Considerazioni di un alieno atterrato in Cina

Ogni straniero che va a vivere in Cina ha un suo percorso, proprie motivazioni: io, dopo aver conseguito una laurea magistrale in Scienze Politiche – Relazioni Internazionali a Firenze all’inizio del 2012, ho sperimentato quanto fosse difficile trovare un lavoro in Europa e, dopo un paio di esperienze poco soddisfacenti, ho deciso di cercare lavoro in Cina. Nel giro di qualche mese ho trovato un impiego come insegnante di inglese. Sono stato continuativamente in Cina per circa due anni e ho insegnato inglese a bambini di diverse scuole. Non mi ero portato dietro soltanto le mie competenze nella lingua inglese ma anche il mio curriculum universitario e la mia innata curiosità; grazie a questi, ho potuto osservare la società cinese con la quale sono venuto in contatto e sviluppare alcune riflessioni che propongo in questo scritto. L’oggetto principale delle mie riflessioni riguarda la questione della democrazia in Cina rapportata alle condizioni reali della società cinese come ho potuto osservarla nel mio soggiorno.

Molti uomini politici e attivisti europei o americani che si trovano a parlare di questo tema, spesso dimenticano l’obiettività da analista e ricorrono alla moralità da polemista. Essi condannano la Cina per non aver implementato un sistema di libera democrazia pluralistica o, almeno, lo facevano fino a poco tempo fa, cioè fino a quando i soldi e le installazioni industriali cinesi sono diventati talmente importanti per le economie del resto del mondo sviluppato che parlare delle mancanze della Cina potrebbe essere controproducente. Personalmente trovo difettose quelle considerazioni e il difetto mi sembra stia a monte, nel senso che la critica polemizza sul sistema politico senza prendere in considerazione (o prendendo in considerazione marginalmente) il popolo amministrato da tale sistema. Invece, secondo me, è proprio integrando nella riflessione anche questo fattore che possiamo sviluppare una visione più chiara di tutta la questione.

Nei due anni nei quali ho lavorato in Cina ho potuto visitare una gran parte della metà orientale della Cina continentale, oltre a Hong Kong, Macao, Taiwan, Corea del Sud e Giappone. I miei metodi di indagine erano molto semplici e partivano da quello più semplice di tutti: chiedevo, e mi chiedevo, vari perché. All’inizio non fu facile: il mio cinese, durante i miei primi giorni di permanenza, non era buono, e veramente pochi degli indigeni parlavano inglese a livello di conversazione. Ma questo non mi fermò e continuai a studiare la lingua cinese (non una delle lingue più difficili che io abbia cercato di imparare in vita mia, devo dire). Ebbi a che fare con ogni tipo di persona, dal cameriere al poliziotto, dalla maestra al cuoco, al manager. Era uno dei metodi che avevo per imparare, integrandolo con tante altre fonti.

La Cina è uno dei paesi più estesi del mondo, il più popoloso del mondo, composto da più di 50 etnie diverse costituzionalmente riconosciute, con una lingua nazionale comune ma almeno una dozzina di dialetti, ognuno parlato da almeno un milione di persone. La tradizione statuale è lunga almeno 3000 anni, durante i quali si sono susseguite molte dinastie imperiali, c’è stato un’inarrestabile sviluppo delle arti figurative, si sono sviluppate 9 diverse tradizioni culinarie… Per uno come me, interessato di geografia, storia, filosofia politica, linguistica, arte, cibo, la Cina è senza dubbio un paese estremamente interessante. Ogni informazione e competenza linguistica che acquisivo, la usavo per la conversazione o la ricerca successiva. Le reazioni che ricevevo, in generale, erano di sorpresa; molti cinesi mi dicevano: “Wow, ne sai tantissimo!” o “Wow, ne sai più di me”. Lo strumento, dunque, lo avevo; tuttavia mi capitava di osservare situazioni inattese. Per esempio, quando mi trovavo a parlare di altri paesi, la cosa risultava spesso molto difficile perché non trovavo conoscenze condivise. E questo non solo riguardo all’Italia, cosa che avrei capito. Per esempio, quando si parlava degli Stati Uniti  rilevavo grande ignoranza, sia rispetto alla geografia dell’Unione che alla politica americana che alla storia di quel Paese.

Mi chiedevo dunque quali fossero le cause di queste lacune. Una causa poteva essere l’impossibilità di accedere alle informazioni. I livelli di analfabetismo in Cina, però, non sono alti, e la provincia nella quale ho abitato per più tempo ha una percentuale di analfabeti inferiore al 2%. Ci sono molte edicole in Cina, e debordano di giornali o libri, non solo originariamente cinesi (Grazia, Cosmopolitan, Sports Illustrated e Harper’s Bazaar hanno tutte un’edizione cinese). I negozi di libri mettono in fila moltitudini di volumi di ogni genere, non solo in cinese ma anche in inglese. Ci sono biblioteche monumentali che distribuiscono libri fino alle 7 di sera (e stanno aperte fino alle 9) 6 giorni la settimana, e dove si trovano riviste americane come TIME, Entertainment Weekly, GQ. Internet è censurato, è vero: Facebook, Instagram, Twitter, Google e Youtube non possono essere usati, e Whatsapp non può essere scaricato. Ma molti altri siti Internet sono accessibili, tra cui Wikipedia (anche se la versione in cinese è censurata). In più, i cinesi hanno le loro piattaforme di comunicazione sul web: Renren, QQ, Weixin, Sina Weibo sono social network che si sono diffusi in tutta la Cina e stanno anche diffondendosi all’estero; ad essi, ora, anche molti stranieri hanno accesso. La televisione in Cina è molto seguita, nonostante il fatto che le emittenti siano soprattutto possedute dal governo centrale o dai vari governi provinciali. I cinema proiettano i più recenti film di Hollywood, insieme alla vastissima produzione cinematografica cinese.

Quindi, le informazioni sembra ci siano, almeno in teoria esiste il modo di apprenderle ed esiste il modo di trasmetterle. Se non c’è conoscenza, mi pare piuttosto che dipenda dal fatto che non viene coltivata. Camminando per una città cinese, si possono vedere negozi di KFC1, McDonald’s, Pizza Hut, Starbucks, Burger King. Ogni dieci o venti isolati si trova un campetto da pallacanestro ed è facile trovare qualcuno con cui avere una conversazione riguardo all’NBA2. I fast food e la pallacanestro sono elementi della cultura americana che si sono diffusi largamente nella società cinese; eppure Ernest Hemingway, le funzioni del Congresso americano o la questione razziale negli Stati Uniti non hanno uno spazio nemmeno lontanamente paragonabile in popolarità alla NBA ed al KFC. L’ignoranza provoca la, e si estende nella, mancanza di opinioni. Infatti, l’ignoranza del popolo a riguardo di alcuni temi fa sì che tale popolo non possa farsi un’idea fondata su quanto ci sia di positivo, di negativo o da cambiare. E quando ho riscontrato la conoscenza, mi è parso che mancasse comunque lo spirito critico:  le nozioni non sono analizzate ma mandate a memoria senza essere capite nel profondo. E questa è una parte del problema.

Un’altra parte del problema l’ho focalizzata grazie al fatto che mi sono trovato a parlare con molte ragazze. Molte si rifiutavano di uscire con un ragazzo straniero. Questo atteggiamento mi lasciava perplesso e, chiedendone il perchè, ottenevo risposte di due tipi. Il primo tipo evidenziava un pregiudizio: uno straniero, in quanto tale, non avrebbe potuto capire le necessità di una ragazza cinese; anzi, non avrebbe potuto capire tout court una ragazza cinese per via della barriera linguistica (questo spesso mi veniva spiegato in cinese, come replica a una mia domanda posta in cinese). Il secondo tipo di risposta sollevava una questione di responsabilità: “Mia madre non vorrebbe”; “Mio padre non capirebbe”; “La mia famiglia vuole che stia con un ragazzo cinese”; “La gente mi guarderebbe strano”; “Le mie amiche penserebbero che per noi non c’è futuro”. Insomma: “Non so se vorrei, ma certamente non posso”. Di questa scelta non ci si prendeva la responsabilità diretta ma la si attribuiva ad altri, senza nessuna paura di passare come persone prive di volontà (e responsabilità) propria. In queste e in altre conversazioni con le ragazze cinesi veniva fuori un altro comune elemento: volevano tutte sposarsi prima di compiere 30 anni. Per come la vedo io, un matrimonio può anche essere concluso per interesse; però proviamo a restare romantici e supponiamo che il matrimonio sia un sodalizio nato dall’amore tra due persone, amore abbastanza forte da tenerle insieme per la vita. Nell’ottica cinese, tuttavia, il matrimonio sembra non dipendere dai sentimenti ma dall’età. Quando sottolineavo questo paradosso, le ragazze lo riconoscevano come tale ma non cambiavano idea; dicevano: “Mia madre mi ha sempre detto così”; “Tutte le mie amiche la pensano così”; “La società mi guarderebbe storto”. Ancora, la responsabilità di un comportamento paradossale non veniva presa di persona ma attribuita a qualcun altro.

Questa impressione è stata confermata da un’altra esperienza. In Cina, io non lavoravo direttamente per le scuole in cui insegnavo ma ero sotto contratto con un’agenzia per la quale lavoravano molti insegnanti stranieri. A un certo punto ho avuto l’impressione che nella scelta dell’insegnante da impiegare ci fosse una preferenza nei miei confronti. Dopo un po’, questo mi è apparso strano e, anche a rischio di danneggiarmi, ne ho chiesto (con discrezione) i motivi. Il personale dell’agenzia mi diceva che dipendeva dalle richieste del personale delle scuole; il personale delle scuole mi diceva che dipendeva dalle richieste dei genitori degli alunni; i genitori degli alunni dicevano che i bambini sarebbero stati spaventati da maestri neri (molti dei miei colleghi erano di origine africana). Però io avevo notato che quando i miei colleghi neri venivano chiamati nelle scuole, molti di loro erano in effetti assai bravi con i bambini, che si divertivano tantissimo. Quindi, il colosso della deresponsabilizzazione aveva i suoi piedi d’argilla distrutti da alcune evidenze. Tali evidenze, semmai, portavano a concludere che non solo non ci si prendeva la responsabilità di un comportamento discriminatorio, ma se ne dava una spiegazione facilmente confutabile. Tirando le somme: le ragazze che rifiutavano gli stranieri, quelle che volevano sposarsi prima dei 30 anni, il personale delle scuole, i genitori degli alunni… tutti sembravano avere in comune il rifiuto della responsabilità delle proprie azioni o, perlomeno, il rifiuto di dichiararla.

Da queste mie esperienze ho tratto l’impressione che in Cina sia diffusa una scarsa tensione al formarsi solide opinioni sui temi principali della vita pubblica e una tendenza ad evitare le responsabilità. La cosa mi è parsa importante perché questi fattori possono essere il corretto riassunto dei doveri che il diritto alla democrazia comporta per i cittadini. Se il cittadino di una qualunque democrazia si trova a votare per un candidato, dovrebbe farlo valutando le opinioni di tale candidato sui grandi temi, cercando di capire se esse sono o meno vicine alle sue. E quando vota per un candidato, dovrebbe prendersi la responsabilità di quello che il candidato potrebbe fare una volta eletto, poichè non sarebbe arrivato a quella posizione senza la decisione degli elettori. Ora, la mancanza di un’opinione pubblica consapevole può compromettere l’instaurarsi di istituzioni democratiche pienamente funzionanti; ne sono esempi i risultati della “esportazione della democrazia” in Afghanistan e in Iraq e il sogno infranto delle “Primavere arabe”. È anche per questo, secondo me, che la situazione attuale, in Cina, non facilita lo sviluppo di una democrazia matura.

Se ci si chiede quali possano essere le cause di questo atteggiamento, forse ragionare per esclusione può aiutarci. In Cina non si forma un’opinione pubblica consapevole perché la Cina è un regime totalitario? Potrebbe essere una causa, senza dubbio. Il Partito Comunista Cinese ha accentrato nelle sue mani l’intero processo decisionale e le sue gerarchie hanno la responsabilità diretta delle politiche locali, nazionali e di relazioni internazionali. Aziende parastatali controllano ancora una gran parte dei settori edilizio, bancario e manifatturiero cinesi. Inoltre, la censura controllata dal Partito decide quali informazioni possono arrivare alla conoscenza del pubblico. Ma, come abbiamo visto, non tutta la conoscenza è inaccessibile e i modi per trasmettere quella accessibile sono tanti e molto usati. L’economia privata cinese è molto sviluppata, con una decina di imprenditori tra i cento uomini più ricchi del mondo. Inoltre, nonostante i tentativi da stato etico fatti dalle gerarchie del Partito, esse lasciano comunque ai singoli cittadini ampi margini di scelta (ad esempio nelle abitudini alimentari, nelle scelte lavorative, nella vita sessuale, nel curriculum accademico etc.). Quindi, il sistema a partito unico in Cina non può essere considerato il fattore che arresta lo sviluppo di un popolo informato e responsabile.

I cinesi non sono un’opinione pubblica matura a causa del confucianesimo che li permea? È indubbio che la cultura confuciana abbia avuto un’influenza enorme sulla cultura cinese degli ultimi duemila anni. Per entrare a far parte della burocrazia imperiale, era essenziale sapere a memoria gli scritti di Confucio. A tutt’oggi ogni scuola cinese, dalle elementari alle università, espone con orgoglio il ritratto del filosofo dello Shandong. La cultura confuciana è molto materialista; in essa il controllo esercitato dalla società sul singolo e il valore dell’obbedienza all’autorità assumono  grande rilevanza. Ma anche il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong hanno una storia di influenza confuciana, anche massiccia. Però, in questi territori esistono democrazie vitalizzate da un pubblico non solo consapevole ma anche battagliero nella difesa delle proprie scelte. Prova possono esserne, ad esempio, gli eventi della “Rivoluzione degli Ombrelli” di Hong Kong nell’autunno 2014, in cui un ampio settore della società hongkongese (anche se non la maggioranza) ha protestato per settimane contro un sistema di elezione del loro capo dell’esecutivo che toglieva al corpo elettorale un vero controllo  su tale scelta. Lo stesso dicasi per le elezioni che non hanno riconfermato Ma Jing Yeou come presidente di Taiwan. Il Presidente Ma aveva incontrato pochi mesi prima il suo omologo di Pechino, Xi Jinping, in un colloquio a due a Singapore. I Taiwanesi non hanno dato per scontato di doversi arrendere al trend per cui tutti devono venire a patti con la Cina, e hanno eletto alla presidenza una candidata dichiaratamente fredda riguardo alle relazioni fra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina. Quindi, una tradizione confuciana non impedisce di per sé lo sviluppo di una società consapevole.

 

Anche se i cinesi volessero la democrazia, sarebbero capaci di lottare per essa? Qui ci viene in aiuto la storia cinese con una serie di esempi. Anche la Cina ha avuto rivoluzioni, ossia sommovimenti popolari che hanno portato a cambiamenti politici. La dinastia Yuan (XIII-XIV Secolo) fu abbattuta dal movimento dei cossiddetti “Turbanti Rossi”; durante la dinastia Qing (XVII-XX Secolo) ci fu la rivolta dei Taiping, che creò un potente stato nella Cina Sudorientale; poi la rivolta dei Boxers (inizi del ‘900), i cui esponenti divennero, con l’appoggio dei burocrati, autorità in molte parti dell’impero. La Rivoluzione di Sun-Yatsen fece abdicare i Qing nel 1911, quella di Mao Tsetung istituì la Repubblica Popolare che tutt’ora governa la Cina continentale. Analizzando queste “rivoluzioni”, ci rendiamo però conto che nessuna di esse, qualsiasi fosse l’idea del leader, acquistò credito e supporto fra le masse in quanto promotrice di una riforma democratica delle istituzioni. Quello che accendeva il popolo contro l’autorità costituita erano la corruzione di quest’ultima e la predominanza di un elemento “straniero” in essa (gli Yuan erano mongoli, i Qing manciù; inoltre, i sommovimenti popolari summenzionati, da quello dei Taiping in poi, si erano sempre scatenati contro regimi a cui si imputava sudditanza alle potenze straniere). Si lottava sempre contro la corruzione e la subalternità allo straniero, mai per la democrazia. Se i cinesi avessero voluto la democrazia, avrebbero lottato per essa, come hanno lottato ogni volta per quello in cui credevano e a cui tenevano. E non è che tale impulso sia finito.

Molto recentemente, nel 2010, l’autorità per le trasmissioni televisive cinesi voleva obbligare una rete televisiva di Guangzhou (la vecchia Canton, vicino a Hong Kong) a trasmettere in Cinese Mandarino mentre quella rete aveva sempre trasmesso in Cantonese, il dialetto predominante in quella città. I cinesi di madrelingua cantonese sono molto gelosi del loro idioma, al quale conferiscono una dignità uguale a quella della lingua standard. La decisione dell’autorità a proposito della lingua da usare innescò delle dimostrazioni. All’inizio, come per tutti gli eventi del genere, i manifestanti chiesero il permesso di dimostrare; quando questo venne negato, la gente passò oltre e manifestò lo stesso per alcuni giorni finchè l’obbligo delle trasmissioni in Mandarino non venne ritirato. Non fu difficile organizzarsi. I partiti che non sono quello comunista sono fuorilegge e l’associazionismo è molto limitato; però i cinesi sono interconnessi con gli SMS, Weixin, Renren, QQ, Weibo, e non è difficile per loro ritrovarsi in molti in un luogo convenuto. Questo dimostra che i cinesi sono pronti a lottare per rivendicazioni che sentono proprie. La democrazia non è evidentemente tra di esse.

Quindi, secondo la mia opinione, il motivo per cui i cinesi non sono un’opinione pubblica consapevole è legato a una serie di scelte che hanno fatto e che fanno tutti i giorni. Si potrebbe dire che siano loro stessi i responsabili della loro irresponsabilità. Questo, in realtà, è un problema che può essere rintracciato anche in Paesi dove le istituzioni democratiche sono da lungo tempo funzionanti e ritenute ben consolidate. Qualsiasi popolazione può, in effetti, responsabilizzarsi o deresponsabilizzarsi attraverso una serie di scelte fatte dai cittadini. Inoltre problemi come l’analfabetismo o il semi-analfabetismo, l’accesso all’istruzione, l’indipendenza e l’utenza dell’informazione, la presenza di mezzi di comunicazione e la rilevanza dei contenuti per cui vengono usati, la difficoltà nel prendersi responsabilità, le tradizioni filosofiche che non valorizzano il pluralismo, il disuso o l’uso sbagliato del proprio potenziale da parte della società; tutti questi fattori possono falsare, contaminare, inficiare, ostacolare, soffocare e/o scoraggiare il processo democratico, sia dove esso si è instaurato da lungo tempo, sia dove si spera di instaurarlo, sia dove esso neanche appare all’orizzonte. È indubbio che prendersi delle responsabilità non sia semplice; in effetti richiede coraggio e forza, e non è innato ma si sviluppa con la maturità. Informarsi comporta certo un impegno, richiede tempo ed attenzione, e non sempre tale processo è incoraggiato. Prendersi responsabilità o informarsi è ancora più complesso, specialmente se tali decisioni si oppongono al sentire comune. Ma è proprio dall’opposizione verso lo status quo che nasce il cambiamento. E non è ancora chiaro quando questo cambiamento avverrà, se avverrà, in Cina.

 

“Ringrazio i membri dell’associazione ARPA Firenze, che con il loro ascolto e il loro parere mi hanno aiutato nella redazione di questo articolo”.