Secondo Timothy Morton, il teorico che li ha formulati, gli iperoggetti non sono entità astratte come i concetti e le idee (la libertà, l’onore, l’amore), ma entità concrete e reali, che appartengono ad una scala spaziale e temporale diversa da quella umana, e perciò non ci è concesso di percepirle nella loro interezza (la radioattività, l’inquinamento atmosferico, il petrolio, la globalizzazione).

Per esempio, dell’inquinamento riusciamo a percepire solo episodi specifici, come l’erosione di una costa che ci era familiare, la piena di un torrente, un temporale di abnorme violenza.

Potremmo dire che anche la possibilità di scegliere è riconducibile alla libertà, e il desiderio all’amore. Ma se risaliamo la scala, dietro apparenze ed eventi non troviamo nulla di altrettanto concreto di un terremoto o di un ghiacciaio che si scioglie. L’amore è l’astrazione di un insieme di sentimenti e comportamenti, lo scioglimento di un iceberg è la manifestazione concreta dell’altrettanto concreto riscaldamento globale.

Gli iperoggetti ci costringono a un’intimità con la nostra morte (sono tossici), con gli altri (tutti ne sono colpiti), con il futuro (sono massicciamente distribuiti nel tempo). In genere non ce ne accorgiamo, fino a quando non veniamo in contatto con manifestazioni ed effetti di essi, come accade per il riscaldamento globale, le radiazioni o la pandemia da Covid19.

Gli iperoggetti sono entità reali distribuite nello spazio e nel tempo, come un centro petrolifero o una centrale nucleare, o la biosfera, o il sistema solare. O anche tutto l’insieme delle scorie nucleari, o fra esse solo il plutonio.

Possono essere prodotti dall’uomo, come l’insieme delle buste di plastica, o indipendenti dall’uomo, come la Luna.

 

Sono «iper» rispetto a qualche altra entità, come un albero rispetto alle sue foglie, o una foresta rispetto ai suoi alberi.

Gli iperoggetti hanno in comune alcune proprietà.

      Sono viscosi. Si attaccano alle entità con cui entrano in relazione. Più li avviciniamo meno li conosciamo; ma non possiamo liberarcene per quanto lontano si possa fuggire.

      Sono non-locali. Un iperoggetto si manifesta qui, ora, ma anche in altri luoghi e altri tempi. La sua manifestazione locale però non è quell’iperoggetto, che si ritrae continuamente allontanandosi e nascondendosi.

      Esistono su scale temporali diverse e difficili da percepire. La plastica si elimina dopo 500 anni, il plutonio perde radioattività dopo 24.000 anni. Gli esseri umani fra 100.000 anni forse saranno solo minerali, ma le scorie nucleari saranno ancora attive.

      Sono interoggettivi. Tutti gli oggetti sono interconnessi in una rete di relazioni, come l’internet delle cose o una città fatta di case, strade, mercati, uffici, autobus. O come un’impresa multinazionale.

      Si mostrano per fasi. Le parti o gli effetti degli iperoggetti che noi percepiamo sembrano andare e venire, perché li vediamo solo in certi momenti e in certe condizioni, come il passaggio di una cometa. Gli iperoggetti vengono avanti come onde o tsunami, o si ritraggono e scompaiono, restano a lungo inerti come il magma sotterraneo, e poi esplodono in un attimo come un vulcano.

      Sono futurali. Gli iperoggetti non sono solo distruttori di mondi, ma sono anche oggetti «futurali», «stranieri estranei» capaci di attivare futuri che eludono la mera riproduzione del presente. La fine del mondo è una porta aperta su un futuro in cui l’umano potrà liberarsi dal peso insostenibile della sua stessa specie e del mondo che le aveva costruito attorno, aprendosi al suo essere contaminato già da sempre dalla non-umanità del “mondo”. Non è un futuro che possiamo predire o organizzare, ma un futuro ignoto: un futuro genuinamente futuro.

L’iperoggetto è un mentitore. Non lo vediamo mai direttamente, possiamo inferirlo attraverso grafici, strumenti, tracce di una cloud chamber, scottature solari, malattie da radiazioni, effetti mutageni, nascite.

A cosa tendiamo l’orecchio quando ci sintonizziamo con un iperoggetto? Non è proprio questa incertezza ciò che ascoltiamo? La sensazione che ci viene declamata dalla pioggia che ci bagna, da uno strano ciclone o da una chiazza di petrolio non rivela forse qualcosa di misterioso?

Fin qui, in estrema sintesi e semplificazione, ciò che sostiene Morton.

Ai lettori di questa rivista invece io chiedo: l’impresa può essere considerata un iperoggetto? Risponde alle caratteristiche sopra elencate? E se lo è, fino a che punto è gestibile da un essere umano?

 

 

Rivediamo le caratteristiche degli iperoggetti, applicandole all’impresa.

1.      Rapporto con la morte, e più genericamente pericolosità dell’impresa. La cosa più pericolosa per l’individuo e per la società è l’idea che il fine dell’impresa sia il profitto. Da questa idea derivano inquinamento, abusi sociali, ingerenze politiche, regimi dittatoriali, sfruttamento di deboli, delocalizzazione. In un’impresa etica e socialmente responsabile il profitto dovrebbe essere un mezzo di sussistenza, non un fine.

2.      Viscosità. L’impresa influisce più o meno pesantemente nella società in cui opera, tutti ne vengono in contatto, dai dipendenti agli stakeholder, dalle persone alle istituzioni.

3.      Non-localizzazione e intersoggettività. Impresa rete, smart working, multinazionali pluripartecipate sono entità che, anche se influiscono vistosamente in un determinato luogo, nel loro insieme sono non-locali.

4.      Scale temporali. Molte imprese durano meno della vita di un uomo, molte altre durano di più. Generazioni di dipendenti vi si avvicendano. Anche gli effetti di un’impresa durano nel tempo. Pensiamo all’inquinamento ambientale, allo smaltimento delle scorie, alle trasformazioni sociali generate da nuovi prodotti e nuove tecnologie.

5.      Fasi. Qualsiasi sistema caotico si mostra per fasi, come risulta dalle notissime curve degli “attrattori strani”. Anche l’impresa si mostra per fasi con l’uscita dei prodotti nuovi o il rilancio di prodotti obsoleti, con vertenze sindacali, con incidenti sul lavoro, con assunzioni e licenziamenti.

6.      Futuro. Per sua natura l’impresa è proiettata nel futuro. Intraprendere significa proprio scommettere sul futuro. Ma il futuro dell’impresa è sempre diverso da quello immaginato dai suoi manager: chi poteva prevedere caratteristiche e dimensioni globali della pandemia che stiamo vivendo e che ha messo in crisi tante imprese?

In che modo è possibile gestire un’impresa iperoggettuale? In nessun modo, perché l’iperoggetto va oltre le capacità e le forze degli esseri umani. Se ne può gestire solo qualche aspetto, in modo approssimativo, andando per tentativi. Si possono gestire strumenti e rappresentazioni da usare come riduttori di complessità, come i cruscotti aziendali, la balanced scorecard, gli indicatori Six Sigma, organigrammi, grafici, tabelle, relazioni di bilancio, simulazioni, proiezioni, analisi di mercato, sondaggi. Oggi disponiamo dell’analisi dei big data, di potentissimi sistemi di calcolo e di intelligenza artificiale, che mettono nelle mani dei top manager sempre più strumenti di decisione, guida e controllo.

Ma resta il fatto che l’impresa rimane comunque un iperoggetto misterioso, invisibile, inconoscibile, imprevedibile. Un iperoggetto che interagisce con altri iperoggetti di dimensioni e portata ancora più grandi, come il riscaldamento del pianeta, la globalizzazione dei mercati, la moneta e la finanza, lo smaltimento dei rifiuti, l’economia circolare, l’energia, il pianeta stesso con le sue risorse limitate.