Il treno è una visione laterale della vita; non fai in tempo a vederla ed è già passata.

Paolo Rumiz

 

È quello che abbiamo perso o quello che abbiamo preso?

Bella domanda!

 

Parole in libertà.

E dove ci porterà quello preso e soprattutto dove ci avrebbe portato quello perso?

Tutte domande a cui si può rispondere solo in due modi: fare un bilancio del nostro percorso di vita o immaginarne uno diverso.

È innegabile che il caso giochi sempre un ruolo importante nella nostra vita. Non tutto ciò che facciamo è sempre razionale e frutto di una scelta ponderata. Spesso reagiamo solo meccanicamente agli eventi e quasi sempre la “Dea del destino” definisce i nostri confini e la nostra fortuna. È anche ovvio che riflettere su queste cose significa sempre avere almeno una maturità anagrafica perché chiedersi se il treno l’abbiamo perso o preso comporta che non abbiamo tutta la vita davanti ma solo quella che ci resta da vivere.

Allora la domanda diventa: abbiamo preso il treno giusto? E per caso o per scelta? Qui la cosa si complica perché se la prima domanda era astratta, ma lecita, la seconda implica un giudizio sulla nostra vita, sempre parziale in quanto frutto di percezioni e valori personali o ambientali. A questo punto sarei radicale, nel senso che il treno preso era comunque tutto quello che potevamo o il caso ci assegnava e il bilancio della nostra vita va fatto sul treno in corsa mentre potremmo solo immaginare le multiple traiettorie e stazioni d’arrivo del treno perso.

Devo aver scritto da qualche parte come “scrivere sia un po’ una metafora della vita”. Non è mai lineare ma sempre sequenziale e interdipendente. Neppure ricordo il film, di qualche anno fa, nel quale un monaco eremita rivolgendosi ad un confratello più giovane gli dice: “bisogna fare in fretta, il tempo non aspetta, il cerchio non è rotondo”. Alla fine ogni evento ci porta inevitabilmente al successivo, non programmabile né prevedibile, costruendo una storia (viaggio) che diventa il nostro treno dal quale non si può scendere in corsa ma solo a fine tragitto. Questo è certo; ma sorge una terza domanda: si può ripartire una volta arrivati? Non saprei dire, forse si forse no! A questo punto il tempo rimasto diventa cruciale e si può solo tentare di rientrare nel gioco della vita.

È vero, forse abbiamo perso il treno giusto ma avremmo potuto veramente salire su un altro treno? E poi, seguendo un racconto di nicchia pubblicato molti anni fa, come si intitolava? Non ricordo e forse non è questo il punto; non sono le nostre insoddisfazioni e delusioni più profonde, i nostri dubbi e continue incertezze ad aver creato quello che siamo? Non sono la nostra stessa vecchiaia e le nostre remote cicatrici a testimoniare il valore della nostra vita di oggi o la raggiunta saggezza che oramai ci appartiene? In effetti solo la nostra “ingenuità di un tempo” ci ha permesso “la nascita alla vita“. E alla fine, a prescindere dalle nostre scelte, è pur sempre il “compito” che il nostro treno ci ha assegnato a renderci belli più che mai, “primi tra i primi”, nell’incerto percorso verso la meta finale. Quale che sia il treno preso o perso, giusto o sbagliato che sia, ciò che conta è solo la consapevolezza della necessità del viaggio, dello “spostamento”, a volte confuso o incomprensibile, altre volte “sviluppo dell’errore”, che ci porterà sicuramente da un punto all’altro della nostra vita, magari allontanandoci sempre più dalla meta desiderata e pensata. Ma inevitabilmente anche il nostro restare “fermi” è a suo modo un viaggio, non voluto e con la rinuncia e l’immobilità a fecondare il sogno di un treno o di una meta differenti, forse irraggiungibili e tanto più agognate.

D’accordo; ma allora conta più il viaggio o la meta? E se la stessa meta fosse il viaggio? Niente destinazione, dunque, solo l’inesorabilità del tempo che scorre e può sostituire lo spazio da percorrere nel nostro orologio biologico, che, comunque, contrassegna il nostro percorso di vita. Ma se è possibile sostituire il punto d’arrivo con l’itinerario, a questo punto può andar bene qualsiasi treno o qualsivoglia meta, perché a prevalere non è il mezzo (treno) o il fine (meta), bensì l’esperienza o la memoria di questi. Un grande poeta, di cui ancora una volta non ricordo il nome, ha descritto la nostra vita come il “sogno di un altro a sua volta sognato”; dunque, se confusi o dispersi, c’è sempre il pericolo di smarrirci rischiando di vivere la vita di un altro, salendo su un treno non destinato a noi e pensando che fosse il nostro.  E ancora, seguendo il suo pensiero, che oscilla tra “labirinti” e “combinazioni” segrete o oscure, possiamo solo immaginare i dedali che ci separano dall’ultimo treno e le imprevedibili coincidenze del caso nel prendere o perdere un treno, per raggiungere l’una o l’altra meta, magari, paradossalmente, perdere il treno giusto o prendere quello sbagliato. Ma se il labirinto è “un edificio costruito per confondere gli uomini”, come arriveranno (questi) alla stazione per prendere un qualsiasi treno? e se la “cabala” alterna fortune e sventure degli uomini, come è possibile prendere il treno giusto, o evitare quello sbagliato?

Bene! Ma allora vale di più il nostro “reale” o il sogno di un’altra realtà? Se alla vita reale, il treno che abbiamo preso o perso, aggiungiamo l’”immaginazione” siamo forse in grado  di avvicinare la nostra vita reale a quella sognata, che diventa così il nostro nuovo  viaggio. C’è forse un punto in cui i treni si incontrano e creano nuova realtà o percorsi, nuove vite e stazioni di partenza nonché di arrivo. Se siamo capaci di sognare una vita diversa è molto probabile che il sogno diventi realtà e non avrà più senso la prima domanda (treno preso o perso? Giusto o sbagliato?) perché, come affermato da un celebre “filosofo della liberazione”, anche qui, nel citarlo, non mi sostiene la memoria, compito dell’uomo è “trasformare ciò che fu in ciò che volli che fosse”.

Rimane il fatto che tutte le nostre storie, volute o casuali, belle o brutte che siano, tendono a svanire nella memoria delle generazioni, a costituire di fatto delle ignote e mute esistenze cui solo la scrittura e l’arte possono dare voce e testimonianza; per cui la scelta o la casualità delle nostre vite rimane solo come breve episodio della “storia del nostro popolo” e verrà dimenticata nella “memoria obliosa”, in cui tutte le cose sono “deformate e irriconoscibili”, secondo la nota “metamorfosi” letteraria che ha dato vita alla fibrillante figura dell’insetto protagonista di una trasformazione assurda e simbolica.

Ma che cosa ci spinge a scrivere? E come separare le scritture dagli scrittori?

La prima è una domanda che ci siamo posti tutti, almeno una volta nella vita, mentre per la seconda occorre pazienza e cercare, ossia “navigare nella rete”, prezioso serbatoio dal quale attingere sempre nuove idee, una sorta di enciclopedia digitale regalataci dalla tecnologia. Infatti, proprio scrivendo questo articolo, mi sono imbattuto nel pensiero di un giovane scrittore lucano, ho annotato il nome per non dimenticarlo in seguito, che afferma come le scritture siano “qualcosa da avere accanto ogni giorno”. E’, forse, questo il senso e allo stesso tempo il motivo che spinge un individuo a scrivere un romanzo, o anche la convinzione che “una storia sulla carta diventa immortale e rende immortalità a tutti i personaggi”. È, dunque, importante che le letture sedimentino i concetti e i pensieri più che gli autori destinati a sparire, insieme ai loro lettori, affinché ciò che si scrive e vive sia la testimonianza di ciò che si è (o stati) grazie anche alle scritture lette e metabolizzate, sempre metafore della vita e della morte.

Una cosa da ricordare: a volte bisogna fare attenzione a non perdere l’ultimo treno, perché per tutti c’è una seconda chance, ricordando sempre l’insegnamento della parabola del più grande scrittore del novecento: “Davanti alla Legge. La conoscenza impossibile”. Tutti vorrebbero sapere se hanno preso o perso il treno giusto, molti si ostinano o si arrendono dinanzi ad una scelta possibile ma ardua, altri rimangono irretiti dinanzi alla scelta giusta. Riassumo, a questo proposito, liberamente, la parabola in questione: tutti ambiscono (o dovrebbero) alla verità ma dinanzi alla porta c’è un guardiano che impedisce l’accesso all’uomo di campagna, dicendogli che per ora non può farlo entrare. Il viandante insiste con diverse ragioni e motivazioni trovando nel guardiano, inflessibile, una ferrea opposizione all’entrata; e lui è solo il primo guardiano, dichiara, ce ne sono altri più potenti di lui, “già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me” e d’altronde la stessa luce che proviene dall’interno è abbagliante e ne impedisce la visione. Ma l’uomo di campagna cerca continuamente di corromperlo per averlo dalla sua parte, invecchia e alla fine il guardiano gli chiede “che cosa vuoi sapere ancora?” e lo rimprovera dicendogli “sei insaziabile”. Ma se “tutti si sforzano di arrivare alla legge” risponde l’uomo, “come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare? Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: “Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo”. Se l’ultimo treno perso portava alla verità conveniva prenderlo o è possibile immaginare altre verità, porte e guardiani, diversi viaggi o altri treni o più semplicemente altri viandanti?

 

 

Scritture e scrittori.

Lo scorrere dei ricordi delle letture richiamate, a partire da un mio piccolo e fragile pensiero, “l’ultimo treno”, mi porta improvvisamente, e necessariamente, a ricordare gli “scrittori” delle “scritture”, evocate in questo testo e già in parte anticipate nella prima parte dello scritto. Inconsapevole dello stesso film omonimo di Yurek Bogayevicz, uscito nel 2001; nel quale “la presenza dei lager è rappresentata sotto forma di un treno che ogni notte transita con il suo carico di umanità compressa, e comunque quei convogli si dirigono altrove”.

Anche un film, dunque, può rientrare nell’ambito delle scritture o visioni e come non ricordare, allora, Milcho Manchevski con il suo “Prima della pioggia”, metafora del tempo che scorre senza tornare indietro, andando incontro a scenari di guerra e scontri etnici, attraverso il “ritorno a casa”, cui affidare la propria ineluttabile, e tragica, meta finale del protagonista. Mentre Giuseppe Di Costanzo con “I nemici” ci racconta la nostra sofferta (e inaspettata) “nascita alla vita” con il ”compito”, unico e irrinunciabile, che nobilita e rende ineguagliabile il nostro percorso; cosi come ne “I popoli” il nostro viaggio si arresta per l’inspiegabile comportamento della “guida”, immobile e muta sulla scacchiera dello “spostamento”. Ma tra un viaggio lineare ed uno interrotto ce né uno fantastico, di Jorge Luis Borges, il più grande poeta del ‘900, nei labirinti immaginari di opere indimenticabili come “Finzioni” o “L’Aleph”, fino al “sogno sognato” che rischia di farci prendere il treno di un altro o vivere “nel sogno che non sai che di sognare tutto è finito prima di cominciare, come in quest’andar che è stato e poi finì”. E se ne “Il Castello” di Kafka il viaggio dell’agrimensore è infinito e non raggiungerà mai la meta, anche ne “Il processo” K vive la sua colpa nel fantastico (o reale?) mondo arbitrario senza raggiungere mai la “legge”. D’altronde nella visione circolare di Nietzsche, il treno (preso o perduto) torna sempre allo stesso punto di partenza e l’”eterno ritorno”, in cosi parlò Zarathustra, è il probabile ultimo treno del “cosi volli che fosse”. Se il futuro è il passato il treno può viaggiare a ritroso, “imprimendo al divenire il carattere dell’essere” e questa è “la suprema volontà di potenza” espressa da Friedrich Nietzsche nell’“oltre uomo”; un treno e un viaggio diversi da quelli che conosciamo, capaci di creare nuovi valori e di rapportarsi in modo inedito alla realtà (anche storica). Con nuovi uomini In grado di accettare la dimensione tragica e dionisiaca dell’esistenza. Cosi, nel tramonto di ogni metafisica, l’ultimo treno è ineluttabilmente corporeo e terreno, ogni altra ipotesi di viaggio o meta è inesistente; rischiando però di creare una nuova metafisica della vita basata sull’accettazione di un “principio irrazionale e cieco, cui dobbiamo rassegnarci accettando le cose così come capitano”.

Ma se l’arte, e la musica in particolare, secondo la “filosofia del martello” possono lenire l’”approvazione incondizionata dell’esistenza”, questo è vero anche per la letteratura. Un piccolo ed efficace post di Donato di Capua, che si definisce “cantastorie delirante” afferma: “lo scrittore cerca la sua dimensione, i suoi ricordi, le cose che più desidera, per tenerle accanto a sé ogni giorno, per sapere dove trovarle senza dover per forza soltanto pensarle; per renderle cosi indelebili nel tempo. Allora si inizia a scrivere le proprie emozioni e ci si accorge che si sta creando o più semplicemente, sta nascendo una storia” o un film. Come nel caso di Night Train to Lisbon girato da Bille August pochi anni fa, debitore di un libro “Treno di notte per Lisbona” di Pascal Mercier, molto più antico, nel quale, a sua volta, un libro, Um ourives das palavras (L’orafo delle parole) di Amadeu Inácio De Almeida Prado, muove un racconto nel quale alla fine è scritto: “noi viviamo qui e ora, tutto ciò che è stato prima e altrove è passato.. un passato spesso dimenticato.. se è cosi, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto? Come potrebbe e dovrebbe essere speso tutto il tempo che ci resta da vivere? Libero e senza forma, viaggia leggero nella sua libertà e resta pesante nella sua incertezza. E’ un desiderio surreale o nostalgico quello di ripartire ad un punto della nostra vita ed essere capaci di prendere una direzione completamente differente da quella che ci ha reso ciò che siamo?”

Dunque, l’ultimo treno non esaurisce la nostra realtà (e tutto il reale possibile), sempre parziale, incompleto e in continuo divenire e quasi sempre è “un ritorno a casa” dopo un lungo viaggio della consapevolezza, a “Itaca”, li dove tutto è cominciato, ritrovando le nostre qualità originarie, la nostra vera natura.

Citando ancora Donato di Capua.. “questa e altre storie sulla carta diventano immortali e rendono l’immortalità a tutti i personaggi, alle emozioni ai sogni.. Questo è lo spazio degli immortali.. perché “l’immortalità è quell’attimo fugace che sconvolge e carezza, diventando istante dopo istante la concretizzazione dei sogni”.