Per andare a comprare il sale negli anni ’50 del Novecento, in un paese del Salernitano, bisognava sottostare ad alcune regole familiari.  Mia nonna mi posava in mano delle monetine per il pagamento e un contenitore di legno con coperchio, una saliera unta dall’uso che si teneva ferma al chiodo accanto al fornello a carboni della cucina. Mi raccomandava di avere la quantità giusta, distribuita nella saliera fino all’orlo, di pagare e tornare a casa immediatamente. Ma soprattutto di non correre per le scale, di tenere stretta la scatola con il suo preziosissimo contenuto di sale doppio, senza farne cadere un solo granello.

Il sale era oro. Delicatissimo il compito assegnatomi, delicato e molto noioso per una bambina che amava salire i gradini a balzi, di corsa per fermarsi a guardare il giardino sottostante dal balconcino a metà scalone. Una bambina che voleva sentirsi libera per volare lontano dalla spesa del sale.

NOTA = Il sale in grani si raffinava passandovi sopra una bottiglia di vetro, tante volte fino ad avere in tavola l’eleganza di un “sale fino”.

 

 

Tre furono le grandi novità alimentari di quei giorni dei primi anni ’50 del Novecento nel paese del Salernitano.

Arrivarono nella casa avita “caschi” di banane, frutto sconosciuto, frutto esotico …buonissimo.

Caspita se erano buone le banane!

Abituata a divorare nespole “giapponesi”, arance   ” maltesi”, albicocche dal cuore di mandorla, cachi vainiglia, noci estratte dal mallo, nocciole fresche, prugne dal colore delle viole e ciliegie  del giardino e della campagna dei nonni nemmeno mi sembrava un frutto la banana.

Serviva da merenda, da premio come la crocchetta per il cane. Colore dell’oro e altrettanto cara.

Fu allora che scoprii con meraviglia e gran golosità il tonno in scatola, ottimo per un’alimentazione in cui il fabbisogno di pesce era rappresentato solo dal baccalà del venerdì, giorno di magro.

Il tonno sott’olio veniva conservato in enormi scatole di latta, estratto e venduto sfuso dentro speciali “cuppitielli” di carta oleata.

Nella bottega di salumeria di zio Bertuccio, figlio della sorella della nonna, quello scatolone profumato era posato sul bancone in bella vista, sontuosa offerta.

La mia colazione consisteva in uno sfilatino tagliato a metà, svuotato appena della sua mollica, intriso di olio e coperto di pezzi giallo oro di tonno fragrante e sensuale. Meraviglia senza tempo, gocce d’olio scorrevano fuori dal pane, lasciando un acre odore di mare tra le dita.

Infine, come per miracolo giunsero fino a noi, grazie ad un lavoro di rappresentante dolciario di mio padre, dei bicchierini  pieni di  pasta di cioccolata e nocciole, presago di future nutella.

Nulla di più gratificante, nulla di più delizioso per quei tempi ancora troppo frugali e amari.

NOTA = Ma la gioia di dolci prelibatezze veniva smorzata dall’affettuosità di zio Bertuccio, che amava carezzare i corpicini delle bambine. Per questo sempre più spesso rifiutavamo di andarci in quella salumeria.

 

Essere figlia della guerra (si intende la Seconda Guerra Mondiale non la Prima!) voleva dire per le madri, le zie e le nonne, donne già provate da disagi quotidiani, pesanti esigenze e grandi sofferenze cardiache e psicologiche, cercare di aiutare i bambini a crescere, a rinforzarsi fisicamente, a diventare grandi e forti.

I modi erano due, due le modalità che oggi sarebbero annoverate come torture in qualsiasi “Dichiarazione Universale dei diritti umani “.

Il primo era l’ovetto fresco al mattino prima di andare a scuola. A quei tempi le uova appena sfornate dalle galline si potevano toccare senza il pericolo di dover ingerire l’antidoto e se ne poteva anche bere il contenuto grazie ad un piccolo foro sul guscio. Era un vero e proprio emetico ma non ancora un agente patogeno della salmonella. Per me era un inferno. Bisognava appoggiare la bocca sulla rotondità del guscio e tirare su, succhiando il disgustoso insieme cellulare.

Un mattino la feci franca e me ne andai a scuola” insalutata ospite”. Fui chiamata fuori dall’aula. Li c’era la mia amatissima zia con il mio ovetto da bere. Considerai quel gesto un dolcissimo atto d’amore, che pacificò il mio rapporto con quel cibo.

Ma peggio del peggio c’è sempre l’infimo. E “lui” si chiamava “Emulsione Scott”.  Era distribuito in Italia dalla Carlo Erba. Era contenuto in una bella bottiglia ed era un ” tonico-ricostituente, per tutte le forme di deperimento organico”, se ne prendeva un cucchiaio prima di pranzo e ancora uno la sera.

Difficile descriverne il sapore …ma ancor più la consistenza. Più facile enumerarne il contenuto: olio di fegato di merluzzo, ipofosfiti di calce, bicarbonato di sodio e glicerina.

Dovetti vomitare a tavola per convincere gli adulti che stavano sperimentando su di me e sulle mie sorelle un nuovo sistema di riduzione della volontà di vivere tutta concentrata sul desiderio di morte.

Fu da allora che la bella bottiglia dell’intruglio malefico scomparve alla nostra vista per sempre.

NOTA = La fissazione di aiutare me e le mie sorelle a crescere con orripilanti metodi era del tutto patologica: mangiavamo felicemente fette di pane caldo ricoperte di bianca sugna profumata, al mattino deliziose grandi tazze di latte appena bollito, con la sua panna, e ” mascuotti” di farina integrale. Indimenticabili!

La frutta arrivava fresca dentro cassette dalla “terra” del nonno. Salsicce e prosciutto ci venivano offerti direttamente da povero maiale di turno, alla cui morte immotivatamente assistevamo

Potevamo mai essere deperite?

 

Vestirsi era come progettare una casa. Era necessario tempo, disposizione e lavoro.

Niente boutique diffuse sul territorio, né supermercati di “pezze” per tutte le tasche e i gusti.

Scegliere il modello, sfogliando le varie “Amica” “Donna Moderna”, cartamodelli vari. Decidere il tessuto da comprare. I negozi di tessuti erano tappezzati di grossi rotoli più o meno spessi e colorati.

Gli artisti dell’ago erano molti, sarte e sarti. C’erano poi le sartine a domicilio che aiutavano a far pieghe, stringere e allargare fino a cucire semplici abiti a macchina.

Bisognava conoscere i tessuti. Per la sera sete e georgette, rasi e broccati. Stoffe leggere, morbide, cadenti, lane, tweed pesanti, fino a scegliere colori, forme di maniche…pinces, raglan, colletti e spalline.

Alfredo   non ha mai portato un abito completo, amava gli spezzati. Odiava il Principe di Galles e il gessato.

Blazer Blu, ma anche verde scuro e Harris Tweed inglese il cui metraggio si poteva comprare da Gutteridge.

C’era chi confezionava pantaloni e chi camicie.

Sì, vestirsi era un vero lavoro, che poteva essere anche molto creativo. Comunque, aveva bisogno di tempi lunghi, di senso del bello, di ricerca e di consacrazione del talento.

Niente cinesi, ma anche poche rare boutique per signora. C’erano però in questa città sartorie  riconosciute in tutto il Paese.  Case di moda di grandi e famosi sarti.

 

Ancor oggi se vedo un rarissimo abito da uomo che scende a pennello penso che sia stato un sarto napoletano a cucirlo.

NOTA = Era mia madre a confezionare i vestiti per me. Ho sempre amato vestire in modo sportivo. E le sartine che frequentavano casa non ne erano all’altezza.  Ricordo un tailleur di stoffa di lana a pied- de- poule  bordò, giacca da uomo e gonna al ginocchio. Era bellissimo! Ero elegantissima!  Anche perché indossavo un paio di scarpe dello stesso colore comprate da Magli in Via Toledo, dette “alla Mina ” perché avevano un cinturino che si allacciava alla caviglia.

Quanto mi piacevano quelle scarpe! 

 

Il mondo è cambiato tanto che il Novecento, uno dei secoli più interessanti dell’era moderna, sembra appartenere ad  un tempo lontanissimo, remoto, ancestrale.

Persino gli animali e le piante esistenti nel ventesimo secolo sono in gran parte estinti. Spariti per sempre.

Come tante persone con teste pensanti, vite emozionanti, grandi amicizie e complici amori.

Talenti, genialità tutti da riconoscere ancora e ricordare giorno dopo giorno per restare vivi.