Un amico, un giorno, raccontò di una sua escursione in montagna.

Una gran fatica, uno sforzo immane ma poi, finalmente  raggiunse la vetta. 

Nell’estasi della riuscita, tra l’emozione della solitudine delle nuvole si sentì felice.

“E quando sei lì a chi hai rotto le palle!”. 

La frase in napoletano, più esplicita e colorita, fu pronunciata da mio marito che teneva in nessun conto la bellezza dell’avventura.

Eppure lui seguiva il suo sogno della  “impresa straordinaria” nei fondali marini.

Dove riusciva ad immergersi col solo aiuto dei polmoni, in apnea, fino a 30 metri e forse oltre.

Restava ad esplorare le terre sommerse e, credo, si sentisse leggero e appagato.

A volte fiocinava un polpo che continuava a muoversi sulla barca, riempiendo il mio cuore di 

stupore e pietà.

“Avventura: avvenimento straordinario, impresa rischiosa ma attraente e piena di fascino.”

C’è qualcosa nel voler indagare, scoprire il valore  delle proprie forze, il peso del proprio 

cuore.

C’è qualcosa che  fa godere delle sfide, dell’esagerazione nel contare sulle proprie possibilità fisiche e psichiche.

Di Robinson Crusoe amiamo talmente tanto la  capacità di sopravvivenza che non ci accorgiamo che sta riproducendo l’idea della società schiavista e coloniale dell’Inghilterra del 6/700. 

Achab ci affascina per il  suo intento ossessivo compulsivo di guardare negli occhi l’immensa profondità della Balena. Prima ancora di tentare di  annientarla in una lotta impari.

C’è chi, come Don Quijote, immagina straordinari eventi nella miseria di una vita piatta e ordinaria.

Così attraversare la Punta della Campanella con uno Zodiac mentre il mare s’ingrossa, riuscire a tener saldo lo scafo e tornare in porto illesi diventa un’impresa.

O trovarsi per la prima volta nelle Bocche di Bonifacio in una piccola imbarcazione da diporto mentre il maestrale imperversa,  essere presi dal terrore e dal gelo, mentre s’imbarcano onde su onde.

In questi eventi al timone c’era mio marito Alfredo, un’anima salda e un cuore impavido.

Certamente conoscitore del mare. 

Quando ho visto “In solitario” ho subito pensato a lui. Lui avrebbe potuto avventurarsi intorno al mondo, fumando con calma la sua pipa.

Non avrebbe pensato alla vittoria, ma al mero godimento di un viaggio negli oceani che avvolgono e lambiscono il globo.

Così mi sono messa comoda e ho guardato per ben due volte il film. Il volto di Francois Cluzet ricorda quello di Alfredo, un Alfredo più giovane, abbronzato e barbuto.

 

 

Eliminato dalla mente il tema della competizione, mi sono raccontata solo la storia della capacità di superare gli ostacoli, la voglia di giungere alla meta, di riemergere nonostante tutto,  di contare le proprie forze.

Il “combattente della vita” è quello che, arrivato allo stremo delle proprie energie, ne trova ancora un po’ per raggiungere lo scopo.

Tutti abbiamo camminato su mari ghiacciati, sabbie roventi e alte montagne. Abbiamo guardato giù nel precipizio, ma non tutti ci siamo arresi. Abbiamo chiuso gli occhi, cercato e trovato l’ultimo respiro per continuare, discendendo  terrorizzati lungo  sentieri montani, fino a terra, accorgendoci dei vasti prati fioriti e del sole tenero e vitale su di noi.

Ma in “In solitario” improvviso ravviso un altro amico della mia esistenza, che con Alfredo ha molto in comune, Joseph Conrad e il suo bellissimo racconto” Il compagno segreto”.

L’alter ego, il sosia, il doppio.

Un estraneo, un ragazzo, che si nasconde nella barca per arrivare in Francia.

Un estraneo, un fastidioso affare che potrebbe invalidare tutto lo sforzo fino ad allora profuso.

Qualcosa di cui liberarsi per viaggiare di nuovo leggeri.

Eppure quel ragazzo è un essere umano, è un uomo da comprendere, una persona di cui aver cura.

Piano piano il tempo si lacera, dentro ci sta il senso di condivisione,  la gioia simulata della solidarietà, la sensazione di unicità.

Così il viaggio iniziato come competizione e gara si trasforma in un metaforico attraversamento del proprio io,  in una evanescente epifania, in un bellissimo atto di coinvolgimento e di amore.

Che trasfigura il prepotente  orgoglio della vittoria in una rinuncia ancor più grande e possente.

Forse mi ero appisolata ma ho visto il volto abbronzato e barbuto di Alfredo sorridermi togliendosi la pipa di bocca con la  mano destra.