Per chi si occupa di comunicazione, è obbligatorio scrutare il futuro.

Che senso ha comunicare ciò che è già avvenuto e che non può più essere modificato? Questo ruolo (comunicare quanto avvenuto) fa capo all’informazione che deve (dovrebbe, sic!) essere trasparente, documentata, onesta e svincolata da interessi non resi espliciti. Sappiamo che spesso non è così. Tanto che per parlare dei mezzi di comunicazione di massa si usa, in alcuni testi specialistici, la definizione di “sistema mediatico economico”. 

D’altronde l’agire comunicativo e la funzione dei consulenti strategici non trova una propria ragione in funzione del presente, ma dei processi di cambiamento che avvia o che cerca di accompagnare.

Operativamente questa responsabilità ricade su chi comunica. 

Responsabilità dell’agire comunicativo è, dunque, “anticipare” nel presente il futuro.

Peraltro è tipico della società complessiva (più avanti vedremo meglio cosa s’intende per società complessiva) l’imperativo anticipatorio.

Occuparsi di comunicazione, soprattutto nello scenario della società complessiva, vuol dire, dunque, scrutare il futuro o, quantomeno, provare a farlo.

Apparentemente semplice è vedere il prima, affascinante anticipare il dopo, difficile parlare del “durante”. 

Eppure imbarcarsi in un’articolazione in periodi dei fenomeni sociali (cosa che faremo in questa occasione) è impresa temeraria. Ancor di più lo è avventurarsi in ipotesi sul futuro. Chi lo fa deve aspettarsi di essere sommerso dalle critiche (se va bene, perché indica che qualcuno lo ha letto o sentito). Se non altro per assecondare questa speranza val la pena premettere una serie di “distinguo” prudenziali. 

Una ricetta preconfezionata che ci conduca in questo periglioso viaggio non esiste o, quantomeno, non la conosciamo. Per prevedere il futuro possiamo solo basarci sulla rilettura del passato. La media ponderata dei cambiamenti dei lunghi periodi, insieme alla riscoperta degli indizi anticipatori del cambiamento sono la base di conoscenza per l’intuizione dei trends che ci attendono.

Come ogni società ci siamo mossi e ci stiamo muovendo dal vecchio al nuovo. Inevitabilmente presi tra ere diverse sperimentiamo la turbolenza governata dalle leggi del caos.

Per questo in un presente talvolta incerto, se non penoso, la trasformazione continua, inevitabilmente… per fortuna.

Non sempre questi ampi schemi sono leggibili. Con l’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa del sistema mediatico economico ci sembra di vivere in una società fatta sola di grandi eventi, che passa da un’emergenza alla successiva con poche pause (e con poco interesse) che consentano di osservare il processo laborioso e quotidiano che si svolge sotto la superficie. 

Mentre è proprio lì sotto che dobbiamo guardare ed indagare per scrutare il futuro. 

Il modo più affidabile di prevedere il futuro potrebbe essere dunque, di provare a comprendere il presente alla luce del passato.

Per provare ad anticipare i trends del futuro può essere utile anche esaminare alcune variabili, concetti o immagini attraverso una periodizzazione degli ultimi decenni.

 

Seguiremo una articolazione in quattro fasi:

    • dal dopoguerra agli anni Settanta;
    • gli anni Ottanta e Novanta,
    • il nuovo secolo,
    • verso il terzo millennio.

 

Una periodizzazione a quattro stadi non ha nessun supporto scientifico. Potremmo farla a due stadi, a cinque, a dieci: il tempo diventa solo un nostro testimone per scandire l’evoluzione, una punteggiatura che mettiamo nel libro della storia.

Molti amano lavorare su modelli a due tempi: società agricola e società industriale; società industriale e società dell’informazione; civiltà della selce e civiltà del silicio; società moderna e società post-moderna; era del carbone ed era della luce. Dar loro torto è difficile.

Quasi tutti gli studiosi concordano che le epoche non cambiano in giorni (né in anni) precisi. Utilizzare un grande evento (una guerra mondiale, il crollo delle torri gemelli) come pietra miliare nel passaggio da una civiltà ad un’altra è solo una convenzione spesso frutto della capacità generativa dei mezzi d’informazione di massa. 

A livello individuale il passato e il futuro sono vissuti “psicologicamente” sotto forma di ricordi o progetti, mentre a livello sociale il passato e il futuro convivono con il presente in forme materialissime come le leggi, l’architettura, le organizzazioni.

La periodizzazione non è altro, quindi, che una scelta strumentale rispetto all’oggetto indagato.

 

 

La metafora iconografica

Il nuovo secolo: il labirinto

La metafora che possiamo prefigurare per l’esordio del terzo millennio è quella del labirinto.

Ci riporta a una struttura decomposta, disarticolata, di difficile comprensione sistemica, lettura complessiva.

La società sta già mutando sulla base di milioni di variabili, ciascuna delle quali varia ogni giorno, ogni minuto, condizionando le altre, attraverso un processo di interazione e feed back, di interconnessioni e interdipendenze, che non siamo ancora in grado di simulare, ma solo di percepire. Per il momento intuiamo che un battito di ali di farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas ma non siamo in grado di spiegare la catena causa effetto.

Come ci ha spiegato Alain Turing 

«Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza»

 

Non riusciamo a individuare il momento della svolta, la biforcazione, le sliding doors, ma al massimo intuire il trend, la possibilità.

Il labirinto è un percorso circolare, con poche vie d’uscita e tanti cul de sac; con strade che ritornano confondendo chi le percorre, con vicoli ciechi che suggeriscono direzioni senza sbocco.

E’ la sensazione che ci danno sia l’Economia che la Politica.

Le vediamo percorrere sentieri senza sbocco, dai quali tornano indietro per imboccare trionfanti nuove strade che alla fine risultano vicoli, il più delle volte ciechi. Abbiamo la sensazione di dover ripercorrere la nostra storia per capire quali sono stati i crocevia che ci hanno condotto su strade sbagliate.

L’immenso patrimonio di conoscenze acquisite si scontra con l’incapacità di gestirlo, di leggerne le interdipendenze, di capirne le interconnessioni. Di comunicare conoscenza.

 

Gli anni Ottanta e Novanta: la galassia

Percepiamo ancora il peso della frantumazione che ha caratterizzati gli anni Ottanta e Novanta.

Se il labirinto è la metafora che ci richiama il nostro presente e futuro immediato, la galassia è la metafora nel periodo caratterizzato dalla frantumazione.

Nell’enorme frastuono della frantumazione le regole morali sono divenute accessorie, marginali; le dinamiche psicologiche riguardavano il rapporto tra conflitti e repressione: quanto di entrambi è accettabile e come gestire i superamenti di soglia, gli sconfinamenti.

Questa deflagrazione non ha prodotto solo liberazione e creatività, ma anche un potenziale distruttivo che in parte è sfociato nel caos dei sistemi di relazione, in parte in milioni di crisi esistenziali, in parte nell’accumularsi di ricchezze spropositate in mano di pochi: i padroni (accuratamente celati e sfumati dal sistema mediatico economico) del pianeta. 

 

Dal dopoguerra agli anni Settanta: la piramide

La frantumazione è stata la conseguenza delle molte crepe che si erano formate sotto il manto della solida metafora imperante fino agli anni Settanta: la piramide.

Crepe causate da evidenti contraddizioni che il processo di industrializzazione generava.

Una società fondata sull’individualismo aveva prodotto la maggiore massificazione della storia; una società fondata sui valori tradizionali stava adorando sempre di più il dio Consumo; una società conservatrice e conservativa stava accelerando come mai era successo nella storia il suo tasso di cambiamento: poca cosa rispetto al nostro presente, ma un salto quantico all’epoca.

La società emersa dalla ricostruzione e dal piano Marshall richiamava l’immagine di un solido molto compatto.

La piramide associa all’idea della compattezza:

  • quella della gerarchia, l’immagine del vertice ristretto saldamente appoggiata su una ampia base
  • e quella della convergenza unitaria verso il “centro in alto”.

 

Nella piramide c’è il simbolo della storia della società industriale moderna anche per il suo suggerire un’altra immagine tipica e dominante nel ventesimo secolo: la strada in salita.

L’umanità è vista camminare verso un futuro sempre migliore aiutata dai Lumi e dal Progresso scientifico.

Camminare in salita è compito sia dell’intera umanità, sia del singolo.

Chiari sono sia la meta, sia i percorsi: perché la piramide è un monolite fondato su una sostanziale condivisione dei valori e delle icone che presiedono la vita quotidiana.

 

Verso il terzo millennio: l’arcipelago

L’obiettivo a cui tendere nel terzo millennio è, invece, l’arcipelago, dove la complessità si sostituisce alla compattezza della piramide e dove la frantumazione cosmica della galassia diventa molecolare, con capacità gravitazionale di auto-attrazione. 

Insieme di isole tra di loro interdipendenti e interconnesse, l’arcipelago è un microsistema articolato e differenziato, ma potenzialmente cablabile e aggregabile in un nuovo sistema unitario, maggiore (questo sì) della somma delle parti che lo compongono.

Nel frattempo prevale una visione odierna di isolamenti, di incomunicabilità, di babele di saperi, lingue e culture, sulla quale cerca di imporsi, invece di una Nuova Sintesi basata sull’integrazione gravitazionale della conoscenza, un Nuovo Impero governato da logiche finanziarie e numeriche, con concezioni totalizzanti, planetarie, che si basano sul processo coercitivo dell’integrazione, dell’Unione, della concentrazione.

 

Le competenze richieste

Prima degli anni Settanta: sapersi integrare (know what

Vien da sé che un sistema sociale non può reggere se le skills, le capacità e le abilità di milioni di uomini e donne non sono funzionali ad esso.

Quindi prima degli anni Settanta il sistema scolastico e culturale favoriva certe skills e non altre, in una logica coerente con la metafora di riferimento del periodo: la piramide.

Così l’homo faber dell’evo industriale doveva essere capace di adattarsi e integrarsi; di dipendere e di comandare; di delegare o di essere delegato.

Doveva pensare in modo binario (giusto-sbagliato, vero-falso, causa-effetto, prima-dopo) in coerenza con le idee di Autorità e di Progresso. Doveva saper gestire le organizzazioni e il loro aspetto principale: la razionalità.

Doveva saper intervenire, cioè agire di fronte ai problemi. 

 

Gli anni Ottanta e Novanta: saper lottare (know why)

Conteso tra le certezze e l’insicurezza, per l’homo post industriale la capacità di lottare diventa essenziale. per cambiare, contrapporsi, contrattare o conservare, la lotta è l’esercizio più diffuso e, dunque, la capacità più richiesta.

Le forze “emergenti” evidenziano come prioritaria anche la “capacità di immaginazione” che viene spesso confusa con il sogno.

Dopo la dipendenza e la delega, peculiari capacità richieste prima degli anni Settanta, diventano prevalenti la controdipendenza e la capacità di partecipare.

Al rispetto delle regole si sostituisce la capacità di usare gli spazi creati dalle regole. In termini logici perdura il pensiero binario, lineare, al massimo rovesciato nel segno…

Fino agli anni Settanta i giovani rappresentavano la futura classe dirigente, ora sono diventati gli Antagonisti, e reclamano sin da subito il loro diritto a dirigere i giochi.

Prima degli anni Settanta gli adulti e gli anziani erano i depositari del sapere, ora diventano quelli di cui diffidare.

La capacità di gestire le organizzazioni diventa secondaria rispetto alla capacità di “gestire il territorio” (simbolica struttura materna e fusionale) e “gestire il corpo e le emozioni”.

 

 

Il nuovo secolo: saper gestire le possibilità (know how)

La questione delle skills, delle capacità e abilità richieste diventa cruciale, L’homo neo-tecnico o digitale, l’abitante della società complessiva, si muove in uno scenario dove vivere è molto più difficile di quanto non lo fosse negli anni precedenti.

Non si tratta di difficoltà tecniche (che aumentano solo per minoranze ristrette) o di sopravvivenza (che aumentano per l’umanità africana) quanto di difficoltà della convivenza sociale organizzata.

La complessificazione e la trasformazione richiedono un salto di qualità nella capacità di “gestire l’ansia”.

In modo assai sintetico possiamo ritenere che si richiede un rafforzamento generalizzato dell’Io, come principale carta per il governo dell’arcipelago.

L’alternativa, del resto, alla forza della conoscenza e, quindi, alla ricchezza della diversità sarà sempre più simile alla comunicazione del mondo orwelliano, con più tecnologia, più ristretta élite, più repressione, più integrazione.

L’uomo dell’evo dell’informazione dovrà caratterizzarsi per la sua creatività e capacità di esplorazione, perché il mondo occidentale è alla ricerca di una rifondazione culturale senza modelli, ma simbolica.

Lo sviluppo raggiunto impone una reinvenzione di scienza e morali, linguaggi e sistemi organizzativi. Non occorre guardare lontano per convincersi che oggi servono milioni di uomini capaci di reinventarsi il proprio modo di vivere e di comunicare mentre i social network rendono pubblico il privato.

Sempre più è richiesta una capacità di differenziarsi e articolarsi, cioè di “funzionare al plurale”, con ruoli plurimi, in spazi diversi, sovrapposti, comuni.

Se ne sta accorgendo pure la pubblicità.

Appaiono le prime crepe nel concetto di villaggio globale proprio mentre la comunicazione è globale, trasversale e diffusa a livello planetario.

L’era della globalizzazione e dell’uniformità viene aggredita dalla fertilità della diversità e dalla forza dell’interdipendenza.

 

Verso il terzo millennio: comunicare conoscenza

Diventa cruciale la capacità di “essere indipendenti” (nel giudizio, nel lavoro, nelle scelte) e “interdipendenti”, cioè connessi.

Ciò comporta la capacità di comunicare attraverso codici multipli e flessibili, di negoziare in situazioni “istituenti” più che “istituite”, di conciliare.

Gli individui, come già avvenuto per la scienza, devono rivoluzionare il loro modo di pensare, passando dal pensiero binario e lineare al pensiero multiplo e circolare, indispensabile per la gestione di sistemi, ma anche, semplicemente, per l’azione nei sistemi.

Se, prima, era richiesta agli individui la capacità di gestire la razionalità organizzativa o l’emotività del conflitto, il terzo millennio richiede la “capacità di gestire il possibile,” il Progetto, il Potere.

Occorre dilatare le proprie competenze nel tempo (il progetto) e nello spazio (il potere).

Saper apprendere e apprendere diventa competenza basilare così come saper prevenire.

Saper dialogare diventa competenza per trasferire conoscenza.

L’homo neo tecnico deve sapersi porre in relazione con l’umanità, deve far conoscere e dare conoscenza. Deve motivare, deve saper ascoltare: deve, quindi, saper comunicare..

Lo strumento principale per gestire il cambiamento nella società arcipelago è, quindi, la comunicazione. che per poter essere autorevole dovrà essere capace di trasferire conoscenza cioè ad alto valore aggiunto di conoscenza delle interconnessioni della società complessiva).                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

 

La società complessiva

A questo punto va chiarito che cosa s’intende per “società complessiva”, termine sorto nell’ambito dei comunicatori d’impresa intorno agli anni Ottanta.

La società complessiva è la stessa cosa, o quasi la stessa cosa della società interdipendente.

“Quasi” perché al concetto di interdipendenza (già di per sé esplicativo) va aggiunto il concetto di complessità con i conseguenti principi della teoria del caos.

Ma mentre le caratteristiche della complessità, o meglio della società complessa, si possono dare per conosciute e già variamente studiate dalle scienze sociali, le caratteristiche della società complessiva vanno meglio interpretate nelle loro linee essenziali a non solo e tanto dalle differenze semantiche tra complessità e complessività, quanto, piuttosto sulle interferenze e le caratteristiche introdotte dagli studi sul caos.    

La società complessiva, interdipendente, multiculturale e “caotica” è la società interconnessa e complementare nelle frammentarietà delle sue parti sociali economiche, produttive, tecnologiche e informative che devono ricercare e rintracciare un equilibrio armonico.

Una società in cui esiste una sempre più generalizzata condizione di interazioni plurali e reciproche, che devono essere gestite e governate in un quadro, appunto, di complessità e di logica non lineare coerente con i principi che la regolano.

Società complessiva può essere detta, quindi, in prima approssimazione società complessa; ma è una società complessa in cui l’azione del singolo o della singola organizzazione è svolta con la consapevolezza delle interdipendenze e la capacità di adattamento alle interdipendenze.

Una società dove occorre la conoscenza delle interdipendenze, con l’obiettivo di un risultato di qualità ed armonia complessiva e globale. Una società strutturata su ponti e non da muri.

La definizione di “complessa” introduce una descrizione statica della società.

La definizione di “complessiva” è una descrizione della società invece dinamica secondo la funzione svolta in essa dall’agire di ciascuno dei componenti.

L’idea di complessità si contrappone all’idea di complessività per quanto riguarda i parametri di valutazione dei comportamenti, gli obiettivi pratici delle azioni, le modalità tecniche della comunicazione.

I parametri di valutazione sono definiti a priori nella società complessa, indefiniti fino alla verifica dei risultati nella società complessiva.

Gli obiettivi pratici delle azioni sono di riduzione della complessità nella società complessa, di sviluppo delle interdipendenze e delle interconnessioni pianificate e casuali nella società complessiva.

Le modalità tecniche della comunicazione sono di informazione per la ricerca del consenso nella società complessa, con l’apice nella comunicazione spettacolo o l’informazione virtuale delle istituzioni e della politica, mentre sono, all’opposto, di consapevolezza del conflitto (conoscenza dell’“essere sé stesso” dell’altro) nella società complessiva.

 

Comunicare per conciliare

Il destino di ogni organismo, movimento, istituzione o Stato è sempre più collegato a un universo multicomprensivo; così come è collegato a fenomeni di sviluppo o di degenerazione conseguenti alla complessità dei sistemi (piani di sviluppo internazionali, mondializzazione delle economie, equilibri monetari planetari, finanza spregiudicata, complessità dell’evoluzione produttiva, disintermediazione, circolazione planetaria delle informazioni; ma anche limiti delle risorse, crisi di sostenibilità ambientale, degrado sociale, migrazione transcontinentale, angosce e sindromi della sopravvivenza).

Nelle condizioni di interdipendenza delle società moderne e globalizzate quello che sempre più conta e più conterà non saranno solo le teorie o i principi fondamentali di governabilità dei sistemi complessi, ma i rapporti che interverranno tra loro. Cioè, la comunicazione.

Rapporto significa comunicazione ma anche orientamento della conciliabilità di interessi diversi.

La comunicazione tra interessi divergenti ed eterogenei sta appunto nel trovare strade comuni, modalità di conciliazione.

Senza questa costruzione di ponti i rapporti tra i sistemi saltano e le fratture diventano invalicabili. Costruire muri non serve, non bloccano i fenomeni e rendono ardua la ricerca della conciliazione, della condivisione. 

In conseguenza si può affermare che i sistemi politici, economici e culturali moderni possono costruire ponti e collegamenti mediante:

  • accorgimenti per comunicare in modo pluralistico e multiculturale,
  • accorgimenti per controllare e influenzare il comportamento di sistemi contrapposti,
  • modalità per accordare eticamente i principi e i contenuti della comunicazione. 

Da queste riflessioni ne scaturisce una decisiva: la comunicazione può essere la cinghia di trasmissione che fa funzionare i rapporti e i meccanismi della società complessiva quando la comunicazione stessa riesce a trasmettere conoscenza e a farla circolare mediante processi interdipendenti.

 

Un approfondimento lessicale

La società comunicativa

A metà degli anni Ottanta la società si presentava ancora scollegata negli scenari generali e tutti i moduli culturali, scientifici, tecnici erano riferiti a una situazione generalmente scollegata.

Per questo non è da sottovalutare l’importanza di analizzare l’adeguamento dei parametri della conoscenza alla società interdipendente che si prefigurava all’inizio degli anni Novanta e che i social media hanno, di fatto, diffuso a livello planetario.

In una società interdipendente le culture diventano anch’esse interdipendenti e patetici e astorici sono i muri di protezione, sia che si tratti della Grande muraglia che del filo spinato di Viktor Orbán.

Nel processo tra interpretazione comunicazione e conoscenza la comunicazione assume ruolo e fisionomia di collegamento tra culture, come un valore che viene inviato da un corpo sociale all’altro, da un sistema all’altro, mediante una catena di rapporti interagenti; corpi e sistemi culturali che piuttosto che definire una società del caos potranno generare e formare una “società comunicativa”, nel senso esteso del termine, anche se intesi come sistemi aperti che mantengono le loro particolarità e i loro confini nei confronti di un ambiente complessivo.

Società comunicativa è la società in cui la comunicazione non è scissa dagli obiettivi, istituzionali, aziendali o organizzativi, e ad essi successiva e strumentale; ma è, all’opposto, modalità di determinazione degli obiettivi e sostanza della loro realizzabilità. 

Nella società comunicativa non serve una volontà istituzionale o organizzativa, che ponga l’obiettivo che, poi, la comunicazione aiuterà a raggiungere, all’inverso è utile una comunicazione, istituzionale o organizzativa, che serva a stabilire l’obiettivo, che sarà raggiunto secondo le indicazioni della comunicazione, ovvero secondo la conoscenza dell’altro che la comunicazione ha dato.

Qui sta la chiave del discorso: chi ha ruolo nella società comunicativa?

 

La comunicazione autorevole

Ancora oggi, ma lo denunciammo già alla fine degli anni Ottanta, si ritiene (erroneamente) che il sistema della comunicazione sia sopratutto un processo industriale che comprende l’industria dell’informazione (mezzi di comunicazione, pubblicità), dell’elettronica, dell’informatica, ma anche l’industria culturale (editoria, spettacolo, cultura sponsorizzata).

E questo è un errore che può portare verso l’artificialismo estremo, verso la mercificazione ulteriore, che può ridurre la comunicazione a un mero prodotto industriale, da consumarsi in grande quantità (programma televisivo, libro, dvd, …) come appunto un prodotto e di breve durata.

Tutto quello che può essere affermabile o adeguato a una società globalizzata (quindi caotica e complessa) non è adeguato ad una società interdipendente, ma comunque caotica, (e, quindi, complessiva), ove una componente dovrebbe essere liberamente funzionale all’altra e viceversa e non etero-diretta dalle centrali dell’impero mercato. 

La comunicazione intesa invece nella visione della società complessiva fondata sull’interdipendenza e sull’integrazione di saperi, competenze, analisi e finalità, darà come prodotto un diverso modello interpretativo dei fenomeni. Ovvero un modello di tipo autorevole fondato sul consenso comunicativo in virtù della consapevolezza delle interdipendenze e delle interconnessioni che la comunicazione può produrre.

Comunicazione autorevole è la comunicazione che dà conoscenza, in particolare delle interdipendenze e delle interconnessioni che sono l’aspetto basilare della società complessiva.

 

Conoscenza e industria della comunicazione

Eccoci, dunque, ad una prima conclusione: non si può isolare dalla “società comunicativa” la rappresentanza delle categorie esplicitamente o virtualmente “autorevoli”: in linea di principio, quindi, le categorie degli scienziati, dei filosofi, dei giuristi, degli economisti, dei tecnologi, degli ambientalisti, dei teorici della società, etc; in pratica di coloro che hanno come principale valore aggiunto della loro attività l’aumento della conoscenza.

La comunicazione di queste categorie attraverso la conoscenza che trasmette potrebbe idealmente influenzare e agire sugli stessi quadri dell’industria della comunicazione con collegamenti di tipo inter oggettivo e multi culturale. 

Più complesso invece è riuscire a influenzare il sistema pubblicitario di mercato e sul marketing di impresa essendo, essi, regolati da rigide logiche finanziarie impenetrabili a contro tendenze culturali di tipo critico o correttivo.

Sarebbe ingenuo e persino arbitrario pensare il contrario.

La comunicazione autorevole può, tutt’al più, influire sul sistema politico legislativo che, a sua volta, è, potenzialmente, in grado di intervenire per mediare queste logiche, che, comunque, sono parte del nostro sistema sociale, o per correggerne eventuali abusi.

Nella società interdipendente il modo di vivere può essere elevato o degradato dalle decisioni di chi detiene il potere, di chi determina ciò che succederà.

Anche le decisioni potranno essere influenzate dalla comunicazione espressa dalla società comunicativa in quanto autorevole e in grado di trasmettere conoscenza (occorre però che le categorie prima citate, quindi scienziati, giuristi, educatori non si auto escludano andando a ricoprire il ruolo sociale, politico e comunicativo che loro compete).

La comunicazione autorevole si può, allora, proporre come modello di comunicazione a sostegno della gestione del cambiamento introducendo se non un ordine di razionalità almeno la ricerca di un nuovo equilibrio in una società complessa e caotica, attraverso l’individuazione di una sequenza di comprensione tra interessi e valori attraverso il medium del linguaggio della conoscenza.

Per concludere il valore della comunicazione sta nel contenuto della conoscenza che può offrire.

 

Caos e razionalità nella comunicazione

Tutto il dibattito in corso sulla modernizzazione del pianeta e, in particolare del nostro Paese, riguarda il tipo di razionalità, le decisioni razionali che devono essere applicate nei sistemi complessi, specie quando emergono condizioni di incertezza, di ingovernabilità, di rischio, di caos.

L’attenzione si sposta su come e se è possibile verificare la possibilità di un azione che utilizzi tutti i dati di conoscenza disponibili trasmessi dalla comunicazione e, quindi, di dare maggiore operatività alla conoscenza stessa.

La mancanza di un approccio aperto con questo tipo di conoscenza operativa, che si misura con le reali esigenze della produzione materiale e sociale, liberandosi di vincoli dogmatici o conformisti, ha impedito ed impedisce di utilizzare al meglio la grande disponibilità di potenzialità tecnologiche, scientifiche e culturali adeguate al governo di processi e sistemi di alta complessità.

L’agire comunicativo, la società comunicativa può contribuire non solo ad analizzare i meccanismi di funzionamento e di game over della società complessa, ma anche ad azionare razionalmente la comprensione dei fenomeni e, quindi, l’intendersi, il capirsi, il chiarire i linguaggi, il mettersi in rapporto, il collegare.

Occorre, per esempio, collegare l’informazione scientifica e quella politica, saldare la cultura tecnologica a quella delle aspettative e degli accadimenti sociali, ma occorre anche mettere in relazione la cultura logico matematica, con quella della fantasia, della creatività, della soggettività, in grado di immaginare scenari originali o esaltanti (cosa che avviene quasi esclusivamente nell’entertainment).

C’è da dubitare che l’industria della comunicazione e dell’informazione, così come oggi si manifesta, con i suoi meccanismi, i suoi sottaciuti interessi economici, i suoi arbitrati politici; con il suo potere che ha come fine strategico la concentrazione illimitata e la creazione di una società di nuovi schiavi (“dipendenti” “subordinati” “a tempo indeterminato”, il potere straordinario della semantica lessicale) sia in grado di raggiungere in termini di razionalità le diverse culture.

Dovrebbe essere questo, invece, l’obiettivo della comunicazione autorevole: ridare dignità al lavoro dell’uomo, liberarlo dalle catene degli interessi economici dominanti, usare la conoscenza come mappa per la conquista dell’indipendenza personale in una società complessiva e caotica.

Non si tratta di basare tutto sulla “conoscenza certa” criticata da Popper né, tanto meno, di trasformare la conoscenza in ideologia dogmatica, ma credere, questo sì, in una pluralità di orientamenti contraddittori e sperimentali tali da configurare nuove soluzioni armoniche e circolari.

In altre parole non si tratta di lasciare platonicamente i problemi fondamentali della complessità nelle mani dei detentori del sapere, né, ancor meno, in quelle dei detentori del potere ma di condividerne la conoscenza.

La storia ci insegna che le società hanno saputo trovare la loro originalità in una combinazione di idee, in un meticciato culturale.

Oggi, in una società caotica e complessiva, soggetta, come sempre è stato, a correnti migratorie planetarie, si può trovare l’originalità in una combinazione di idee.

Oggi si può trovare l’originalità e l’identità sociale in un equilibrio tra cultura e comunicazione, attraverso una strategia del dialogo e del rapporto.

Se è vero che il sistema di produzione attuale, l’economia di mercato, corrotta ed eterodiretta dalle logiche dominanti della finanza, si è imposta contro il “mondo vitale” come si esprimeva Habermas, si può ottenere un’attenuazione di questa realtà in una diversa dimensione della comunicazione, predisponendo gli strumenti mentali necessari all’autodifesa.

Possiamo quindi riprendere la generalizzazione di Habermas se per “mondo virtuale” intendiamo anche l’autonomia dei giudizi, la società interdipendente e comunicativa e la dimensione collettiva della conoscenza come fine per un mondo plausibile pur se sottoposto alle direttrici generate dal caos.

 

 

Bibliografia

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