Die Vernunft hat immer existiert, nur nicht immer in der vernunftigen Form

K. Marx

 

Riprendo in mano un vecchio testo di studi, “Capitalismo, e teoria sociale”, di Anthony Giddens, pubblicato nel 1979, nel quale tre grandi pensatori, Marx, Durkheim e Weber, “dialogano” tra loro, esercitando una critica economica, politica e morale della moderna società industriale, con l’intenzione di verificare se il tempo ha cancellato ogni traccia attualizzabile o se è possibile utilizzare ancora qualche categoria concettuale utile per l’analisi (e il cambiamento) del presente.

Perché, poi, titolare questo articolo “Tre versioni di Marx”? la cosa si spiega, al di là delle diversità teoriche e cronologiche degli autori, che pure si collocano tra il 1820 e il 1920, con il fatto che, nel libro di Giddens, il pensiero di Durkheim e Weber ha come continuo punto di riferimento, e confronto, quello di Marx. In effetti, Anthony Giddens opera una “ricognizione dei punti di contatto e di contrasto tra Marx da un lato, e Weber e Durkheim dall’altro”[1], pur nella difficoltà derivante dalla sfasatura temporale nella pubblicazione delle opere di Marx, rispetto alla vita e alle opere degli altri due studiosi.

 

Cominciamo dalla versione di Marx (1818-1883)

Secondo Marx, gli uomini non producono mai come individui, ma sempre come membri di un determinato tipo di società: ciò significa, perciò, che ogni forma di società si fonda su un insieme determinato di “rapporti di produzione”[2]; perché per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in specifici legami e rapporti, e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali; da cui la “struttura di classe”, un aspetto fondamentale dei “rapporti di produzione”. Sempre secondo Marx, le diseguaglianze sociali non sono solo un problema “distributivo”, ma determinate dal rapporto di produzione che intercorre tra gruppi di individui e la relativa “proprietà dei mezzi di produzione”, da parte di una classe sociale, i capitalisti.

Da questa organizzazione sociale, dipende, anche, la distribuzione e l’organizzazione del potere politico, e da questo l’ideologia dominante, ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa[3].

Ma il punto centrale della teoria marxiana è, pur sempre, il “plusvalore”: infatti, il “lavoro astratto in generale” si può misurare solo sulla base della quantità di tempo spesa dal lavoratore nella produzione di una “merce”, distinguendo il “valore d’uso” (o utile) dal “valore di scambio” come categoria storica della produzione di “merci”. Ora, secondo Marx, le condizioni della “manifattura moderna” aumentano la produttività del lavoro, per cui una parte del valore prodotto corrisponde al valore della forza lavoro (la sua riproduzione, quindi i salari) mentre la quota eccedente ricade nella categoria del “plusvalore” (o plus lavoro), all’origine del “profitto” che nasconde la nascita del plusvalore e “il segreto della sua esistenza”[4]. E se il “saggio del plusvalore” corrisponde al rapporto tra “plusvalore” (pv) e “capitale variabile” (v), ossia, il lavoro, per cui si esprime attraverso la formula pv/v, il “saggio di profitto” deve essere calcolato considerando anche il “capitale fisso” (c) o la tecnologia, per cui è dato dalla formula pv/c+v, che esprime, anche, la “composizione organica del capitale”; sempre inferiore al “saggio del plusvalore”, in quanto, secondo Marx, è solo il “capitale variabile” la fonte del “plusvalore”, per cui all’aumento del “capitale fisso” corrisponde, a parità di “capitale variabile”, un declino del “saggio di profitto”, innescando le note dinamiche di declino del saggio medio del profitto, e con ciò, della stessa forma sociale capitalistica.  

 

La versione di Durkheim (1858-1917)

Per Durkheim non vi è traccia della struttura di classe di Marx ma solo divisione del lavoro sociale e specializzazione[5]; niente alienazione[6] ma, eventualmente, anomia[7]; anche se la specializzazione nella divisione del lavoro non può essere interpretata solo in termini utilitaristici, come somma di molteplici contratti individuali, bensì fondata sulla “base morale”, ossia, le regole morali, necessarie per neutralizzare le carenze di senso insite nell’organizzazione sociale (e del lavoro) del tempo. Nel suo pensiero, inoltre, la proprietà privata è la base del processo di individualizzazione, tendenza costante della modernità. Lo stesso processo di modernizzazione presuppone il superamento della “solidarietà meccanica” (fase pre-capitalistica), e della coscienza collettiva, con la somiglianza tra gli individui, a favore della “solidarietà organica” (al posto della “solidarietà meccanica”) che si avvale della differenza tra gli individui, e l’espansione della divisione del lavoro, che sfocia nel “culto dell’individuo”[8]. In questo caso il coordinamento sociale viene garantito dalla interdipendenza funzionale della divisione del lavoro, a spese della coscienza collettiva, anche se la “cooperazione” deve avere, anch’essa, una moralità intrinseca. Insomma, rispetto a Marx, niente “coscienza di classe”, “ideologia della classe dominante” o “rapporti di produzione socialmente determinati”, ma una “fede comune” e condivisa dalla comunità, “pur tuttavia individuale per quanto concerne il suo oggetto”[9]. Certo, Durkheim non nega il conflitto e il disfacimento sociale della modernità, ma lo addebita alla desincronizzazione tra la divisione delle funzioni economiche e le regole normative che disciplinano i rapporti tra i diversi ruoli, ammettendo la possibile progressiva scomparsa delle ineguaglianze di opportunità individuali. È significativo, in tal senso, quanto afferma Durkheim, in De la division du travail social, (Paris 1893 op. cit.), secondo cui la divisione del lavoro produce solidarietà solo se è spontanea, e nella misura in cui lo è”; in quanto, “essa presuppone non soltanto che gli individui non siano relegati dalla forza in funzioni determinate, ma anche che nessun ostacolo, di qualsiasi natura, impedisca loro di occupare nel contesto sociale il posto che corrisponde alle loro capacità”.

 

La versione di Weber (1864-1920)

Se per Marx, una delle condizioni per la nascita del capitalismo furono le enclosures[10], per Max Weber, all’origine dello sviluppo capitalistico, vi è stata l’influenza del protestantesimo ascetico (a partire dal XVI sec.); in particolare il concetto di “vocazione professionale” (Beruf) diffusosi al tempo della Riforma protestante, e condotta in vari paesi centro europei da figure religiose e riformiste (o rivoluzionarie) come Lutero e Giovanni Calvino, in aperta rivolta contro la Chiesa di Roma. Ciò che trasforma l’attività economica tradizionale non è lo sviluppo delle forze produttive, come per Marx, ma “lo spirito capitalistico”, un processo di riorganizzazione razionale della produzione, basato su di un nuovo spirito d’iniziativa imprenditoriale[11]; non più “capitalismo d’avventura” ma calcolo economico, non più tran tran tradizionale dell’artigianato corporativo, ma dedizione al lavoro professionale, come dovere e virtù, “riportando gli affari terreni della vita quotidiana entro una sfera di influenza religiosa che tutto ricomprende in sé”[12].

Al centro della riflessione weberiana vi è la raffinatissima “credenza nella predestinazione”, per cui le azioni umane non possono fare alcuna differenza per il destino dell’uomo, purtuttavia le “opere buone” finiscono per essere il “segno” della predestinazione alla salvezza. Dunque, una “intensa attività nel mondo” era necessaria per eliminare dubbi in proposito, quindi, la prova di essere tra gli “eletti”; in tal modo il calvinista assegnava il massimo valore etico al lavoro nel mondo materiale. In questo quadro il “profitto materiale”, l’accumulazione e l’investimento, la produttività dell’impresa, accreditano la credenza di essere investiti dalla “grazia”, e sostituiscono l’uso della ricchezza ai fini di una vita dissipata e oziosa, avviando il circolo virtuoso dello sviluppo industriale.

Ma non è tutto, secondo Weber, tale dottrina doveva condurre il credente ad una situazione di “straordinaria solitudine interiore”, portandolo a cogliere i frutti di una vita operosa e laboriosa per darsi una risposta ad una questione decisiva, che prima o poi ogni credente doveva sentirsi costretto a porsi: sono tra gli eletti? Qui abbiamo un completo rovesciamento del “materialismo storico” di Marx, per il quale l’ideologia appare come una falsa rappresentazione della realtà, mentre in Weber è proprio la “sovrastruttura” ideale a creare le basi di un nuovo modello economico materiale.

 

 

 

Punto di vista

Gli scritti di Marx, Weber e Durkheim, mentre divergono, rispettivamente, sulla nascita e i meccanismi operativi della società capitalistica: rispettivamente, “rapporti sociali di produzione”, “autorità razionale-legale della forma burocratica” e “specializzazione e cooperazione sociale”, convergono sulla critica sociale (e morale) della società moderna. Per cui, “alienazione” (Marx), “anomia” (Durkheim) e “disincantamento del mondo”[13] (Weber), sono gli effetti perversi dello sviluppo capitalistico, che richiedono, relativamente, il superamento della forma di relazioni che è connessa con quel “modo di produzione” (Marx) o la necessità di “regole morali” (Durkheim) e, infine, l’accettazione della “gabbia di ferro” (secondo Weber); ovvero, in quest’ultimo caso, l’insolubilità del conflitto tra processo di burocratizzazione e democratizzazione delle società moderne, tra razionalità formale (legale-razionale) e i valori più tipici della cultura occidentale (creatività e autonomia dell’individuo).

Sia Durkheim che Marx si focalizzano, dunque, sulla “divisione del lavoro” ma la interpretano diversamente: se per il primo, la disumanizzazione del lavoro dipende dalla posizione “anomica” dell’operaio, per il secondo, l’obiettivo della nuova società è l’abolizione stessa della “divisione del lavoro”; nel primo caso il problema è solo l’”integrazione” nel secondo la dissoluzione effettiva dei “rapporti sociali di produzione”. Si fronteggiano, dunque, principi morali non più adeguati alla forma della società moderna (Durkheim) e il recupero delle qualità universali dell’uomo comuni ad ogni individuo (Marx), “liberato dai vincoli professionali che fanno della sua mansione lavorativa specializzata la sua principale caratteristica sociale”[14]. Quindi l’”anomia” si può superare tramite la “solidarietà organica” mentre l’”alienazione”, nella accezione di Marx, è legata alla formazione del sistema di classe della società borghese, dissolvendo la visione religiosa del mondo, per cui il “dominio degli dei” è sostituito dal “dominio del mercato”[15]. Mentre, se consideriamo il problema della burocrazia, Marx e Weber dissentono sul suo ruolo, espressione particolare dello stato borghese versus fenomeno generale, in base al legame che egli (Weber) postula tra lo sviluppo della burocrazia e le strutture amministrative necessarie all’esercizio del potere razionale, considerando, anche, che nelle fabbriche cooperative (ipotizzate da Marx), l’autorità non è più accentrata, rompendosi così la tradizionale gerarchia burocratica dell’impresa (Weber).

 

 

Tre punti di vista sul capitalismo.

Per Marx, il capitalismo è proprio per sua essenza una società di classe, che trasforma i legami della società civile in puri rapporti di mercato. Mentre sia Durkheim che Weber riconoscono che la società moderna è una società divisa in classi (cosi come in ceti), ma queste corrispondono solo alla progressiva specializzazione della divisione del lavoro. Certo, Durkheim ammette la divisione “coatta” del lavoro come “forma anormale”, perché in taluni casi non corrisponde più alla “distribuzione dei talenti naturali”[16] e deve recuperare la “specializzazione organica”, in un quadro di cooperazione tra i vari gruppi professionali. D’altronde, anche Max Weber parla criticamente di capitalismo ma in termini di “calcolo razionale” della moderna impresa capitalistica, sottoposta a intensi processi di razionalizzazione che estendono l’espropriazione del lavoratore dai mezzi di produzione (cavallo di battaglia di Marx) a gran parte delle istituzioni della società contemporanea; affermando la “parcellizzazione” dell’umanità e il “disincanto del mondo”, come presupposti dell’avvento della razionalità capitalistica. In questo senso, il pessimismo di Weber si spinge più avanti di Marx, in quanto l’esistenza di contraddizioni economiche all’interno del capitalismo, l’esempio tipico è, seguendo Marx, la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, con aumento del capitale fisso (c) rispetto al capitale variabile (v), come denominatori della frazione plusvalore (pv)/c + v, non determina, per Weber, una sua crisi e superamento (come per Marx); bensì, solo, una ulteriore separazione tra i valori caratteristici della civiltà occidentale e la realtà della “gabbia d’acciaio” in cui l’uomo moderno è imprigionato.

 

Il valore dei classici

I grandi pensatori lasciano comunque un’eredità, che non è solo per il passato ma anche per il presente. D’altronde sia Marx che Durkheim e lo stesso Max Weber si sono confrontati con un sistema economico che è ancora quello di oggi, solo trasformato. Infatti, “ancora oggi non si sa dove andrà (il capitalismo), perché inventa la sua strada ogni giorno”. Così, il valore di Marx è stato nella sua capacità di analisi globale di un “sistema”, quello del capitalismo industriale del XIX sec.; mentre, quello di Durkheim è l’aver individuato il ruolo delle “regole morali” nello sviluppo delle società moderna, e infine, Max Weber ha colto l’ineluttabilità della “razionalità rispetto allo scopo” propria della civiltà industriale.

 

Marx, Durkheim e Weber oggi

Ma quali sono gli strumenti politici (macro) e manageriali (micro) per superare la “narcosi” che il capitalismo ha iniettato nelle nostre coscienze (individuali e collettive)?

Marx si concentra sulla necessità dell’uomo di realizzarsi pienamente attraverso il suo lavoro come “impresa”, perché il lavoro è ciò che, alla fine, modella l’uomo[17]. Se alcuni hanno certamente avuto maggiori opportunità di auto-espressione attraverso il loro lavoro, oggi più che mai, la forza lavoro è diventata una merce, e le persone escono e entrano in posti di lavoro più spesso di prima e non hanno la stessa “affiliazione” con l’azienda, propria dell’epoca della “stabilità”[18]. Oggi la chiamiamo “cultura” aziendale, che è la stessa cui anela Durkheim attraverso l’integrazione morale e le competenze specialistiche dei lavoratori. Mentre a livello collettivo, non abbiamo più l’agorà politica, ma, paradossalmente, i centri commerciali che regolano l’attività sociale ridotta a routine consumistica. D’altronde, se Max Weber sottolinea il “calcolo razionale” alla base del capitalismo, questo è asservito, seguendo Marx, al valore di scambio delle merci, maggiore di quello che è necessario per ripristinarlo (riprodurlo). Per non parlare, se allarghiamo il campo alla prospettiva del capitalismo globale, dello sfruttamento economico dei lavoratori a basso costo nei paesi in via di sviluppo da parte di gruppi multinazionali. Se è pur vero che la crescita economica fornisce una maggiore ricchezza materiale per sempre più persone, “c’è motivo di preoccuparsi, in quanto la variante neoliberista del capitalismo sta “crescendo selvaggiamente”, senza direzione, a meno che non vengano attuate significative normative globali[19], peraltro molto improbabili. E, se pure molti credono che il capitalismo, con il suo grande potenziale innovativo, riuscirà a governare i principali e complessi problemi odierni, come il divario di classe globale, la povertà, i problemi di salute e le crisi ecologiche, è pur vero che le criticità individuate da questi tre studiosi (alienazione, anomia e razionalità rispetto allo scopo) della teoria sociale, applicata allo sviluppo capitalistico, rimangono sempre attuali nell’agenda per la governance degli attuali modelli di sviluppo economico e organizzativo.

Una soluzione possibile appartiene allo stesso pensiero critico e storico dei tre autori, o quanto meno, indirettamente, alle loro possibili conseguenze politiche: una redistribuzione della ricchezza tra salari e profitti, ai fini della stabilizzazione dello stesso capitalismo (Marx), in sostanza far riemergere il welfare; introdurre l’etica o la regolazione morale della divisione del lavoro (secondo Durkheim) ed il recupero della razionalità rispetto ai “valori” (già intravista da Weber).  

 



[1] A. Giddens, Capitalismo e teoria sociale, il Saggiatore, Milano, 1979.

[2] L. Althusser, E. Balibar, Lire le Capital, Paris, 1967, sull’uso del termine “rapporti di produzione” negli scritti di Marx.

[3] K. Marx, Il Capitale, vol. II, UTET, 1979.

[4][4] Ivi, vol. III, UTET, 1987,

[5] É. Durkheim, De la division du travail social del 1893, Paris: Les Presses universitaires de France, 8e édition, 1967

[6] In Marx, il processo, tipico dei rapporti di produzione capitalistici, attraverso il quale ciò che è proprio dell’uomo, in quanto frutto del suo lavoro, gli diviene estraneo o gli viene sottratto;

[7] Il concetto di anomia significa letteralmente “assenza o mancanza di norme”. Secondo il sociologo francese Émile Durkheim, l’anomia è uno stato di non corrispondenza tra le aspettative normative e la realtà vissuta.

[8] É. Durkheim, De la division du travail social del 1893, op.cit.

[9] Ibid.

[10] Le enclosures comportarono (dal XIII al XIX secolo), in Inghilterra, l’unione di appezzamenti sparsi in grandi aziende dedite alla coltura intensiva, di proprietà di capitalisti agrari. La conseguenza fu la scomparsa dei piccoli proprietari fondiari, lo spopolamento di villaggi e regioni e l’inurbamento di masse contadine che formarono il proletariato, la manodopera del nascente capitalismo.

[11] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, G. C. Sansoni Editore, Firenze. Prima edizione 1945.

[12] A. Giddens, Capitalismo e teoria sociale, op.cit.

[13] Il passaggio dalla società tradizionale alla società occidentale moderna è attribuito da Weber a un processo di “razionalizzazione“; ossia all’estensione progressiva dell’uso della ragione nell’interpretazione della realtà e nella organizzazione della vita sociale, che si esprime con lo sviluppo della ricerca scientifica, dell’organizzazione statale moderna, dell’economia capitalistica, dell’organizzazione razionale del lavoro che, a sua volta, ha separato impresa e famiglia. Avendo messo in discussione le vecchie credenze e i valori, il mondo è stato reso “disincantato”.

[14] A. Giddens, Capitalismo e teoria sociale, op.cit.

[15]Ibidem.

[16] É. Durkheim, De la division du travail social del 1893, op.cit.

[18] Seconda metà del ‘900, con il taylor-fordismo Keynesiano.

[19] Ibid.