Partiamo dall’Italia sottosopra.

Finalmente abbiamo capito chi si era “inguattata” la famigerata e “misteriosa” agenda Draghi: la nuova premier

Ma questo non renderebbe l’Italia sottosopra. Quello che la capovolge è che l’agenda Draghi viene sventolata da chi ha fatto la sua fortuna elettorale come unica forza di opposizione al governo Draghi. 

Sarebbe interessante entrare nella testa di un elettore di Fratelli d’Italia, magari quello appartenente ad una classe subalterna, che ha espresso il suo voto per un partito antisistema che si era opposto al governo dei “Migliori” e alla sua agenda che nessuno sa che cosa contiene ma che tutti sanno che è un modo edulcorato per dire “togliamo ai poveri per dare ai ricchi” ovvero il manifesto delle politiche economiche neoliberiste.

 

Chi credeva che votando Meloni avrebbe dato la delega a un governo politico, concreto e popolare, di destra sociale, attento ai bisogni delle classi subalterne, raccontate da Meloni come vessate dall’egemonia culturale della sinistra, sarà presto deluso.

Eppure Giorgia Meloni è cresciuta alla Garbatella un quartiere operaio, di case popolari, abbandonata ad un anno dal padre, delinquente condannato in Spagna a 9 anni di reclusione, una nata “perdente” (o, come si è definita lei, una underdog) che è riuscita a riscattarsi entrando nella categoria degli “affermati”.

Ma il suo intervento alla Camera fa venire in mente la storiella su Michael Jackson che, a furia di schiarirsi la pelle, diventato bianco, si guarda allo specchio ed esclama: “Sono bianco da un minuto e già ’sti negri mi stanno sulle palle”.

Il governo Meloni ha come unica novità, appunto, la Meloni, visto che su 24 ministri ben 11 sono reduci dai governi Berlusconi ed è quindi coerente che da un punto di vista programmatico operativo, si sia allineata (parola cara al fu Di Maio) alla linea politica di Draghi (neoliberismo).

Ed è così che con il “passaggio della campanella”, senza colpo ferire, eccoci dal governo dei “Migliori” (con il suo pesante strascico di problemi lasciati irrisolti) al governo dei “Mediocri”.

È il prezzo altissimo pagato per farsi accettare dai poteri che comandano in Italia: quelli stranieri. Altrimenti mai avrebbe giurato fedeltà cieca e assoluta a Usa, Nato e Ucraina, cioè all’ottuso bellicismo draghiano.

Una interessante declinazione del famoso sovranismo a sovranità limitata.

La barricadera di destra, che si era dipinta come lontanissima dal governo dei banchieri, ha finito con chiedere aiuto a Draghi. Quanto le sarebbe piaciuto poter continuare la campagna elettorale basata sulla costruzione del suo personaggio schietto, ruvido, estraneo e anzi inviso alle cricche di potere! E invece…

 

LA CORRUZIONE MORALE DEL SENSO CIVICO COMUNE

Ma oltre ai programmi di governo, alle riforme attese, agli interventi di governo quello che preoccupa di più è l’impatto morale e culturale sul senso civico del paese (dicasi oggi “Nazione”).

I governi Berlusconi oltre al disdoro che ha rappresentato per la “Nazione” avere un premier che riempiva le cronache dei giornali internazionali a suon di gaffe, leggi ad personam, mignotte, processi, condanne, prescrizioni, corruzioni, (quella che, incredibilmente, Polito pochi giorni fa sulle pagine del Corriere della sera citava come “la credibilità internazionale” di Berlusconi) hanno portato ad una corruzione morale del senso civico comune. 

Si sa, il Cavaliere si lamentò: “Mi trattano come se fossi Al Capone”. 

Lo disse accompagnando la sentenza di primo grado, nel processo civile sul controllo del gruppo Mondadori-Espresso (2001).

La sentenza di appello (2007) consentì di comprendere meglio che cosa l’Egoarca condivida con Al Capone:

  • il rifiuto delle regole,

  • il disprezzo della legge,

  • l’avidità. 

Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli anni Venti, Berlusconi è il simbolo dell’Italia corrotta degli anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. 

Non si può immaginare Berlusconi fuori dal corso di quegli eventi:

  • capitali oscuri,

  • costanti prassi corruttive,

  • liaisons piduistiche,

  • un’ininterrotta presenza nel sottosuolo pubblico dove non esiste un angolo pulito. 

Berlusconi è quella storia e senza amnistie, senza un incessante e rinnovato abuso di potere, senza riforme del codice e della procedura preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato oggi un “delinquente abituale”.

Nel caso di Giorgia Meloni (che urla, sguaiata, in Spagna di essere donna, madre, cristiana,…) l’influenza negativa sulla coscienza civile italiana si annuncia più sul piano della ricerca di una egemonia culturale di destra.

Un progetto di egemonia culturale ha anche un versante lessicale. E il conio ex novo di certe deleghe ministeriali diventa interessante. Ad esempio la scelta di una parola di matrice liberal liberista per integrare la denominazione del ministero dell’istruzione. Con una categoria strutturalmente scivolosa («Chi stabilisce il merito dei meritevoli» Platone).

Una parola d’ordine da comunicare ad alta voce, da urlare, proprio quando la speranza di arruolare tecnici di standing internazionale si è dissolta al cospetto di «dure repliche della realtà».

L’uso di un concetto di cui il neoliberismo si è largamente appropriato conferma le contaminazioni che le destre neopopuliste stanno sperimentando nel loro software ideologico.

 

 

Anno 2033: la Meritocrazia è al potere. 

La nuova classe dirigente governa grazie a riforme economiche e sociali ispirate al principio dell’uguaglianza delle opportunità e dell’intelligenza misurata scientificamente. Ma anziché produrre un sistema democratico maggiormente realizzato, il risultato è una nuova società di casta in cui la grande maggioranza è umiliata ancora più sottilmente. E per questo, infine, si rivolta. Con quest’opera (“L’avvento della meritocrazia”) di fanta-sociologia distopica Michael Young inventava nel 1958 la parola “meritocrazia”, in irriverente opposizione a un’esaltazione ideologica del principio del merito, proiettando così nel futuro, con esiti inaspettati e sinistri, una delle tendenze (rovesciate di segno, acquisendo un’accezione positiva) più invocate del nostro tempo.

D’altronde la selezione e la competizione sono indispensabili e inevitabili per far funzionare le liberaldemocrazie.

Il concetto di “merito”, una combinazione di talento e impegno, ha incontrato un favore significativo pure tra i progressisti alla ricerca di “strumenti” culturali da contrapporre al dilagare delle disuguaglianze e al blocco dell’ascensore sociale.

You can, if you try” (se tenti ce la puoi fare) lo slogan di Obama fondato sulla convinzione che garantendo pari opportunità di partenza si possa tendere verso l’uguaglianza o, almeno, sulla riduzione delle divaricazioni sociali. Ovvero, per dirla in altro modo, sottosopra, con un pennellata di moralismo calvinista “se non ce la fai” la colpa è anche tua che non ti sei impegnato abbastanza.

Ma “la questione è più complessa” spiega Massimiliano Panarari. L’impegno, come altri elementi non cognitivi del capitale umano (l’autocontrollo, la perseveranza) non genera merito ma nasce da contesti ambientali e familiari che incidono massicciamente sulla formazione di ciascun individuo.

Così come il mercato, e lo spiegano vari “pensatori dell’economia” da Davide Hume in avanti e perfino lo stesso Friedrich Von Hayek (premio Nobel 1974 per la sua difesa del liberismo classico) non premia necessariamente l’impegno e neanche il merito.

Ma possiamo anche andare oltre. C’è infatti il rischio che il merito espresso in termini semplicistici diventi il fulcro di una retorica e di un’ideologia di auto legittimazione di aristocrazie ereditarie già ai vertici.

E, questo, diciamocelo, piace tanto alle destre appena arrivate al governo che, alla faccia della cosiddetta destra sociale, e all’affermazione di Giorgia Meloni che nel discorso programmatico di governo ha ribadito «il percorso democratico, che vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità.» trova, invece, nella conservazione delle gerarchie esistenti uno dei propri pilastri e una delle poche certezze di risultato atteso da questa legislatura.

Ci troviamo di fronte a un determinismo sociale di fatto e non  alla realizzazione dell’articolo 34 della nostra Costituzione che sancisce il sostegno ai “capaci e meritevoli”.

La domanda è se sarà l’”arroganza meritocratica” il tallone d’Achille che prefigurerà il fallimento del premierato di Giorgia Meloni. I primi indizi iniziano a fare capolino.

N.M.B. (nota molto bene)

aggiungo, come stimolo di riflessione, che nel discorso programmatico di legislatura del 25 ottobre (concepito per 5 anni di legislatura) non compare mai la parola “pace”