A Roma la temperatura media invernale è di parecchi gradi sopra zero. Gela di rado. Molti romani, però, portano vestiti più pesanti a Gennaio e a Febbraio. Qualche volta in quei mesi accade che la temperatura e l’umidità salgano insieme. Chi porta un maglione pesante  e un giaccone suda e sta a disagio. A  me succede di rado, ma quasi ogni volta penso ad Alberto  Moravia che in qualche racconto romano ha descritto quelle sensazioni spiacevoli  in modo vivi do. 

Moravia era abile. Le sensazioni fisiche dei suoi personaggi vengono spesso percepite da chi lo legge come se fossero le proprie. Poi si mischiano con i pensieri, con le riflessioni e con i ricordi narrati e rivissuti dal lettore. La prosa di Moravia non frappone ostacoli. Ne ho calcolato l’indice di leggibilità ed è uno dei più alti  fra quelli dei prosatori moderni. Non è autore che in alcuni evochi una forte simpatia. Però dalle sue pagine traspare una  cultura  vasta e profonda. Non era mai goffo. Però, come può accadere a chiunque, se si distraeva  e improvvisava risposte alle domande di un intervistatore, esprimeva concetti incompiuti e difettosi.

Rilasciò una lunga intervista ad Alain Elkann [pubblicata in volume nel 1990], in cui parlava fra l’altro del suo rapporto con il tempo sia dal punto di vista personale, sia riguardo ai modi in cui lo elaborava nella sua narrativa. Moravia disse fra l’altro:

“La durata è fondamentale, la durata vuol dire storia, e la storia è fondamentale. Perché la durata è fondamentale? Perché è il più grande mistero di tutti. La durata è Dio, insomma. Perché il tempo passa? Perché uno nasce, cresce e muore? Il nouveau roman e i surrealisti vorrebbero uscire da questa trappola. È un tentativo che è molto interessante, indubbiamente, ma insomma il tempo è Dio. È Dio che è il tempo. Il mondo esiste, dura, perché? È un mistero e il mistero è Dio. Tutto ciò che non si spiega è Dio.”

Come sostengo spesso, poeti e romanzieri dovrebbero lasciare il passo ai fisici che sanno spiegare meglio le cose che hanno capito sul tempo e che possono chiamare “mistero” concetti e processi che nessuno di loro è riuscito a  capire. I fisici più interessanti non parlano di Dio. Alcuni di essi ne hanno parlato dicendo cose serie. Moravia se ne era occupato poco: le sue frasi “Il tempo è Dio” – “Il mistero è Dio” non dicono niente. Per asserire concetti significativi, ci vogliono  definizioni e sillogismi ben costruiti.

Diceva bene  Moravia  che la storia è fondamentale. Per parlare del tempo bisogna saperla. Nell’intervista, invece, continuò a essere distratto. Disse:

“Io qualche volta mi fermo a riflettere e dico: duemila anni fa girava della gente con gli stessi sentimenti, però vestita di un peplo. Ma perché? Scrivevano in una lingua diversa dalla mia. Perché è morto il latino? Non si sa. Da questo viene la grande domanda: da dove veniamo, dove andiamo? Anch’essa è sempre legata al tempo.”

Andiamo male: il peplo lo portavano solo le donne — in Grecia. I Romani portavano la tunica e, sopra, la toga.  Il latino, poi, non è morto. Alcuni di noi lo parlano e lo leggono. E la transizione dal latino alle lingue romanze, come anche l’adozione di parole latine nelle lingue del nord Europa sono ben note e documentate.

È più interessante la parte finale dell’intervista  in cui Moravia discute l’ uso dei tempi grammaticali nei suoi romanzi. Il primo romanzo che lessi, scritto tutto al presente, fu Krieg  di Ludwig Renn – una storia anti-militarista sulla fatica, la noia e la tragedia della guerra 1915-1918 nelle trincee  del fronte occidentale.

Moravia confessa:

“È molto difficile acchiappare la durata, anche per me. Infatti sto sempre in lotta con l’imperfetto, il passato prossimo e il presente. I miei libri cominciarono ad essere scritti in passato remoto. Ne ho fatti molti al tempo presente. Molti al passato prossimo. Non riesco ad adoperare l’ imperfetto, che è il verbo narrativo per eccellenza. Non riesco a dire “aveva”, “faceva” ecc. Questo vuol dire che anch’io ho qualche cosa che non funziona con la durata. … Non sento il tempo, mi sfugge.”

È una confessione candida e inattesa. Chi di noi ha scritto racconti  e romanzi sa bene che per inventare una storia dobbiamo incastonarla nel tempo. Le tragedie erano vincolate a rispettare l’unità  di tempo (un giorno) e di luogo, seguendo le regole dettate da Aristotele. Le trasgredì Manzoni. Nel cinema il “flashback” fa salti di anni avanti e indietro. Alcuni spettatori all’antica non riescono a seguirli e  perdono il filo della storia.

 

Pubblicato su L’Orologio  12/7/2019