Al concetto di “riciclo” è associato il recupero di qualcosa di obsoleto e di rifiutato, che in qualche modo venga recuperato per inserirlo in qualcosa di attuale e di usabile. Io ritengo invece che il riciclo sia un’arte strettamente connessa con la creatività, con la produzione di nuovi modelli e nuove soluzioni.

“Non esiste il nuovo, ma solo il dimenticato”, diceva Proust riferendosi alla letteratura. In tutte le arti, gli artisti più originali hanno spesso riciclato idee e soluzioni precedenti, trasformandole a modo loro o copiandole tali e quali. Sono famose le variazioni di Brahms su un tema di Haydn, quelle di Mozart su canti e temi di vario genere, le appropriazioni di Bach nei confronti di Vivaldi, e tanti altri esempi che sarebbe tedioso elencare. Eco diceva che un libro parla di altri libri. Gli autori latini si chiedevano se fosse lecito trasformare le opere greche che parafrasavano.

La civiltà dei consumi (mai come in questo caso l’uso della parola “civiltà” è inappropriato) genera rifiuti, che devono essere smaltiti  distruggendoli, riciclandoli o riusandoli. Poiché in natura nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, la distruzione per interramento o incenerimento provoca inquinamento di falde acquifere e dispersione di polveri nocive. Il riuso non sempre è possibile, a meno che non sia progettato a monte, con un design modulare che preveda la sostituzione modulare di qualsiasi componente, e cioè l’esatto contrario dell’obsolescenza programmata, che ci impone di buttare tutto il frigorifero se si rompe la maniglia del portellone.

Il riciclo è la soluzione più “economica”, ma prevede un’organizzazione complessa, che parte anch’essa dalla progettazione, e percorre tutta la filiera e tutto il ciclo di vita di un prodotto, dai criteri di assemblaggio dei componenti, fino a quelli di disassemblaggio nel momento del recupero dal disuso.

Il confinamento mondiale della pandemia Covid19, che stiamo ancora vivendo, ha completamente stravolto le nostre abitudini, il nostro modo di produrre, di vendere, di consumare. Alla paura di contrarre un morbo sconosciuto sia nel suo decorso, sia nelle conseguenze che lascia ai guariti, è subentrato il disagio di tutti i limiti imposti, e per molti la riduzione o la perdita del lavoro. Tutti ci auguriamo che la pandemia passi presto, e che quanto prima si torni alla normalità. Ma quale normalità? Deve tornare tutto “come prima”? O non sarebbe più saggio considerare l’eccezionale esperienza globale come una grande lezione sugli effetti collaterali della globalizzazione e di un modello di sviluppo esclusivamente basato sul profitto di pochi a scapito di tutti gli altri?

Io mi auguro che ci si decida a cambiare mentalità, e inventare un nuovo modello di sviluppo, ecologico, attento alla conservazione della specie umana e non più fatalisticamente votato alla sua estinzione solo per accrescere disumane e astratte multinazionali. La pandemia in epoca di globalismo ci ha dimostrato che con la rete di comunicazioni che abbiamo sviluppato negli ultimi decenni un virus può diffondersi in tutto il mondo in una settimana, dalle megalopoli cinesi fino alle più sperdute isole del Pacifico. Allora, se siamo stati capaci di distribuire ovunque un virus patogeno, non potremmo usare gli stessi sistemi per distribuire ovunque risorse economiche, alimentari, sanitarie? In che modo sarebbe possibile “imparare” dal virus come distribuire denaro? Basta cominciare a pensarci, o comunque non pensare che sia una cosa assurda.

Poiché la diffusione e la pericolosità del virus è stata direttamente proporzionale al livello di sviluppo industriale ed economico (Lombardia vs. Calabria) non potremmo cominciare a pensare a diversi modelli di sviluppo, riciclando tutto quello che c’era di buono nelle economie preindustriali? O ispirandosi direttamente alla natura, che rielabora e trasforma qualsiasi cosa le si lasci in mano?

Quando da ragazzo vivevo con i miei nonni, avevamo una cameriera che cucinava malvolentieri, ma era molto brava come sarta, e riadattava i vestiti dismessi dei nonni per noi bambini. Mio padre non buttava mai nemmeno il più piccolo pezzetto di carta, scrivendo appunti anche sulle buste. Tanta cucina, dai minestroni agli sformati, non fa che riciclare gli avanzi rendendoli più sfiziosi delle pietanze originali. Non sarebbe ora di sostituire l’usa e getta con l’usa e riusa? il problema si aggrava con l’enorme quantità di mascherine che ogni giorno dobbiamo buttare via.

Sento stucchevoli critiche ai sussidi da dare a chi acquista il monopattino. Ma non è più sensato e innovativo incentivare nuovi criteri di mobilità sostenibile, invece di tenere in piedi e sostenere produzioni di automobili e aeromobili ormai di vecchia concezione?

In questi giorni Parigi, da dove sto scrivendo, è sotto una cappa di afa e siamo arrivati a 33 gradi. Che sono tanti per Parigi, ma sono anche 5 gradi meno del Circolo Polare Artico, che ha toccato la temperatura di 38 gradi! E l’inquinamento atmosferico, che si era ridotto durante il confinamento, è subito risalito dopo soli pochi giorni di deconfinamento!

Per favore, facciamo di tutto per non tornare come prima! Impariamo la lezione, cambiamo i nostri paradigmi, recuperiamo le sagge idee dei nostri predecessori, combinandole con le meraviglie tecnologiche a cui siamo arrivati, dalle reti all’intelligenza artificiale.

Il confinamento ha fatto sperimentare a molti il lavoro e la formazione a distanza, e sento già le critiche, da chi sostiene che i rapporti umani sono insostituibili, a chi teme che debbano chiudere tutti i ristoranti e bar che davano da mangiare ai dipendenti in pausa-pranzo. Ma ancora una volta, i rapporti umani non devono limitarsi all’ufficio o alla macchinetta del caffè, ma possono svilupparsi nel quartiere, con gli amici e con i compagni di attività ludiche e culturali. Smart working e smart learning, oltre a dimezzare il traffico pendolare e il conseguente inquinamento, impongono di rivedere i criteri abitativi, dagli appartamenti ai condomini, che non potranno più essere conigliere, ma dovranno ridiventare abitazioni con stanze in cui potersi isolare o convivere con gli altri, strutture urbanistiche con spazi comuni in cui incontrarsi, come erano i caffè e le piazze dei vecchi quartieri e paesi. Quanto basta a lanciare tutto il settore edilizio sena bisogno di “grandi opere”.

Per avere un’idea di come gli artisti prendono un’idea da un artista precedente, e ne fanno qualcosa di nuovo e di personale, rimando al mio articolo sulla creatività riciclante.