Se la cultura fosse tutto ciò che non è natura non potremmo capire il mondo mediterraneo, dove innanzi tutto il colore prima del calore pervade di sé ogni cosa, influenza e muove passioni; suoni e percussioni non voluti dall’uomo scorrono lungo i whadi aridi ormai divenuti piste che congiungono anche villaggi lontani: Il mediterraneo non è luogo di città è un luogo di villaggi e di aree sacre, perennemente si attraversa per ogni dove alla ricerca del Dio sconosciuto e di quello adorato, del popolo che immagina che un remo sia la pala per muovere il grano e la paglia sull’aia. Il mediterraneo non aveva frontiere ma ha posti di controllo, ha muri di divisione, aveva una lingua comune quella franca o il parsi la lingua del mare, altri soggetti i marinai che si muovevano perennemente e avevano casa dovunque approdavano, ma si è persa, e ora le navi non entrano più in porto: le bettoline scaricano le merci: Altri naviganti quelli del deserto lo attraversano.

Non sono i bisognosi a farlo è gente normale che lascia case, famiglie e attività economiche alla ricerca di una sfida da vincere quella con la vita, alla ricerca di quel ruolo sociale che a casa propria non crede di poter mai averne la possibilità. Il mediterraneo è innanzi tutto un immenso camposanto, nella cara Trieste quello musulmano è in pieno centro urbano, il luogo della memoria e del grande viaggio come insegna il libro dei morti egiziano, nonché l’odissea. E a Ghardaïa, città una e trina e Le Corbusier che costruisce e disegna il cimitero delle donne. Ma il viandante non ha da scrivere, arriva in un luogo e diviene cantastorie.

Nelle campagne tunisine come in quelle siciliane durante i lavori in gruppo: la raccolta o la “scavusa” qualcuno aveva il compito di raccontare per distrarre i compagni dalla fatica e dalla ripetitività nell’arsura che le ore più calde si portano appresso, non importava la religione, il colore della pelle o l’oggetto del racconto vita e morte, eros e thanatos, si tenevano compagnia in una ballata senza tempo, non musicata ma reci–cantata. Innanzi tutto, alla stessa maniera la comunicazione passava, diveniva dialogo, e poi lo struscio dinnanzi alla porta della bella di turno che portava alla fuitina fra i poveri o alla richiesta della mano e della dote fra gli abbienti.

La vita aveva comunque un significato e il dialogo comunque realizzato, nasceva un bambino, fino al prossimo racconto alla prossima stagione.

Poi sono venuti i tempi dei localismi, alla fine del XIX° secolo sono nati lo sloveno, l’ebraico moderno e l’albanese inter alia, poi gli antichi mercanti hanno dovuto fermare i loro commerci e poi far distruggere gli stabilimenti. Il Canto della Miorita e quello della baronessa di Carini odorosa di mediterraneo, mentre per le valli di Sicilia si consumano i riti della primavera che rinasce e fa rinascere il mondo, così come descritti dai poeti dell’anno mille della scuola di Bagdad i primi umanisti misconosciuti dalla storia.
Il fuoco che brucia i mobili vecchi per San Giuseppe, se ben ricordo, la dote dei pastori del deserto che le donne in oro portavano addosso per provvedere ai figli nel caso restassero vedove.

Ciò come premessa al dialogo oggi con al centro l’isola dell’anello di Dio la Sicilia.
Se ci prendessimo la briga di riandare per le valli che la compongono ritroveremmo tracce della comunanza perduta dei luoghi dove greci e punici, cartaginesi e romani hanno firmato accordi e poi si sono combattuti, con onore. Scipione l’Africano per 10 anni fu a Siracusa per preparare con i siciliani Zama, facendo grande Roma, ma i siciliani furono gli ultimi a diventare cittadini dell’impero: Caracalla il libico l’aveva già concessa a tutti gli altri.

La Sicilia è terra non violenta forte del fatto che tutti i siciliani sono cittadini del mondo così come il viaggiatore che arriva in Sicilia diviene siciliano, pensiamo agli amici albanesi di Piana che da alcuni secoli con il loro esarcato sono là, ha un problema: acquisire un ruolo attivo e propositivo nel contesto mediterraneo vuoi come dialogo fra poteri ma soprattutto come dialogo fra genti del mediterraneo. Molte persone non sono ancora autosufficienti, mentre nuovi soggetti mandano nuovi vettori sulla luna. L’Islam riconosce il principio della libera cooperazione e rigetta la competizione e il conflitto economico che portano alla formazione della pura economia finanziaria, il modello che
si può, quindi, perseguire è quello della crescita comune, non del kibbuz ormai scomparso, tanto quanto la comunità di nomadelfia e i fasci dei lavoratori di Montelepre, ma della cooperazione socialmente inclusiva e tollerante, che consenta di superare le presenti zone d’ombra ridando dignità alle miriadi di giovani altamente scolarizzati che possono essere il lievito per la crescita sociale ed economica dell’intera area e che hanno davanti la competizione globale cui il mondo li chiama, in una chiave nuova di regole che incardinino il capitalismo verso la solidarietà.