetto dell’educare o come buona creanza, modo di comportarsi corretto e urbano nei rapporti sociali.

L’idea deriva dalla filosofia platonico-socratica, secondo la quale imparare altro non è che un “ricordare” dalla nostra passata esistenza, e che tale conoscenza deve essere “condotta fuori” da noi tramite la maieutica, letteralmente arte del far partorire, ovvero condurre fuori, e-ducere.

In questo senso l’educare coincide nel guidare e formare qualcuno, specialmente giovani, affidandone e sviluppandone le facoltà intellettuali e le qualità morali. L’educazione va quindi distinta dalla istruzione, intesa come insieme delle tecniche e delle pratiche per mezzo delle quali un individuo viene istruito mediante insegnamento teorico o tecnico-operativo di nozioni di una disciplina, di un’arte, di un’attività. Tuttavia istruzione ed educazione possono fondersi quando l’insegnante cerca di favorire la comprensione autonoma da parte degli allievi, instaurando con loro un dialogo “esplorativo” e stimolando la loro creatività nell’apprendimento.

Nella lingua italiana, il termine educazione è anche sinonimo di corretta condotta, come nell’educazione civile, cioè il rispetto dei doveri e l’esercizio dei diritti. La corretta condotta può essere svolta secondo norme non necessariamente codificate, benché di pressoché generale condivisione, dette di buone maniere, gentilezza, urbanità.

E qui entra in giuoco il ruolo della famiglia.

Cosa c’entra la famiglia in tutto ciò e che senso ha parlare di educazione in un mondo “auto educato”?

A mio modesto avviso non solo ha, ovviamente, senso, ma ha un “enorme” peso nel processo di apprendimento e nella formazione dell’essere umano. Ho l’impressione infatti che i concetti di “famiglia” e di “educazione” siano un po’ desueti, sembrano ai più superati. Si parla spesso infatti di famiglie “allargate” di famiglie “atipiche” oppure non se ne parla proprio più e, in alcuni casi, si migra dalla famiglia intesa in senso tradizionale ai clan, al tribalismo, alle bande.

Per non sembrare desueto anche il mio ragionamento, partiamo proprio da questo. Dalla “sostituzione”. La sostituzione di comunità alternative alla famiglia tradizionale risponde infatti alle medesime esigenze dell’individuo, a quelli che Maslow cita nella sua famosa scala dei bisogni: nella fattispecie risponde ai bisogni sociali, di appartenenza e di stima. Ovvero l’attuale generazione ha ritenuto di poter soddisfare questi bisogni con delle alternative.

I risultati sono spesso diversificati, in certi casi di soddisfazione, in altri no. Ma il punto secondo me non è questo. Il punto vero è nella funzione educativa della famiglia.

La funzione educativa della famiglia infatti non risponde in modo “diretto” ai bisogni dell’individuo. Mi spiego meglio. L’essere umano non manifesta una domanda espressa di “educazione”, non chiede “insegnami a fare le cose in un certo modo”, non chiede “insegnami a comportarmi in un certo modo con la gente”, non chiede “insegnami a ringraziare quando mi fanno un regalo”, non chiede “insegnami a risolvere i miei problemi da solo”. L’educazione infatti non è un bisogno espresso, forse non è neanche un bisogno. E’ più semplicemente una grande opportunità che si presenta in certi casi all’individuo. E’ l’opportunità che offrono, per l’appunto, le famiglie e di cui possono beneficiare tutti coloro che hanno la “fortuna” di crescere nelle “famiglie”.

Ma, per tornare al nostro tema ed alle conclusioni del mio ragionamento, cosa hanno insegnato fino ad oggi le famiglie italiane alla loro prole? Quali valori hanno trasferito: indipendenza, autonomia, sacrificio, forza di volontà, intraprendenza, spirito di iniziativa o, piuttosto, la ricorrenza abituale all’assistenza, al supporto, all’aiuto, ora di questo, ora di quel soggetto, individuo o istituzione? E quale cultura volete che abbia prodotto questo comportamento reiterato nel tempo delle famiglie nelle giovani generazioni?

Ecco, ancora una volta quindi non meravigliamoci se all’estero ci appellano come “mammoni” od anche in patria i nostri giovani vengono definiti “bamboccioni”. Non c’è da stupirsi, semmai da comprenderne le cause e, se riteniamo che tali valori non siano più congrui ad affrontare la realtà ed il futuro, rimuovere le stesse e modificare i comportamenti, a cominciare dall’educazione famigliare che potrebbe privilegiare lo sviluppo di una maggiore autonomia ed indipendenza nelle giovani generazioni liberando così spazi, energie, orizzonti.