Ieri ho fotografato questa affissione del teatro locale che presenta gli spettacoli a cavallo fra settembre e ottobre. Come si vede dalla foto, le informazioni sono ridotte al titolo, alla data e ad una piccola immagine della locandina di ogni singolo spettacolo. A destra c’è il quadrato del Qrcode che, inquadrato con lo smartphone, rimanda alla pagina web in cui si troveranno tutte le notizie possibili. Quindi la pubblicità esterna si riduce al minimo, e fornisce solo l’accesso a contenuti che si trovano altrove e che possono essere anche estremamente ricchi, ma accessibili solo a chi sa che cos’è un Qrcode, e ha la pazienza o la curiosità di inquadrarlo e di leggersi tutto sul piccolo schermo del telefono. L’ho notato come uno dei “segnali deboli” che nella nostra indifferenza cambiano pian piano la società, fino a renderla del tutto diversa da quella che era un paio di decenni fa.

Già da tempo annunci e manifesti pubblicitari tendono ad essere sintetici e a rinviare a siti web nella speranza di creare un’interazione con il fruitore, e di interessarlo al punto tale da riuscire a vendergli il prodotto o il servizio reclamizzato. Ma questo caso mi sembra una ulteriore svolta nella comunicazione pubblicitaria.

Ora mi chiedo: questo tipo di messaggio è esoterico o ipercomunicante? Da una parte dice il meno possibile, dall’altra dice il più possibile, perché chi conosce il QRcode sa che inquadrandolo può avere tutte le informazioni che vuole, e magari anche prenotare i biglietti. L’informazione è molto mirata, perché seleziona solo chi possiede uno smartphone e sa come usarlo, ed è talmente interessato al teatro da andare a vedere di che si tratta solo in base alle poche informazioni che sono sul manifesto. E questo è un bene, perché la tendenza dei “consigli per gli acquisti” è di incontrare il più possibile pubblici specifici e ben segmentati, anche grazie agli algoritmi che rafforzano le scelte fatte proponendo prodotti simili. In tal modo si riduce la pubblicità invasiva che piove indistintamente su tutti, a favore di impianti di irrigazione ben canalizzati.

Tuttavia in tal modo si accentua il digital divide, perché chi non ha uno smartphone con un abbonamento che si colleghi a internet anche senza un accesso wi fi (persone che dispongono di reddito minimo e precario, anziani, persone che hanno difficoltà o repulsione di fronte alle tecnologie avanzate) è inesorabilmente tagliato fuori da una quantità crescente di servizi, informazioni, relazioni. E questo è un problema sociale, culturale, umano.

E’ vero che fin dall’antichità c’erano esigue classi privilegiate che avevano accesso alla scrittura e masse di analfabeti che dovevano accontentarsi di ciò che dicevano loro re, condottieri, sacerdoti, maghi. E’ anche vero che la tecnologia tende a facilitare l’accesso alle informazioni, se pensiamo che la stampa di Gutenberg e la traduzione di Lutero hanno messo la Bibbia in mano ai fedeli che hanno potuto leggerla direttamente, superando la mediazione dei preti. Procedendo lungo tale linea, anche il Qrcode ci mette addirittura in tasca informazioni e documenti come schede di prodotti, buoni sconto, biglietti di viaggio, programmi teatrali e musicali.

Un libro stampato da Aldo Manuzio costava sempre caro, ma infinitamente meno di un libro copiato a mano su pergamena. Quindi era alla portata non solo di nobili e banchieri, ma di professionisti e artigiani con redditi più modesti. Tuttavia esistevano sempre grandi masse di analfabeti che fatalmente erano esclusi dal sapere. Basti pensare che nel 1861, nell’Italia appena unificata, la regione più alfabetizzata era il Piemonte col 57% di analfabeti, e le meno alfabetizzate erano Calabria e Sicilia col 90% di analfabeti, cioè di gente che non sapeva neanche scrivere il proprio nome. Un secolo dopo, grazie anche alla trasmissione tv “Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi, il Piemonte era sceso al 3%, la Sicilia al 24% e la Calabria al 32%.

Attualmente gli analfabeti in Italia sono circa 340.000, e gli alfabeti privi di qualsiasi titolo di studio sono circa 2.400.000. Se poi alla capacità di leggere e scrivere aggiungiamo le competenze fondamentali per vivere nella civiltà moderna, l’Italia è agli ultimi posti per competenze linguistiche e matematiche. Passando alle competenze informatiche, in Italia il 58% della popolazione non sa usare internet, e il 30% dei giovani non ha competenze digitali di base, anche se l’84% delle abitazioni ha un collegamento internet (dal 90% di Emilia-Romagna al 77% della Calabria). A titolo di paragone, la Francia ha il 93% nell’Ile de France che comprende Parigi, e l’88% in Normandia.

Il problema del digital divide è solo una parte del più ampio problema della distribuzione delle ricchezze in una società che tende ad aumentare il divario fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Una società più equilibrata ed umana dovrebbe distribuire meglio le ricchezze, trovando un punto d’incontro fra il capitalismo che, come dice De Masi, sa produrre la ricchezza ma non sa distribuirla, e il comunismo che sa distribuirla ma non sa produrla.

Ma questo non è certo il compito della povera pubblicità, che si limita a registrare ciò che avviene nella società. E ciò che avviene è una progressiva disumanizzazione a favore della tecnologia, che da una parte facilita la vita a chi sa destreggiarsi, dall’altra la complica a chi si perde fra acronimi, codici a barre e qr, risponditori telefonici automatici e simili piacevolezze. Anche in questo caso ci vorrebbe un po’ di buon senso che porti a tagliare qualche posto in meno e a mettere qualche persona in più che risponda “che cosa posso fare per lei?” invece di faq e voci metalliche che fra musichette distorte e frastornanti dicono: “per la direzione schiacciare 1, per la segreteria schiacciare 2, ecc. ecc.”. E manifesti che invece di “manifestare” nascondono dietro un misterioso quadrato magico riducendo i messaggi a pillole indigeste o insapori.