E’ almeno dal 2011, con lo scoppio della primavera araba e l’intensificarsi degli arrivi dall’Africa del Nord, che l’Europa ha sul tavolo la questione dei migranti, siano essi profughi che chiedono asilo o lavoratori in cerca di occupazione, che premono sul fronte sud del continente.

La questione è negli ultimi tempi ulteriormente aggravata tra l’aumento degli sbarchi, le tragedie in mare, l’allarme umanitario, il peggioramento del quadro geopolitico regionale, l’irrompere sulla scena politica dei paesi dell’Unione di movimenti avversi all’immigrazione, sfiducia e reciproche recriminazioni. Nel maggio scorso la Commissione ha presentato un piano di ripartizione degli oneri tra Stati membri in materia di migrazione, articolato su tre punti: redistribuzione e reinsediamento dei migranti richiedenti asilo, rimpatri degli irregolari economici e cooperazione con i paesi di origine e transito. Si voleva dare con il piano “un approccio all’immigrazione equilibrato e geograficamente completo, basato sulla solidarietà e la responsabilità”. Ma di solidarietà e di responsabilità si è finora visto ben poco. Al contrario, le soluzioni finora adottate sono state assunte sulla spinta dell’emergenza, della provvisorietà e dell’improvvisazione, relegando nelle secche dell’incertezza e della indecisione la disciplina globale del diritto di asilo e la regolamentazione degli afflussi dei migranti in cerca di un migliore tenore di vita, materie che sono da tempo entrate nella competenza primaria dell’Unione Europea.

 

In particolare, la Commissione proponeva ai 28 paesi membri dell’Unione un piano di redistribuzione su 24 mesi di 40.000 richiedenti asilo arrivati in Italia e in Grecia nonché di altre 20.000 persone bisognevoli di protezione e tuttora fuori dal territorio europeo, nel tentativo di introdurre maggiore corresponsabilità nella gestione della immigrazione in Europa, superando il principio stabilito nel Trattato di Dublino, che aveva iniziato a delineare una disciplina comunitaria del diritto di asilo, secondo il quale responsabile dell’asilo è il paese di primo sbarco. La proposta prevedeva a tale riguardo un meccanismo di ripartizione obbligatorio basato su alcuni criteri, come popolazione, Pil, disoccupazione e ruolo svolto in passato nell’accoglienza dei richiedenti asilo. Nella riunione a Bruxelles del 26-27 giugno, che doveva decidere sulla proposta della Commissione, i capi di Stato e di governo dell’Unione si sono divisi sul carattere obbligatorio dei re insediamenti: a favore Italia, Francia e Germania; contrari per motivi differenti Gran Bretagna, che si è come al solito tirata fuori, e Danimarca, i paesi baltici e i paesi dell’Est Europa, con Ungheria e Slovacchia in testa, che giustamente contestano a Bruxelles di considerare emergenza solo il Mediterraneo e non il flusso di migranti che arriva in Europa attraverso i Balcani; critici anche il Portogallo e la Spagna. Con I ministri degli Interni si è arrivati ad un compromesso per cui,

accantonato l’”obbligo” di redistribuire i profughi, resta fermo l’”impegno” di tutti paesi a partecipare all’attuazione del piano.

In sostanza, pur accettando il principio che  la tragedia dell’immigrazione sia un affare europeo, e non italiano o greco, l’Europa lo nega nei fatti, rifiutando d’imporre agli Stati l’assunzione obbligatoria di quote di profughi, senza la quale non esiste solidarietà europea, ma solo buona volontà dei singoli Stati. In cambio di un alleggerimento del carico di rifugiati, che verranno dislocati nei paesi dell’Unione disposti ad accoglierli, viene fatto obbligo all’Italia di registrare e segnalare tutti gli immigrati che approdano sulle sue coste con l’aiuto, o meglio il controllo, di ispettori provenienti da Bruxelles per assicurare che il lavoro di identificazione venga fatto sistematicamente e per rimediare alle lungaggini e inefficienze della macchina burocratica che tengono migliaia di persone in campi di accoglienza con il rischio di suscitare proteste degli accolti e delle popolazioni circostanti, come già ora avviene. Alla fine, dopo interminabili discussioni, recriminazioni infinite e levate di scudi, l’intesa sul ricollocamento in due anni da Italia e Grecia negli altri paesi dell’Unione dei 40.000 migranti richiedenti protezione internazionale si è fermata a 32.256 persone (con la possibilità di recuperare la differenza in prosieguo di tempo) e il commissario greco all’Immigrazione  ha detto che “è stato fatto un passo storico avanti nelle politiche europee”.

 

Quanto agli immigrati clandestini, ai migranti cosiddetti “economici” motivati dalla ricerca di occupazione ed ai richiedenti asilo che si sono visti respingere la domanda, si spinge dalla Commissione per la revisione del meccanismo di riammissione nei paesi di origine che non funziona, visto che il dato reale dei rimpatri è assai più basso di quello ufficiale, che è del 39%. In cambio di promesse di maggiori aiuti per portare a termine le operazioni di rimpatrio sistematico dei migranti che non hanno titolo per chiedere l’asilo politico (che oggi rappresentano il 60% del flusso di arrivo in Italia) il governo italiano si è detto disponibile a rendere più veloce il meccanismo di rimpatri, senza contare che al più rapido riflusso fa ostacolo la mancanza di accordi di riammissione con buona parte dei paesi di origine (come Bangladesh, Senegal, Costa d’Avorio, Ghana, Sudan e Mali) mentre la stipula degli accordi richiede denaro per convincere le controparti e tempo per negoziarli. Infine, il 22 giugno, i ministri degli Esteri dell’Unione hanno dato la via libera ad una missione navale a guida italiana al largo delle coste libiche con l’obiettivo di arginare l’arrivo dei migranti e con la possibilità di distruggere le imbarcazioni utilizzate dalla criminalità organizzata. L’operazione, della durata di un anno, dovrebbe avere tre fasi: raccogliere informazioni; ricercare e catturare le imbarcazioni sospette; disporre dei barconi “preferibilmente prima dell’uso”. Poiché l’attuazione di quest’ultima fase, che potrebbe comportare interventi di natura militare in territorio libico, è subordinata alla problematica autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed all’improbabile assenso dell’inesistente governo libico, si ha ragione di credere che la missione si limiterà ad azioni di contrasto degli “scafisti” nelle acque del Canale di Sicilia, in aggiunta alle operazioni di pattugliamento e di salvataggio già condotte dalla missione Triton.

 

Il numero delle persone che fuggono da conflitti e persecuzioni è in continuo aumento e il fenomeno rischia di andare fuori controllo.

Secondo le cifre fornite dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, alla fine del 2014 i profughi aveva raggiunto quasi i 60 milioni, la popolazione dell’Italia: per più della metà bambini. Il numero dei profughi in Europa è salito del 51% nel 2014 rispetto ai 4,4 milioni del 2013. Il Mediterraneo non ha mai visto tante persone avventurarsi nelle sue acque a bordo di carrette del mare: 219.000 gli attraversamenti registrati dall’Agenzia lo scorso anno. Tuttavia la marea lambisce appena l’Europa e si riversa invece in modo più massiccio sui paesi più vicini alle aree di crisi: il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani e l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Eppure l’Europa grida all’invasione. Finalmente, dopo gli esecrandi spettacoli dei profughi africani abbarbicati sulle scogliere di Ventimiglia in attesa di passare in Francia, dei profughi infilati nei Tir in sosta a Calais in attesa di passare in Inghilterra ed i nuovi disastri di barconi carichi di naufraghi nel Canale di Sicilia, l’Unione è venuta nella determinazione di eccepire alle desuete norme sul diritto di asilo  contenute nel Trattato di Dublino, accettando il principio della delocalizzazione, per ora volontaria, dei richiedenti asilo nei paesi membri. Grava ancora sull’Italia, come prima terra di accoglienza dei profughi, l’obbligo a procedere con il concorso degli ispettori provenienti da Bruxelles a  più rigide procedure di identificazione dei richiedenti per distinguere gli aventi diritto dai migranti economici e rendere così possibile in un secondo momento la trasformazione del meccanismo di ricollocamento da volontario e provvisorio a vincolante e permanente nel quadro di una più efficiente regolamentazione del diritto di asilo.

Per ora non si va più in là.