A mia nipote

“La pietosa dea Leucotea si posò sulla zattera con l’aspetto di un gabbiano:
portava nel becco un velo e disse a Odisseo di avvolgerselo attorno alle reni
semmai fosse caduto ancora in mare”

“Estasi, annegamento e metamorfosi sono il tratto fondante del mito di Leucotea”
(la Dea Bianca)

Una figura lunga e magra si aggirava sulle rocce di sopra il mare.
Una donna. Scura ombra sottile dai capelli gonfi di vento. Bruni, in un ammasso scomposto di ricci e di onde.  Sedeva, rannicchiata, su di uno scoglio a guardare. Qualcuno di lontano l’additava  parlando di lei. Nessuno sapeva dire chi fosse e cosa facesse. Era sola, serena, silenziosa.
Si accorsero presto che con lei c’era un bambino con in braccio una bambola. Uno strano giocattolo, disse chi lo aveva potuto osservare. Un pupazzo dal viso grassoccio, sensuale, in abiti femminili. La donna dall’incarnato cereo e i capelli nerissimi  stava accovacciata. Il bambino in piedi, giocava. La bambola di pezza si muoveva, si spostava, simile a un  automa.
Era un gruppo particolare nella luce rossa del crepuscolo.
Come sempre avviene nei paesi di villeggiatura, dopo un po’ nessuno ci fece più caso. Non importò più a nessuno. Nessuno più li osservò. Non piaceva quell’aggirarsi lento e senza meta.
Era sgradito, imbarazzante, quasi osceno. La figura bruna continuava ad andare avanti e indietro. Si fermava. Continuava ad andare. Qualcosa la spingeva a guardare lontano verso l’orizzonte, ferma, come priva di vita, per molte ore.
Il bambino non dava segni di noia. Non portava scompiglio. Giocava con quel mostruoso giocattolo. A volte sembrava  eseguire ordini da lui.
Si nutrivano di arance tardive, di olive e di pane. L’uva pareva disturbarli tanto che, se qualcuno gliene offriva, correvano via come  impazziti. Era inquietante.
Alla fine dell’estate ne avevano tutti paura. Non si avvicinavano più. Non offrivano più né uva né pane. Gli occhi di lei, si diceva, potevano pietrificare. E così era avvenuto. Si  erano tutti trasformati in pietre e, rassegnati,  li lasciarono  vivere la loro strana vita sugli scogli.
Presto se ne disinteressarono, aspettando, però, con crudeltà, che venisse  l’inverno e li costringesse a chiedere aiuto e asilo. Allora si sarebbero vendicati delle scortesie ricevute. Se fossero morti in mare nessuno se ne sarebbe adombrato. Erano fuori della loro comprensione, fuori della portata della loro pietà.
Una diversità, una povertà che non chiedeva aiuto, elemosine, compassione.
Gli occhi di lei erano profondi e tristi: guardavano oltre, attraversavano i loro corpi. Dinanzi a lei era come se non ci fosse nulla. Nessun ostacolo.
E l’inverno venne.
Non si videro più sulla scogliera a mare. Tutti credettero che si fossero nascosti nei querceti sulla breve collina, dove la vegetazione fitta e sempre verde dava un possibile riparo. Ma non si scorsero mai fuochi in quei luoghi, né segni di passaggio o di bivacco. Si chiesero per un po’ se fossero andati altrove. E si convinsero, sollevati, che era proprio accaduto questo. Non li videro più. Il piccolo paese spaventato da strani presagi si tranquillizzò. Ricominciò a vivere. Ricominciò a dimenticare.
Fu un inverno molto rigido. Ci furono piogge pesanti e fitte. La terra grigia degli oliveti, le zolle grasse degli agrumeti, la superficie scura dei vigneti si riempirono di umori e di acque che  dilavarono nelle fogne fino al mare. Che divenne del colore della terra. Vi galleggiarono tronchi, radici e corpi di animali annegati. Non  si distinguevano gli uni dagli altri. Le forme contorte delle cose inanimate erano simili a quelle dei corpi che una volta ne avevano posseduta una.
Anche il paese si chiuse in sé.
I pescatori  attendevano un giorno di bonaccia per uscire. Ne ritornavano stanchi senza aver pescato nulla. I negozi erano chiusi per lunghe ore durante il giorno. La vita  era tornata dentro se stessa. Un letargo che era come la morte. Della donna dalla figura snella e dallo sguardo di Medusa non se ne parlava che per brevi cenni. Faceva pensare a una visione dell’estate. Non una cosa reale. Qualcuno si chiese se fosse davvero apparsa. Se davvero l’avessero vista aggirarsi col bambino e quello strano orribile giocattolo che spadroneggiava su di loro.
L’inverno in  un centro così piccolo è paragonabile ad una sospensione della  vita. Eppure accadono molte cose. Piccoli, impercettibili  eventi che scoppiano in una  primavera  precoce. Calda, serena come un neonato atteso, già pronto a respirare, a guardare e sorridere.
Fu in un mattino di Febbraio, raro nel suo splendore, che giunse la primavera con i suoi consueti segnali, improvvisi e lucenti. Il mare cambiò colore, l’aria si fece profumata. Già la sera precedente, fredda ancora, se ne erano visti i primi segni: un tramonto di nuvole rosa come fiori gettati in aria. Le luci della città all’orizzonte vivide e pulite. L’alba di quel giorno  apparve come un infermo rinsavito e coprì la terra mettendo una brezza sul mare placato.
E improvvise si videro delle figure sulla scogliera. Tre ombre contro il cielo. Una nera, allungata, angolosa. Un giovane  e una bambola che andava avanti camminando a scatti.
Erano tornati, si disse il villaggio e di nuovo scoppiò il terrore divenuto più angusto perché irrazionale.
Passò come un brivido tra la gente assorta a rammendar reti, tra gli uomini pronti alla pesca,  tra le donne che iniziavano i lavori. Erano tornati. Ancora e ancora.  Erano lì. Si chiesero dove avessero svernato. Qualcuno più tardi affermò che le grotte lungo la scogliera alta erano state abitate. Si scorgevano resti di fuochi e  bivacchi. Ma era impossibile viverci senza che il mare ti fronteggiasse quasi ogni giorno, lambendo gli accessi alle caverne. Le mareggiate in quei luoghi erano furiose, cattive, piene di schiuma e di ira.
Erano stupefatti e attoniti. E preoccupati per se stessi. Avevano paura senza ragione.
Il bambolotto vestito da donna sembrava più abile nel muoversi, come se il meccanismo a molla che gli permetteva di andare e gesticolare fosse stato  oleato e rimesso a nuovo. Lo si vedeva, a guida della compagnia, dar ordini che venivano eseguiti. Il bambino a volte lo teneva in braccio, ci giocava ma  l’automa presto si divincolava, con quei suoi terribili movimenti a scatti, e andava via. Avanti e indietro. La donna restava assisa. Lo sguardo perduto.
Continuavano a mangiare piccole cose, ma in estate non rifiutarono più dolci grappoli d’uva. Ne mangiavano e rimanevano come inebriati.
Il paese dopo alcuni giorni si riabituò  e se ne disinteressò. Solo di tanto in tanto qualche movimento improvviso sugli scogli faceva fremere il villaggio intero.
E il silenzio irrompeva per brevi momenti. In quei silenzi si sentiva una voce gorgogliare una risata oscena. Un pescatore confidò di aver udito il pupazzo emettere quel suono.
Molte cose vennero dette in quei giorni. Ma nulla avvenne che potesse giustificare il senso di panico e di disagio che quei tre suscitavano. La gente andava a letto pregando di non trovarli più al mattino e si svegliava guardando verso la scogliera sperando di non vederli. Ma loro erano lì. Sempre allo stesso posto. Sempre nella stessa posizione. Sempre a guardare il mare. Soltanto il giocattolo diveniva ogni giorno più incontrollabile, più prepotente. E più grasso.
Mangiavano in silenzio frutta e tozzi di pane. La donna col suo sguardo paralizzante, il bimbo sempre più calmo e il pupazzo che impazziva, forse per un guasto al suo delicato congegno. Un uomo, un giorno, disse di aver guardato bene  la donna dalla chioma nera. I suoi occhi  non erano crudeli, disse l’uomo. Erano gli occhi più tristi che avesse mai visto. La sua sofferenza era atroce. Faceva male. Forse aveva pietrificato se stessa, ma certo non poteva farlo agli altri. Ed era molto bella. Una figura eterea dallo sguardo doloroso. Una donna che cercava alghe  disse di averla vista piangere a lacrime silenziose. Il suo viso era in attesa. Aspettava qualcuno.
Tutti erano d’accordo sulla oscenità del giocattolo. Chi lo descriveva  grasso con labbra flaccide e lascive, occhi grandi e acuti. Altri raccontavano di quella voce da eunuco. Altri ancora che fosse pazzo.  Del bimbo nessuno parlava,  troppo grande era la pietà che suscitava, così, scalzo, svestito, denutrito. Sarebbe stato meglio fosse morto nell’inverno. Povera vittima di una madre fuori di senno,  con l’anima spaccata e dolente. La pietà in una qualche forma sottile e subdola iniziò a scavarsi un varco nel cuore del villaggio.
I mesi scorrevano e si iniziò ad annusare l’odore della vendemmia che scendeva dalle colline. Si cominciò ad aspettare la notte della terza domenica d’ottobre per festeggiare tutti insieme il primo vino e la mattanza dei maiali. Sarebbe stata la notte più bella dell’anno dopo quella della processione della Madonna per mare.
I giorni trascorrevano. I savi  impazzivano. I pazzi  rinsavivano. La luna ingrassava, si assottigliava, spariva per ricominciare all’inverso fino ad ingrassare ancora. Quel giorno toccava alla  luna nuova e ci sarebbe stato buio in cielo. Si sarebbero viste tutte le stelle, distinte le costellazioni con i loro nomi. I falò sarebbero apparsi più grandi e luminosi. Sarebbe durato tre giorni e due notti. Al crepuscolo di Martedì tutto finiva. Iniziarono i preparativi. Tutto era eseguito con calma e molta attenzione. Nulla aveva l’aria di agitarsi nel paese. Lungo la scogliera si preparavano i filari dei fuochi di artificio, come piccoli vitigni neri.
I maiali furono uccisi con risa e grida. Il loro sangue scorse a fiotti. Fu mangiato fritto e tagliata fu la carne a pezzi. Costate, prosciutti e salsicce. Nell’aria si annusava odore di grasso cotto. Acre odore di lardo e strutto e sangue.
La donna, il bambino e il pupazzo  a molla furono rigettati in angoli oscuri. C’era troppa gente che muoveva lungo il mare per restarsene tranquilli. I paesani speravano che tutto quel frastuono facesse spazientire il gruppo e cambiar aria. Ma non fu così.
E la festa ebbe inizio.
Le bottiglie di vino nuovo, rosso e nodoso, furono allineate su tavoloni di legno. File e file di verdi bottiglie.
Si cominciò con la Messa (c’era sempre una Messa da celebrare). Il prete  compì  il rito della benedizione della carne, del pane e del vino.
Le donne avevano sfornato il pane. Ciascuna famiglia ne cuoceva nove pagnotte e le metteva a disposizione del villaggio.  Era profumato e fragrante. Solo un po’ crudo come usava in quei luoghi. Era stato cotto in forni di campagna, di tufo e mattoni, dove erano messe a bruciare legna,  fascine e bucce di nocciole. L’odore del maiale cotto sulla brace era dolciastro. Riempiva tutto il cielo di densi fumi. La gente  vestita a festa mangiava pezzi di carne con le mani, strappandola con denti aguzzi. Il vino dal colore del rubino, fresco, solo un po’ frizzante puliva la gola e il cervello.
Dopo una notte e un giorno tutto il villaggio era intorpidito dal troppo mangiare e il troppo bere.
Verso notte tarda la donna dai lunghi capelli  si spinse fuori dal suo nascondiglio in alto sulle rocce e si affacciò sulla scogliera. Nessuno vi badò, presi da sentimenti di beatitudine stolta.
Si vide il giocattolo meccanico  avvicinarsi più e più volte ai tavoli e prendere bottiglie di rosso liquido. Pare che la donna e il pupazzo abbiano ballato e cantato insieme agli abitanti del paese e che qualcuno, reso audace dall’alcol, abbia provato dei passi di danza con la lunga signora.
Nessuno ne fu mai certo ma il dubbio s’insinuò nei cuori. Al crepuscolo del terzo giorno erano tutti ebbri. I fuochi artificiali avevano sancito l’ultimo giorno di ringraziamento al Signore. Erano stati magnifici. Avevano acceso la notte e lambito il mare. Avevano dato la percezione della grandezza di Dio. In quel momento erano tutti sbronzi, compresi i fuochisti, il prete e il chierichetto.
Stava per giungere la fine.
Era il tramonto del Martedì. Erano tutti stremati. Fumavano guardando il cielo turchino seminare piccole nubi rosse. Non parlavano. Guardavano il mare e fumavano. Le donne  già rimettevano a posto bicchieri e stoviglie. Sulla scogliera l’orribile giocattolo ballava ancora insieme alla donna. Erano come impazziti. Bottiglie di vino vuote giacevano in terra. Il bambino tentava di cantare. I canti delle donne alla festa lo avevano commosso. Gli uomini del paese li guardavano un po’ incuriositi e un po’ disgustati. Ma attenti, ora.
I tre si avvicinavano all’orlo della scogliera. Il pupazzo sembrava guidare la danza e dare ordini. Durava da un po’ quel gioco. E gli uomini cominciarono a distogliere l’attenzione da loro.
Dettero  uno sguardo ancora alla  figura della donna che girava e girava  in preda alla follia. Volteggiava  sul limite  estremo degli scogli.  Come per emulare un volo, come per compiere un balzo nel vuoto, un lungo ultimo tuffo. Si rivolsero per un attimo altrove e poi tornarono  a guardare. Quando guardarono di nuovo la donna e il bambino erano scomparsi e il pupazzo, ormai solo, gesticolava e rideva tutto proteso verso l’azzurro vuoto del mare. Erano certi che i due fossero lì soltanto un attimo prima.
Qualcuno accorse. Nell’avvicinarsi allo strano pupazzo lo vide sollevare il volto e agitare le braccia aperte, tese verso il cielo.
Improvvisamente dal mare due gabbiani presero il  volo. Liberi, bianchi, ridenti seguivano    le correnti d’aria azzurra.
Cantavano con voce di bambini. In un volo leggero, morbido,  finalmente felice.
Il pupazzo ne seguiva i movimenti. Sul suo viso crudele un’espressione di rabbia impotente. Di pura disperazione.
La sua voce d’eunuco urlava parole che avevano il cupo suono di una bestemmia.