Un cittadino etico può vivere in uno Stato non etico? Il dubbio ci riconduce, per vie traverse all’uovo e alla gallina: viene prima l’uovo dal quale nasce la gallina, o prima la gallina che deposita l’uovo? Fuor di metafora: viene prima uno Stato etico, che ha, quindi, diritto ad un cittadino etico o viceversa. Applicando la “teoria dei pari grado” dovrebbe essere il maggiore (lo Stato) a dare il buon esempio, per poter poi chiedere comportamenti coerenti al piccolo, il cittadino.

Questa complicata riflessione serve solo ad introdurre un concetto in negativo: uno Stato che utilizza la comunicazione in modo non etico, può poi esigere un cittadino etico?

 

 

 

Esiste una comunicazione “etica”?

Precisiamo allora un altro punto del quesito di fondo: quando una comunicazione può definirsi “etica”?      A questa domanda, come comunicatore di lungo corso, penso di poter dare una risposta chiara. Il tema fondante è quello della “fonte”.

Una comunicazione etica è quella generata da una fonte che, in modo trasparente fornisce i dati e li legge con rispetto degli interessi in gioco, in modo contrapposto se gli interessi sono, come è legittimo che possano essere, contrapposti.

Una comunicazione non etica è quella generata da una fonte che fornisce alcuni dati, alcune informazioni, ben sapendo che sta raccontando una faccia della medaglia e che  “ritiene conveniente” non raccontare l’altra faccia della medaglia.

 

Un esempio: la comunicazione del Fisco italiano

Secondo i dati dell’Agenzia delle entrate sul 2012, metà degli italiani vive con un reddito sotto i 15.600 euro. Dall’analisi sulle dichiarazioni dei redditi 2013 effettuata dal ministero dell’economia e delle finanze, il 50 per cento dei contribuenti italiani ha dichiarato un reddito inferiore a 15.600 euro. L’analisi del Fisco ha anche rilevato un reddito nazionale complessivo di 800 miliardi di euro e un reddito medio pari a 19.750 euro (+0,5 per cento rispetto all’anno precedente).

La notizia esce con i giornali che titolano: “Mef, gli imprenditori sono più poveri dei lavoratori dipendenti”. “Per gli imprenditori, meno dei dipendenti”. Orbene chi conosce le redazioni sa che i titolisti non ci sono più e che i titoli vengono ispirati dalle fonti. Dubbi? pensate alle rassegne delle prime pagine (tra l’altro le uniche su cui operano ancora i titolisti) che da mezzanotte in poi trasmettono i telegiornali. Cambia il punto di vista, la lettura politica del dato, ma il focus dei titoli, con poche eccezioni (il manifesto, il Fatto quotidiano), rimane sempre lo stesso.

 

Quali sono i dati forniti dal Ministero

I lavoratori autonomi hanno il reddito medio più elevato, pari a 36.070 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 17.470 euro. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è di 20.280 euro, quello dei pensionati corrisponde a 15.780 euro. Il Mef spiega che i titolari di ditte individuali nelle dichiarazioni Irpef sono considerati nella categoria “imprenditori”, di cui fanno parte anche coloro che non hanno personale alle loro dipendenze. Quindi, ripeto per concentrare l’attenzione del lettore sull’arguzia della fonte: sono considerati imprenditori anche coloro non hanno personale alle loro dipendenze. Ovvero ditte individuali, imprenditori di sé stessi. 

 

 

La distribuzione della ricchezza

Buon vecchio caro Corrado Gini. Il 90 per cento della popolazione italiana dichiara fino a 35.819 euro. Il 5 per cento dei contribuenti con i redditi più alti detiene il 22,7 per cento del reddito complessivo: un quarto della ricchezza in mano a un ventesimo della popolazione.

In Svizzera è stato indetto un referendum per limitare al massimo di 12 a 1 il rapporto tra il salario massimo e il salario minimo erogato da una stessa impresa. In Italia il rapporto medio è attualmente 163 a 1 (con punte notevolmente superiori nel caso dei top manager).

All’interno di questo spaccato sorge una domanda: qual è la percentuale di italiani che dichiara tra 35.819 e 35.999 euro? Ovvero per quale motivo per un dato così aggregato (il 90 per cento della popolazione) il fisco non utilizza come soglia la cifra tonda di 36mila euro?

Un reddito così preciso avrebbe senso se in questa forbice di 180 euro di reddito all’anno, 15 euro al mese, tra 35.819 e 35.999 euro, vi ci si trovasse almeno un punto percentuale della popolazione, ovvero almeno 600 mila persone. Quante sono le probabilità? E in tal caso sarebbe stato più corretto fissare la cifra tonda sulla percentuale (90 per cento anziché 91 per cento) o sul reddito (35.819 invece di 36.000)?

La domanda non è così peregrina. Per chi si occupa di gestire le fonti la risposta appare abbastanza semplice (anche se potrebbe essere sbagliata): un cifra così precisa e dettagliata all’euro (vi ricordo parliamo della soglia sotto la quale il 90 per cento della popolazione dichiara di guadagnare) appare un dato attendibile, scientifico, inattaccabile, frutto di sofisticatissime elaborazioni.

 

 

La distribuzione della ricchezza

Dicevamo poche righe fa che

«l’analisi del Fisco ha anche rilevato un reddito nazionale complessivo di 800 miliardi di euro e un reddito medio pari a 19.750 euro (+0,5 per cento rispetto all’anno precedente)».

Pochissimi giornali hanno spiegato che 19.750 euro è, però, un dato lordo, il che significa che in tasca agli italiani va molto meno. Dalle tabelle pubblicate dal dipartimento delle Finanze, infatti, emerge che il peso dell’Irpef netto è in media di 4.880 euro. Ciò significa che il reddito netto è in media di 14.870, meno di 1.240 euro al mese. Quindi su 14.870 euro di reddito medio gli italiani pagano il 32,8 per cento di tasse. L’incidenza è probabilmente inferiore sui redditi più bassi ma, vivendo il 50 per cento della popolazione con 15.600 euro se noi calcoliamo un 25 per cento di tasse il dato del ministero delle Finanze sulla “ricchezza” degli italiani diventa assai meno confortante (e già non lo era un granché, ma più di tanto le cifre non si possono manipolare senza falsificarle) perché dobbiamo togliere altri 3.900 euro che ci porta a un reddito annuo netto pari a 11.700 euro equivalente a 975 euro al mese.

Capiamo bene che una cosa è dire il 50 per cento della popolazione italiana ha un reddito inferiore ai 15.600 euro, altra è dire che il 50 per cento della popolazione italiana ha un reddito inferiore a 975 euro al mese.

Sorge un’altra domanda che apre un nuovo capitolo: e quant’è la percentuale di popolazione che non supera i 700 (o 800) euro al mese?

 

 

Ciò che si evidenzia e ciò che non si evidenzia

Il ministero mette in evidenza un +0,5 per cento rispetto all’anno precedente (che vedremo non coinciderà con le analisi dell’Ocse) e rende tutti gli italiani più ricchi perché si distrae e non ricorda con sufficiente chiarezza che però ci sono anche le tasse da pagare per cui il reddito medio scende a 1.240 euro netti.

Non sarebbe stato propriamente pertinente, ma altamente illuminante sulla qualità della nostra direzione politica, e sulla qualità dell’informazione di uno Stato democratico, cioé governato dal popolo, ricordare che il reddito netto annuale in Germania è di 39.736 euro pari a 3.300 euro netti al mese (3.343 se atei; 3.352 se si vive a Berlino).                                                                                                                  

1.240 euro al mese contro 3.300. E noi siamo gli evasori!

Ribatterebbe, giustamente, la fonte ministero delle finanze, ma noi l’abbiamo detto! sì, all’interno del rapporto di 200 (dico un numero così per dire) pagine. ma l’avete messo ben in evidenza nelle 1.800 battute che al massimo devono comporre un comunicato stampa? 

 

 

Più 0,5 o meno 14,3 per cento

A quattro anni dall’inizio della crisi economica si evidenzia un calo dei redditi, confermato anche dell’Ocse, in particolare di quelli da lavoro autonomo con un meno 14,3 per cento. In termini di redditi medi dichiarati, tenendo conto dell’inflazione, in quattro anni il reddito medio degli autonomi è calato in termini reali del 14,3 per cento, quello degli imprenditori è calato dell’11 per cento e quello dei dipendenti è calato del 4,6 per cento, mentre il reddito medio da pensione è aumentato del 4,6 per cento, sempre secondo il confronto tra le dichiarazioni dell’anno d’imposta 2012 rispetto a quelle dell’anno d’imposta 2008 (ultimo anno prima della crisi economica).

Se si sposta il focus sulle regioni, quella con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (23.320 euro), seguita dal Lazio (22.100 euro), mentre la punta dello stivale, la Calabria presenta il reddito medio più basso con 14.170 euro.

 

Per l’Ocse il reddito famiglie italiane è in netto calo

Peggio di noi solo Grecia e Portagallo. Il reddito medio degli italiani ha subito una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007.

In Italia

«il reddito medio ha subito una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando a un livello di 16.200 euro pro capite nel 2012. Si è trattato di una delle diminuzioni in termini reali più importanti in Eurozona. Mediamente, la diminuzione dei redditi nei Paesi dell’Eurozona è pari a 1.100 euro».

Lo riporta l’Ocse nel rapporto “Society at a glance” in cui, alla luce anche di questo dato, afferma che

«riforme urgenti sono necessarie per il miglioramento del sistema di previdenza sociale».

Secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale, la riduzione del reddito è strettamente legata al deterioramento del mercato del lavoro, soprattutto per quanto riguarda i giovani.

Il tasso di povertà tra i giovani (tra 18 e 25 anni) tra il 2007 ed il 2010 è aumentato al 15.4 per cento (in crescita di 3 punti). Anche negativo il tasso per agli under 18, al 17.8 per cento ed in rialzo di 2 punti.

Perciò i giovani si ritrovano in cima alla scala dei poveri, superando quarantenni e over 75, rispettivamente al 13.4 per cento ed 11.7 per cento. Inoltre, la percentuale di giovani inattivi è schizzata al 21.1 per cento (+5 per cento rispetto al 2007), nell’Ocse siamo davanti solo a Turchia e Grecia.

 

 

La comunicazione e il conformismo mentale

Un altro dato allarmante è quello relativo alla protezione per chi ha problemi di lavoro: ben il 13.2 per cento di persone nel 2011 ha dichiarato di non potersi permettere il cibo necessario alla sopravvivenza (+3.8 per cento rispetto al 2007), mentre il 7.2 per cento ha rinunciato a curarsi.

L’Ocse attribuisce le cause di questa situazione a un sistema di previdenza sociale che è arrivato poco pronto all’impatto con la crisi finanziaria, generando povertà e disoccupazione.

Tuttavia, secondo l’Organizzazione, le proposte di riforma del mercato del lavoro del nuovo Governo Renzi e la possibile estensione del sistema previdenziale possono rimettere il Paese nella giusta direzione.

Affermazioni pesanti che colgono in fallo un’altra istituzione del Paese, formalmente non istituzionale di fatto dominante nei rapporti di lavoro e nella pubblica amministrazione: il sindacato.

Secondo l’Ocse il sistema di previdenza sociale del Paese, ispirato dai e in mano ai sindacati ha generato povertà e disoccupazione! Ha generato povertà e disoccupazione. L’immobilismo e il conformismo ideologico e culturale ha fatto fallire la missione sociale dei sindacati.

 

Il reddito di cittadinanza

Secondo l’Ocse, è necessario anche un

«comprensivo sistema nazionale di sussidi a basso reddito»,

 in altri termini bisogna pensare all’introduzione di un reddito di cittadinanza o un salario minimo, in questo momento assente in Europa solo in Italia e Grecia.

Non prevedere interventi su questo problema, secondo l’Ocse, può portare ad un allargamento delle disuguaglianze sociali e delle difficoltà economiche. Già tra il 2007 ed il 2010, infatti, il 10 per cento più povero della popolazione italiana ha perso in media il 6 per cento del proprio reddito, dato che si contrappone al solo un per cento perso dal dieci per cento dei più ricchi.

Sul reddito di cittadinanza si è creato un fronte compatto tra partiti tradizionali e sistema mediatico economico per osteggiarne l’istituzione accusando di irresponsabilità di chi lo propone o di inattuabilità.

È un fatto che le resistenze che s’incontrano su questo tema sono ostinatissime, inamovibili direi, tanto che più che computare dati di bilancio si tratta di smuovere il macigno ideologico che oggidì ingombra (e adombra) le coscienze, quello per cui, candidamente, c’è ancora chi crede il nostro “il migliore dei mondi possibili”.

«Premessa forse pedante: reddito di cittadinanza, detto anche reddito di base o di sussistenza, è quello corrisposto a tutti i cittadini dotati di cittadinanza e residenza, indipendentemente dall’attività lavorativa effettuata, universale e illimitato nel tempo. Altra cosa è il reddito minimo garantito (o d’inserimento), che è condizionato, cioè soggetto a tutta una serie di restrizioni».

La differenza più significativa tra le due tipologie è presto detta: nel secondo caso il diritto al reddito vien meno qualora l’individuo che lo percepisca rifiuti offerte di lavoro valutate inadeguate. Che c’è di male, afferma il sistema mediatico economico, s’offre un lavoro a un disoccupato e questo s’azzarda pure a rinunciarvi?

La questione, tuttavia, è ben più complessa: una tale proposta di lavoro sconfina infatti facilmente nel ricatto.

In Germania il salario minimo regolato dalla riforma del mercato del lavoro concepita dalla cosiddetta Commissione Hartz prevede quanto segue: 382 euro al mese, a cui vanno aggiunti l’assistenza sanitaria, l’alloggio (fornito dallo Stato, che paga affitto e riscaldamento), il sussidio aggiuntivo per i figli a carico (289 euro per ogni figlio tra i 14 e i 18 anni) e per il partner. In buona sostanza: a ciascuno vengono garantiti un tetto e ‘mezzo’ stipendio. Il minimo per sopravvivere.

 

La Cgia contesta la lettura dei dati del Mef

Secondo la Cgia di Mestre i dati sui redditi del 2012 sono stati interpretati in maniera distorta e si tratta di un tempismo quantomeno sospetto. Propio nei giorni in cui i manager e gli alti dirigenti pubblici italiani sono nel mirino della stampa e dell’opinione pubblica a causa degli “elevati” compensi, il Ministero delle finanze diffonde le statistiche delle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche riferite all’anno di imposta 2012.

Secondo la Cgia per l’ennesima volta, emerge un’interpretazione distorta e tendenziosa dei dati, finalizzata a dimostrare che gli imprenditori guadagnerebbero meno dei lavoratori dipendenti.

«In realtà, sottolinea Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia, dalla lettura del comunicato stampa non emerge questo. In primo luogo, si specifica che il reddito medio degli imprenditori si riferisce ai titolari di ditte individuali, mentre ne sono esclusi quelli in forma societaria. In secondo luogo, si sottolinea che gli imprenditori persone fisiche in contabilità ordinaria hanno denunciato 27.710 euro, mentre i lavoratori dipendenti ne hanno dichiarato 20.280 euro. La media dei titolari di impresa, che per l’anno di imposta 2012 hanno denunciato 17.470 euro, viene abbassata dai soggetti in contabilità semplificata: questi ultimi, infatti, hanno denunciato un reddito medio di 16.380 euro»

«Lo stesso Dipartimento delle Finanze, prosegue Bortolussi, segnala che i dati di tutti gli imprenditori persone fisiche monitorati in questa analisi sono al netto delle quote attribuite ai collaboratori familiari e che la definizione di imprenditore non è sinonimo di datore di lavoro. Infatti, tra gli imprenditori sono compresi anche quelli che non hanno dipendenti. Ricordo, infatti, che tra gli artigiani e i commercianti, ad esempio, il 74 per cento del totale lavora da solo».

La tesi della Cgia è sostenuta da un comunicato stampa del Ministero dell’Economia del 15 novembre 2013 relativo ai dati delle dichiarazioni dei redditi 2011 pubblicati il giorno prima dal Dipartimento delle Finanze. In questo caso il Mef si dichiarò:

«I lavoratori dipendenti che hanno come datore di lavoro una persona fisica (dichiaranti lavoro autonomo, d’impresa o allevamento) sono pari al 9,6 per cento del totale e dichiarano un reddito medio da lavoro dipendente di 10.647 euro, mentre i corrispondenti datori di lavoro persone fisiche (circa 575.000 soggetti) dichiarano un reddito medio da attività economica pari a 33.653 euro, ossia circa il triplo».

E questo ci conduce ad un altro assioma della comunicazione non etica: che in uno Stato complesso, e, più in generale, in un’organizzazione complessa, non esiste la voce unica. La Paravda può esistere solo i Stati radicalemente dittatoriali, e anche lì gli spifferi sono inevitabili e le informazioni, sotto forma di “soffiata” o di “denuncia anonima”, o di “fonte ben informata” escono.

 

Alza di qua, abbassa di là

Per la Cgia si tratta quindi di una comparazione improponibile tra i redditi dei lavoratori dipendenti e quelli dei titolari di piccola impresa.

Ed ecco i due artifici “contabili” con cui si distorce una verità trasformandola in mezza verità:

per gli imprenditori persone fisiche non si considera che la maggioranza dei casi non ha dipendenti e molto spesso il loro reddito è calcolato al netto delle quote attribuite ai collaboratori familiari;

per i lavoratori dipendenti il dato medio è elevato dai redditi di molte categorie, come i giudici, i manager pubblici e privati, i professori universitari che sono distanti dal mondo del lavoro dipendente e che rientrano nel 10 per cento sopra i 36mila euro

Effetto sinergico convergente, si diminuisce attentamente il reddito degli imprenditori e si alza, altrettanto astutamente il reddito dei lavoratori dipendenti. E il teorema degli imprenditori evasori è alluso e confermato! E lo Stato etico se ne va a gambe all’aria!

 

 

Un’analisi della fonte Stato italiano

Ragioniamo allora, i termini di analisi della fonte, sulla comunicazione adottata dall’Agenzie delle entrate.

Assioma numero uno: i dipendenti guadagnano più dei propri datori di lavoro.

Messaggio sublimale: poveri dipendenti, sono gli unici a pagare le tasse sull’intero reddito percepito                                                                                                      

Conflitto di interesse: non avete mai sentito parlare di doppio lavoro (il secondo in nero) per i dipendenti?                                                                                           

Conflitto di interessi due: tutti i lavoratori dell’Agenzie delle entrate sono dipendenti, per contratto e per mentalità.                                                                                    

Curiosità: i redditi dei dirigenti del Ministero delle finanze sono quelli con la media più alta tra tutti i ministeri; circa 340mila euro lordi. Mi ricorda mio nonno che ogni tanto se ne usciva parlando di Marziale (che predica bene e razzola male!)

 

Assioma numero due: i datori di lavoro (imprenditori) guadagnano meno dei propri dipendenti.                                                                                                     

Messaggio sublimale: imprenditori parassiti è evidente che evadete le tasse     

Fonte ambigua: ma tra questi imprenditori ci sono anche (il 74% imprenditori non datori di lavoro)                                                                                                                

Fonte ambigua due: le quote attribuite ai collaboratori familiari (cioè moglie e figli), sono legittime e previste dalla legge. Avete presente il bar o il negozio gestito dalla famiglia, marito, moglie, figli, cognati e nuore, suoceri e nonni: non si può proprio parlare di un modello raro.                                                                                              

Fonte ambigua tre: tanto per non correre rischi inseriamo tra i dipendenti anche i manager e i dirigenti pubblici (i veri ricchi di questo periodo), i magistrati, i dirigenti sanitari e alziamo così lo stipendio medio dei dipendenti; non precisiamolo ed evochiamo la figura mitologica del dipendente ragioniere Fantozzi.

Mi direte ma qui siamo commentando un comunicato stampa dell’Agenzie delle entrate. Appunto dello Stato italiano.

C’è da chiedersi come mai, ma temo che la risposta sia fin troppo semplice: dopo oltre un ventennio di dominio incontrastato, l’ideologia capitalistica è il modello consumistico nazional popolare delle televisioni Mediaset, e il modo di pensare del suo patron, sono divenuti un paradigma antropologico totalizzante che detiene ormai un vero e proprio monopolio generale sulle coscienze da cui pare sia impossibile sottrarsi.

 

Fonti

MEF, gli imprenditori sono più poveri dei lavoratori dipendenti

Redditi 2012, la Cgia ha contestato la lettura dei dati del Mef

Per l’OCSE il reddito famiglie italiane è in netto calo

Marcello Barison, “Reddito di cittadinanza: utopia o realtà?” 20 novembre 2013

Alessandro Madron, “Stipendi top manager, referendum in Svizzera per fissare un tetto per legge”, 17 novembre 2013

Stipendi dei manager fino a 163 volte quello di un operaio: limitarli?