“We few, we happy few, we band of brothers.”

 

 

Napoli città greca nata dal corpo di una Sirena.

Napoli città nuova distesa dentro un gomito di mare.

Napoli   custode di tutti i colori dell’Amazzonia.

Aurore boreali, tramonti nel deserto, mattine africane.

Impervi vicoli, scoscese vie, turbinose scale. Giardini pensili di Babilonia.

Napoli che non si fa conoscere, che non si fa capire. Che non si fa amare

Solo chi viene da lontano, viaggiatore straniero, percepisce il suo fluido vitale, la lava vulcanica stretta nel suo tufo.

Bisogna avere mille occhi per vedere la sua fisicità cardiaca.

Chi è nato qui sente il peso vago di una colpa, una collosità materna che lo fa partire maledicendola.

“La si ama o la si odia”,   ma mai si cerca di capirla, di studiarne le forme, le rotondità e le asperità.  Chi la  considera una Gomorra, chi una  Rivista Patinata non fa che metterla in vendita, oggetto  da mercificare. Napoli è una Maga Circe,  una Fata Morgana, una Drag Queen.

La sua malia, il suo incantamento non possono essere catalogati, ma si possono raccontare.

 

Il 17 Gennaio è il giorno di Sant’Antonio Abate protettore degli animali. L’iconografia classica lo rappresenta insieme a  un maiale; il 17 gennaio gli animali possono entrare in chiesa per essere benedetti.

Ed è in questo giorno che di sera a Napoli c’è l’antichissima usanza di accendere dei fuochi in onore del santo: ” ‘O Cippo ‘e Sant’Antuono”  o più precisamente ” ‘o fucarazzo”. Falò che illuminano le strade di notte.

Nella simbologia pagana questi fuochi sono propiziatori, portano ricchi raccolti e danno forza alla terra che si libera dell’inverno per entrare nella rinascita della Primavera.  Solo dopo ci sarà il Carnevale con i suoi rituali.

Nel vicolo del Paradiso dove vivo i focarazzi si sono sempre accesi, piovesse o fosse sereno.

Sempre, ma da qualche anno, anche prima della pandemia, sono diventati “sconsigliati”, come i fuochi d’artificio a Capodanno. Clandestini senza esserlo per legge.

Ci sono state in passato amichevoli  nonché inutili incursioni della polizia con l’ordine di fermare l’incredibile “reato”.

Quest’anno, forse grazie al nuovo sindaco o all’indignazione dei benpensante, si è svolta una sorta di sceneggiata.

Nel pomeriggio arriva una macchina della polizia accompagnata da un carro della Nettezza Urbana.

I poliziotti bloccano la strada, i netturbini vanno casa per casa, vascio per vascio, a prelevare il materiale incendiario : bancali, cassette, scatole di cartone e alberi di Natale esausti.

L’atmosfera tetra di una retata con la finalità di scovare sacchi di droga e casse di armi.

Sembra di essere in una banlieue francese.

In fondo alla via, nell’oscurità dei loro abiti neri i ragazzi del vicolo, i fuochisti, sono fermi  in totale silenzio. Nulla si muove nel via vai dei netturbini. I minuti passano increduli.

Alla fine, lo Stato si allontana portando via tutta la “refurtiva”.

Il cippo si fa sempre nello stesso posto, nel vicolo in salita contro un muraglione alto e spesso.

In tutti i 45 anni della mia vita in questo luogo non si è mai verificato nulla di grave, nessun incidente soltanto un cumulo di cenere da spazzare il mattino dopo. Non c’è un solo motivo per vietarlo.

Se non una forma di punizione, una sorta di malevolo abuso d’ufficio.

Rientro in casa dal balcone con una rabbia incontenibile, so che non può finire così. Qualcosa dovrà pur accadere.  Ed ecco che dal fondo della via sale un rumoreggiare soffuso, un suono di ruote, di zoccoli, di voci. Figure scure risalgono dal buio trascinando vecchi mobili sbilenchi, assali di legno, casse e bastoni ricuperati da chissà dove. Da Via Provvidenza entra la banda degli alberi di Natale. In pochi minuti contro il muro si erge un falò fiammeggiante. E il fuoco rosseggia contro il cielo. Il vicolo prima deserto  si anima,  si dà   legna alla  legna come vuole il rito: “ognuno cala il paniere con un ‘aggiunta al cippo”.

Il fuoco è festa, è augurio di buona vita in un anno ancora infausto. Canti e urla dai “ribelli incendiari”.

Veloce la fiamma si spegne. Il vicolo ridiventa silente e torna la Polizia. Chissà chi l’ha chiamata.

Ma è tardi.

 

Penso che è questo che mi fa amare Napoli. C’è dentro questa città una forza indomita, una volontà di vita, un misticismo autentico.  

Sì è vero, nel bene e nel male credo di somigliarle: un po’ anarchica, un po’ guascona, plebea e aristocratica. Ribelle contro l’ingiustizia e la protervia di chi, invece di governare, comanda.

Se si scardina il mito, mi dico, se si abolisce il rituale simbolico  senza dar nulla in cambio si cancella l’identità di un popolo, il suo profilo genetico, la sua vera essenza. Questo sì che é un reato.