Riflessioni sulla scuola a margine della lettura di un libro

Ho scritto queste riflessioni tra la fine del 2021 e la parte iniziale del 2022. Il libro che le ha ispirate è “Il danno scolastico – La scuola progressista come macchina della disuguaglianza”, di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (La nave di Teseo, Milano 2021). E’ un libro che tratta un tema cruciale per la società (il funzionamento del sistema scolastico e i suoi risultati). L’ho letto attentamente e la lettura mi ha motivato a fissare, scrivendole, queste mie riflessioni. Queste riflessioni, anche se divergono in molti punti dalle tesi del libro, non intendono essere una “risposta” a tali tesi ma, piuttosto, un ulteriore contributo al dibattito sulla scuola italiana oggi.

 

Le tesi del libro

In sintesi: la scuola italiana ha subito un danno, negli ultimi decenni; la responsabilità del danno va cercata nell’ideologia della “scuola democratica”; i danneggiati sono soprattutto i figli delle classi sociali meno abbienti. Non posso evitare di osservare che il responsabile del danno viene individuato con un’espressione del tutto generica: chi c’è dietro l’etichetta “scuola democratica”? Bisognerebbe saperlo.

Questa tesi si appoggia su un assunto: l’efficacia della scuola si fonda sulla preparazione degli allievi e questa, a sua volta, dipende dalla tempestività dell’insegnamento. In base a un esperimento fatto su gatti neonati da due ricercatori (Hubel e Wiesel, futuri Premi Nobel, nel 1964), Ricolfi (Capitolo 2) conclude che ci sono delle finestre temporali per l’assimilazione della conoscenza, passate le quali l’acquisizione dei contenuti non è più possibile. Dunque i, diciamo così, “buonisti”, che fanno avanzare negli studi anche persone non preparate, creano il danno, il quale colpisce soprattutto le fasce sociali meno abbienti e alimenta la disuguaglianza. Ma se l’approccio buonista della “scuola democratica” riguarda tutti, perché non ne sono danneggiati anche i figli delle fasce sociali più abbienti? In realtà lo sono; solo che questi hanno famiglie dotate di mezzi, le quali possono pagare ripetizioni e sostegni di ogni tipo e consentire ai figli di andare avanti. Gli altri, invece, perdono l’unica opportunità che hanno di acquisire una preparazione adeguata; così nasce il fenomeno della dispersione scolastica. Per questo la riparazione del danno consiste, secondo gli autori, nell’innalzare l’asticella, cioè rendere di nuovo lo studio più severo, rigoroso, duro (e, aggiungerei, inevitabilmente selettivo).

Partirei dalle conclusioni tratte da Ricolfi sull’esperimento di Hubel e Wiesel. Non conoscevo questo specifico esperimento ma, da un lato, la cosa era nota: anche senza far riferimento al fenomeno dell’imprinting descritto da Konrad Lorenz si sa, per esempio, che i bambini fino a 4 mesi di età reagiscono ai fonemi di qualsiasi lingua parlata nel mondo indipendentemente dal luogo nel quale sono nati; dopo iniziano a reagire solo ai suoni della loro madrelingua. Anche la Natura pare orientata al risparmio e “pota” le parti inutilizzate di certi comportamenti. Ciò detto, però, devo aggiungere che i casi non mi sembrano del tutto comparabili: nel caso dell’esperimento citato si impediva allo stimolo visivo di raggiungere l’area nervosa di riferimento la quale, poi, non rispondeva più quando, dopo un po’ di tempo, si riattivava l’accesso (però l’esperimento funzionava solo con i gatti neonati, con i gatti adulti l’effetto non si verificava); il fatto è biologico. Nel caso dell’apprendimento del linguaggio naturale c’è un’evidente programmazione dello sviluppo neurale, anche qui siamo sul biologico. Quando si parla della cultura le cose sono un po’ diverse: i fattori soggettivi (lo sviluppo psicologico individuale, per esempio) e oggettivi (il contesto, i messaggi passati dalla famiglia, la pressione dell’ambiente sociale) hanno un grosso peso. Per non parlare dei fattori relazionali: un famoso esperimento di psicologia sociale, coevo di quello sui gatti neonati (è del 1965), fu condotto dallo psicologo Robert Rosenthal e da Lenore Jacobson, direttrice di una scuola elementare di San Francisco, per verificare il cosiddetto “effetto Pigmalione”. Molto in sintesi: i ricercatori selezionarono in modo del tutto casuale una serie di nomi di alunni e garantirono alle insegnanti che, in base ai loro test (in realtà assenti o finti), da questi erano attese le prestazioni migliori; tutti gli alunni indicati raggiunsero risultati eccellenti, perfino uno del quale l’insegnante aveva detto: “Questo non progredisce nemmeno se lo sparate col cannone”. L’esperimento sulle “profezie che si autoavverano” fu poi ripetuto in molti altri ambiti, sempre con risultati del tutto comparabili al primo; un caso che mi ricordo è quello di lombrichi affidati a studenti: gli allevatori ai quali erano state suscitate aspettative alte ebbero ottimi risultati mentre quelli che avevano avuto notizie (finte, ovviamente) negative sugli esemplari che allevavano ne ebbero di scarsi (risultati quantificati in termini di chilogrammi di peso delle colonie di lombrichi all’inizio e alla fine).

Tornando sulla scuola, non penso che si possa sempre recuperare tutti perché forse, a volte, il blocco non è reversibile o le pressioni ambientali sono schiaccianti; ma lo spiegare tutto con le finestre temporali mi sembra una semplificazione eccessiva. Per esempio, anche al di là degli esperimenti di psicologia sociale, abbiamo tutti esperienza del fatto che ad ogni età si può imparare; per citare un caso letterario (proposto da Mastrocola) c’è il Martin Eden di Jack London, che si appassiona alla lingua e alla letteratura e impara a padroneggiarle da adulto. Qui in Italia è notissimo il caso di Gavino Ledda, l’autore di “Padre padrone”, che impara a padroneggiare il linguaggio (prende la licenza elementare) durante il servizio militare e diventa, alla fine, docente universitario di filologia romanza. Certo, questi due appaiono casi un po’ eccezionali; però ci dicono chiaramente che con le interpretazioni meccaniche bisogna andarci cauti. Nessuno sa cosa davvero potrebbe accadere con allievi che “non hanno le basi” qualora venissero inseriti in contesti diversi da quello della scuola italiana attuale e seguiti in modo personalizzato, prima di essere valutati.

Una seconda considerazione riguarda la struttura delle tesi del libro di Mastrocola e Ricolfi, perché la logica cristallina con la quale sono combinate nasconde un problema: le tesi reggono solo se si isola il sistema dell’istruzione dal contesto sociale più ampio e si guardano le cose con una logica puramente interna. Cioè, se si prende la scuola italiana attuale come variabile indipendente e la si pone a priori come pietra di paragone di tutto il resto. L’ipotesi della preparazione regge solo se si assume (implicitamente gli autori lo fanno) che l’obiettivo del sistema-istruzione sia il successo scolastico in questa scuola, in base ai suoi parametri allo stato attuale. Da una parte bisognerebbe dimostrare che questa scuola è adeguatamente efficace così com’è; dall’altra è noto che il rapporto fra successo scolastico ed esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole non è per niente lineare. Dunque, di che cosa parliamo? Se l’obiettivo è il successo in questa scuola, in realtà coincide con la riproduzione del sistema-scuola così com’è, cioè con la conservazione acritica dell’esistente; se l’obiettivo è la piena acquisizione di una cittadinanza attiva, le cose sono più complesse e la scuola o, meglio, il sistema-istruzione, va inserito nel contesto generale della Nazione e nelle dinamiche sociali più ampie degli ultimi decenni. Non stiamo parlando di un sistema chiuso, e il quadro che si ricava nella seconda ipotesi è molto diverso da quello delineato nel libro. Vediamo di ricostruirlo.

La storia di una conquista

Il Capitolo 2 (Ricolfi) delinea una storia dell’istruzione italiana degli ultimi 60 anni (dalla “scuola media unica” del 1962 ad oggi) come la storia di una “conquista”: i sostenitori della scuola “facilitata, progressista e democratica” hanno conquistato la scuola attraverso un “paziente, meticoloso e ininterrotto lavoro”. A questo lavoro hanno partecipato “un po’ tutti, non solo i politici, gli intellettuali e i pedagogisti progressisti”. Di nuovo ci manca un soggetto: chi sono questi “tutti”? I protagonisti della scuola sono soltanto le élite? O sono anche le famiglie? Sono anche gli insegnanti? Per esempio un attore del quale si sente la sostanziale assenza, nel libro, sono proprio gli insegnanti: vengono ricordate solo alcune figure luminose nella storia personale degli autori ma, al passare del tempo, come si è evoluta la preparazione, la professionalità degli insegnanti? Non sono sufficienti i casi eccellenti, quelli basta cercarli e si trovano; è necessario capire come stavano le cose nella massa dei docenti e delle classi. Nel mio ricordo (anche io ho insegnato per vari anni prima di uscire dalla scuola) le cose non stavano per niente bene. Allo scandalo delle lezioni private (giustamente stigmatizzato da Mastrocola) si univano, per dirne una, i professionisti in attività per i quali l’insegnamento era solo un secondo lavoro; senza parlare dei vuoti metodologici nel bagaglio professionale e dell’interpretazione del ruolo docente come mero ripetitore di contenuti fissi e immodificabili. Penso che, oltre alla tempestività, si dovrebbe tenere conto della qualità dell’insegnamento.

A proposito dei “danneggiatori”: condivido l’osservazione che ci sia, a livello politico, una sostanziale convergenza sul trascurare la scuola. Ma non è, come dice Ricolfi, che la sinistra andava a combattere con le sue idee e che la destra non si presentava nemmeno: in realtà lo scontro c’è stato, fino a un certo punto; poi sono subentrate indifferenza nella popolazione e trascuratezza a livello politico. Questi aspetti andrebbero approfonditi sul piano storico e su quello sociologico, ma è un lavoro ancora tutto da fare. Lo scontro c’è stato per la scuola e nella scuola; ero in servizio quando furono introdotti gli Organi Collegiali con i genitori dentro e mi ricordo riunioni infuocate, discussioni accese, elezioni con vere e proprie campagne elettorali di scuola (non è una metafora, fu una realtà, anche perché c’erano ancora la DC e il PCI, le ideologie pesavano e le differenze erano nette). Poi tutto questo è svanito; oggi sono rimasti i simulacri di quello che fu, forse, un tentativo almeno in parte sincero di far evolvere in senso progressista (questo sì, progressista) il sistema scolastico italiano. Oggi i rappresentanti dei genitori sono eletti da ridottissime minoranze perché le famiglie non partecipano più; capire ciò che è effettivamente successo sarebbe essenziale ma, purtroppo, la risposta non si trova in questo libro. Tra parentesi: ho detto poco sopra che “è subentrata indifferenza nella popolazione” ma vorrei essere più preciso. Teniamo conto che la popolazione di riferimento è cambiata e i genitori che oggi minacciano e aggrediscono il personale scolastico non sono gli stessi che parteciparono alle lotte iniziali per gli Organi Collegiali. Sono generazioni diverse, nel frattempo è cambiata la cultura; un altro fenomeno che andrebbe studiato e compreso più a fondo. Come andrebbe studiata e compresa più a fondo la categoria degli insegnanti, anch’essa, sicuramente, soggetta ai sommovimenti della società e al ricambio generazionale.

Aggiungo che, sulla base della mia esperienza, non condivido l’accorpamento di tutte le riforme della scuola nel calderone del “danno progressista”; l’evento di inizio, cioè l’introduzione della scuola media unificata nel 1962, insieme ai primi passaggi dell’attuazione della riforma, non mi pare sia accomunabile con il vero declino, iniziato all’incirca negli Anni Settanta / Ottanta del Novecento. La frattura ci fu ma, secondo me, andrebbe spostata in avanti e collegata agli eventi esterni, a come cambiava il mondo intorno alla scuola. Già, il mondo intorno alla scuola, assente dal libro di Mastrocola e Ricolfi: nella loro analisi, tutta interna al sistema scolastico, i soggetti esterni vengono echeggiati genericamente (“i politici”, “gli intellettuali”) ma i sommovimenti economici e sociali che hanno caratterizzato, in modo anche altamente drammatico, gli ultimi decenni sono assenti. Ora, per concludere sulla “conquista”, quello che io ho visto è stata una grossa battaglia con, alla fine, due sconfitti, non un vincitore e uno sconfitto. I “progressisti” vinsero? Nel mio ricordo non ci fu nessun sostanziale cambiamento nel modo di fare scuola; se qualcuno vinse fu, semmai, la conservazione, legata più a un istinto di sopravvivenza del personale scolastico che a una vittoria ideologica (per esempio la libertà di insegnamento fu da moltissimi interpretata nel modo più comodo e, insieme, più riduttivo e deleterio). Poi la scuola fu progressivamente svuotata di senso, anche grazie alle continue “riforme” successive agli Anni Settanta; alla fine non vinse nessuno, a qualsiasi ceto sociale appartenesse e a qualsiasi idea aderisse.

Cosa accadeva fuori

Ma per capire di più bisogna uscire dalla scuola e chiedersi cosa stava accadendo, nel frattempo, fuori. Il problema era, tra gli Anni Sessanta e Settanta, la turbolenza sociale: c’era turbolenza nelle fabbriche come nelle Università, e non ci dimentichiamo il fenomeno terrorista che, qui in Italia, tra estrema destra ed estrema sinistra insanguinò strade, piazze e stazioni ferroviarie. Considerato che viviamo in un Paese a economia di mercato (“capitalista” se preferiamo) questo intralciava l’andamento dell’economia e la turbolenza andava governata; le dinamiche del potere trovarono la soluzione attingendo, come molte volte nel dopoguerra, a innovazioni anglosassoni (soprattutto americane). L’innovazione tecnologica (il personal computer) e l’ideologia neo-liberista produssero i loro effetti a partire dagli Anni Ottanta ma erano in gestazione da tempo; e anche prima dell’esplosione del personal computer l’automazione aveva fatto passi da gigante. Per farla breve: il Robogate alla allora FIAT fu testato dal 1975 e messo in funzione nel 1978 (produzione della “Ritmo” balzata da 800 a 1.200 esemplari al giorno senza nuovi operai alla catena di montaggio); Ronald Reagan fu eletto alla Presidenza degli USA nel 1980 e sbilanciò l’economia a vantaggio dei produttori con interventi orientati alla “supply side economics” e alla “deregulation”; Margareth Thatcher fu eletta Primo Ministro del Regno Unito nel 1979 e avviò una forte politica di privatizzazioni di servizi pubblici e, anche lei, “deregulation”. Le fabbriche, e l’economia in generale, dal punto di vista delle dinamiche del potere erano molto più controllabili di prima.

Ma ci fu anche altro. Per esempio, pochi anni fa, nella rubrica sui libri che Corrado Augias teneva su RAI 3 (Quante storie), fu presentato il romanzo di Giancarlo De Cataldo “L’agente del caos”. E’ un romanzo ma è ambientato in un contesto storico assolutamente realistico (fine Anni Sessanta) ampiamente documentato su Internet dopo la desecretazione di documenti riservati USA. Il contesto è quello dei molteplici progetti della CIA relativi alla “guerra interna”, cioè al contrasto alla contestazione attraverso l’infiltrazione di agenti dentro i movimenti e l’attiva diffusione di droga al loro interno per screditarli e depontenziarne l’azione; in particolare il romanzo fa riferimento al Progetto Blue Moon, oggetto di un’inchiesta RAI (Giovanni Minoli) del 2013. I progetti ebbero sostanzialmente successo e, facendo come i pifferi di montagna, i contestatori che erano convinti di trasgredire furono invece usati da quello che chiamavano “il sistema”.

D’altra parte, nel “cosa c’è dietro”, nelle dinamiche del potere, ci sono anche storie di segno diverso, almeno al loro inizio; per esempio c’è stato, in Italia, un Ministro dell’Istruzione (allora si chiamava “PI”, Pubblica Istruzione) che, sulla base delle informazioni disponibili oggi, ha cercato davvero di andare contro corrente; purtroppo è durato poco. Giancarlo Lombardi, milanese di origine ma imprenditore dell’industria tessile piemontese, cattolico, Vicepresidente di Confindustria per l’Education, politico nelle file dell’Ulivo, fu Ministro PI nel Governo Dini negli anni 1995-1996. Non lo ricorda mai nessuno ma lui tentò di lanciare, da Ministro, un’operazione ispirata al raggiungimento della qualità di massa attraverso il sistema scolastico; io me lo ricordo perché l’ho sentito parlare di questo in un Convegno organizzato dalla Confindustria di Firenze in quegli anni, e ne fui molto colpito. Idee come l’alternanza scuola-lavoro e l’autonomia scolastica avevano ancora un senso, per quel che si capisce del disegno che aveva in mente Lombardi, e la Confindustria sembrava sostenere l’idea. Ma, rapidamente, il progetto della qualità di massa fu abbandonato; alla chetichella, direi, cioè senza confronti pubblici e senza dichiarazioni di rinuncia. E l’applicazione di quelle idee scivolò verso la valorizzazione degli aspetti formali a dispetto di quelli sostanziali e verso la burocratizzazione. Anche questa sarebbe una storia da scrivere; oggi quello che si può pensare è che prevalsero le logiche della fretta nel consolidare il controllo, più che quelle del fare bene. Per concludere: Giancarlo Lombardi è morto nel 2017, a 79 anni. L’articolo commemorativo di “Repubblica” (31 marzo 2017) si chiude con le parole: “Voleva una scuola di qualità per tutte e per tutti”.

I problemi della scuola di oggi non possono essere capiti solo con le dinamiche interne perché non si tratta di un sistema chiuso. Io credo che, se dobbiamo cercare la responsabilità dell’applicazione deleteria di logiche industriali nel sistema-scuola, questa vada cercata nelle dinamiche che ho provato a descrivere qui sopra, più che nelle scelte di presunti ideologi che si sarebbero assunti questo potere (e come avrebbero potuto fare? Chi lo avrebbe consentito?). La vittoria sul disegno del sistema-scuola non è stata ottenuta dentro le scuole; l’ideologia neo-liberista è per sua natura portata a trasformare tutto in un mercato e a procedere con la logica del prodotto anche in settori che non si presterebbero per loro natura a questa operazione (la cultura e la ricerca scientifica, per citarne due che conosco meglio). Secondo me non c’è continuità fra la fase della battaglia destra-sinistra sulla scuola e il successivo abbandono da parte della politica e delle forze sociali ma c’è una frattura. Però, forse, la parola “abbandono” non è la più adatta; la turbolenza sociale è stata, più o meno, messa sotto controllo, ma c’è un altro grave problema, ora, che appare di difficile soluzione senza un cambiamento radicale del modello di sviluppo: la mancanza di lavoro. L’informatizzazione spinta delle attività economiche brucia molti più posti di lavoro di quanti ne crei e questo mette, di fatto, in discussione il significato della parola “cittadinanza” e, di conseguenza, il senso e il ruolo sociale dell’istituzione scuola (chi preparare per cosa?). A fronte di ciò, alcuni segni visibili (tra questi l’impressione che della qualità dei risultati scolastici, di fatto e nella sostanza, importi poco ai decisori) suggeriscono che il governare si sia orientato, oggi, ad accettare questa logica e non tanto ad abbandonare la scuola quanto a vederla come un parcheggio, se non una riserva indiana.

Preciso che, se è così, io credo che tutto questo non sia il frutto di un piano preciso di uno specifico qualcuno; le società sono complesse e la situazione attuale è il frutto di una serie di dinamiche che si sono trovate ad operare in simultanea e a interagire influenzandosi a vicenda. Se vogliamo provare a dettagliare un minimo, il risultato che vediamo pare l’effetto di un confluire di processi sociali indipendenti su obiettivi convergenti: le famiglie vogliono esercitare il “diritto al successo”, cioè alla promozione dei figli, anche se i titoli di studio sono sempre meno rilevanti e socialmente “spendibili”; gli insegnanti vogliono la sicurezza del posto di lavoro e la salvaguardia da possibili cause intentate dai genitori e da sanzioni disciplinari; i politici sanno che c’è poco lavoro e ci sono poche risorse da investire, per cui privilegiano soluzioni di facciata e che facilitino il controllo; il capitalismo neo-liberista vuole continuare la sua opera il meno disturbato possibile. Il risultato è quello che vediamo. Per quanto riguarda una possibile via d’uscita, oggi non se ne intravede chiaramente nessuna; bisogna ancora osservare, studiare e cercare di capire, discutendo in corso d’opera, alla ricerca di qualche via d’uscita veramente percorribile. Una cosa si può però dire su ciò che sappiamo già che non funzionerà: il potere educativo intrinseco delle singole discipline non è confermato né dagli studi né dall’esperienza. Quando studiavo alle medie il mito era il latino, del quale si diceva che “insegnava a ragionare”; quando cominciai a insegnare spopolava l’insiemistica; poi venne l’informatica (il linguaggio di programmazione “Logo”, per esempio) e poi molto altro. Decenni passati a cercare la pietra filosofale che risolvesse da se stessa i problemi dell’educazione; oggi possiamo dire che, come ci si poteva peraltro aspettare, semplicemente non esiste. Le discipline funzionano bene non in se stesse ma nel contesto nel quale vengono trasmesse perché, in realtà, ciò che funziona è una combinazione di fattori: una classe reagirà a una proposta disciplinare come qualunque gruppo sociale, cioè in modo vario; ciò che la può portare a convergere sul valore da assegnare alla disciplina sono la qualità del rapporto con i docenti, la spinta positiva nei confronti della scuola da parte delle famiglie e del contesto sociale più generale, l’ambiente specifico della scuola stessa e altro ancora. Per questo i modelli basati solo sulle discipline, o solo su certe didattiche, sono come la democrazia: non si possono esportare perché cambiando il contesto si compromette la loro funzionalità. Semmai è un approccio sistemico che potrebbe servire ma questo, oggi, è davvero difficile da attuare.

 

Don Milani e i temi finali

Ancora Don Milani? Sì, perché è sorprendente ma, ancora oggi, la figura di Don Milani suscita reazioni forti ed evidenzia contraddizioni. La sua presenza si avverte, nel libro, e non solo nelle pagine nelle quali Mastrocola ne fa una critica diretta. Per esempio: non so se è intenzionale ma, nella parte statistica del libro, i dati sono presentati su uno sfondo di carta centimetrata che ricorda la carta millimetrata usata da Don Lorenzo per molti dei grafici di natura sociologica nel suo libro Esperienze pastorali (Firenze, LEF 1958). Il punto è che lui non aveva computer e stampanti e doveva per forza usare quegli strumenti mentre oggi tutti dispongono di tecnologie informatiche più che sufficienti alla bisogna. Inoltre la finale “Lettera a un genitore” richiama la Lettera a una professoressa (Firenze, LEF 1967) della Scuola di Barbiana. Ma proviamo a restare ai fatti: Mastrocola presenta don Lorenzo come se avesse in odio la letteratura a causa di certi commenti che compaiono nella “Lettera a una professoressa”; secondo me questo non corrisponde a ciò che sappiamo di Don Milani.

Intanto le fonti: Don Milani non si può prendere in considerazione solo attraverso la “Lettera a una professoressa”; innanzitutto quel libro non è suo in senso proprio perché l’autore è la Scuola di Barbiana, è un lavoro che fece con gli allievi della scuola per aiutarli a dare ragioni oggettive al loro disagio, per aiutarli a capire cosa stava loro succedendo. Per certi versi, anche se forse è il lavoro più famoso, non è il principale; l’opera chiave è “Esperienze pastorali”, del 1958. Per non dilungarmi troppo, che cosa stava dunque succedendo nella terra nella quale operava questo prete? Era in corso una doppia migrazione. Oggi siamo abituati ad associare i migranti ai gommoni dal Nordafrica ma una grossa parte della storia italiana del Novecento è stata caratterizzata da migrazioni interne. Nel dopoguerra, mentre dal Sud masse di contadini andavano al Nord per trasformarsi in operai, nella piana di San Donato di Calenzano due flussi si combinavano: i contadini del piano andavano in città per lavorare nelle fabbriche e i montanari, in fuga da una vita impossibile, scendevano al piano insediandosi nei poderi rimasti vuoti. Don Milani osservava tutto questo con occhio attento e critico, e si interrogava su qual era il suo compito di fronte a questo dramma (“I care” era il motto che aveva scelto per la sua scuola). Perché era un dramma; non corrisponde a ciò che si sa che don Lorenzo disprezzasse la letteratura, che esaltasse solo le competenze manuali e che peccasse di buonismo con i poveri; se c’è una caratteristica che le sue opere hanno è la lucidità. Vedeva lucidamente i limiti e i difetti del mondo contadino e di quello montanaro, per esempio l’ignoranza, la chiusura, gli incerti principi morali; ma è proprio quello che lui assunse come compito: riscattare questa gente. E lo strumento che aveva individuato come più adatto era proprio la cultura, e in particolare il linguaggio. Senza la padronanza del linguaggio tu non sei: non sei capace di capire, non sei capace di difenderti.

Ci sono episodi che chiariscono bene le sue scelte: i contadini e i montanari non erano in grado di consultare un elenco telefonico, cioè di seguire un banale ordine alfabetico, e questo poteva essere già un grosso ostacolo. Ma c’era di più, e lo si può capire bene attraverso il racconto di un episodio accaduto, appunto, a un montanaro. I poderi del piano spesso non avevano né acqua corrente né luce elettrica; un montanaro alfabetizzato e più avveduto, al momento di firmare il contratto per insediarsi in un podere, volle vedere “i fogli” che dimostravano che la luce stava per essere allacciata; il proprietario mostrò un foglio e il montanaro firmò. Solo più tardi scoprì che non era vero niente perché quello che aveva visto aveva, sì, il logo della compagnia che forniva l’elettricità, ma era solo un modulo di richiesta per la valutazione di fattibilità o qualcosa del genere. Niente luce e, peggio di tutto, l’umiliazione per essere stato intrappolato su una competenza che pensava di possedere. E non parliamo, poi, del trattamento sprezzante e inumano che veniva riservato agli operai in fabbrica (si veda la seconda Appendice di “Esperienze pastorali”, la lettera a Don Piero). E’ questo il punto. La lingua non alla ricerca della bellezza ma come strumento di difesa perché in quel contesto, per don Lorenzo, era vitale la difesa dei deboli e questa lui si assunse come compito. I suoi poveri avevano bisogno di saper leggere un giornale, di interpretare la modulistica (almeno quella più semplice), di capire cosa diceva una comunicazione del Comune o di qualche altro ufficio pubblico. Questo andrebbe veramente capito bene: senza arrivare alle fasce “top” della popolazione, chi appartiene a una famiglia che ha mezzi sufficienti e che è sufficientemente acculturata non ha bisogno di “studiare” queste ultime cose perché le impara attraverso le interazioni con i familiari e la prassi quotidiana. Chi si trova in una situazione inferiore vive una contraddizione drammatica perché chi dovrebbe occuparsi in prima istanza di quelle incombenze (banali e, insieme, vitali) non ne ha i mezzi (parliamo di genitori analfabeti o semianalfabeti anche molto dopo i tempi di Don Milani) e tende a scaricare aspettative sui figli che sono alfabetizzati, che “hanno studiato”. Dunque, in questo caso, tu che studi non solo non puoi avere l’aiuto che legittimamente ti aspetteresti, ma devi anche provare a darlo quando la tua cultura è superiore a quella di altri ma ancora lontana dalla padronanza che servirebbe. Senza contare che, molto spesso, devi anche pensare al lavoro per dare una mano alla famiglia.

La cosa che trovo paradossale è che, alla fine, in realtà c’è una convergenza tra le tesi di Mastrocola e quelle di Don Milani: anche lei intende la cultura come fattore di crescita e di riscatto sociale; solo che fa riferimento a un concetto del tutto diverso di “cultura”. E c’è convergenza anche sul fatto che sono entrambi in errore: non è mai la padronanza di certe tecniche (comprese la lettura e la scrittura come anche la conoscenza della letteratura) a garantire quei risultati. Vedendola dal lato di Don Milani, per difenderti non devi solo saper leggere e scrivere, bensì devi saper interpretare correttamente ciò che leggi, il che significa che devi anche avere una certa esperienza dei processi sociali che sottostanno a certi testi. Vedendola dal lato della Professoressa Mastrocola, non è la conoscenza a tavolino dei classici che ti mette automaticamente in grado di trasferire nei tuoi comportamenti quotidiani gli ideali e i valori che trovi in essi (sui quali, peraltro, in certi casi si potrebbe anche discutere) ma è la cultura invisibile trasmessa socialmente, quella che, dicendola con Galileo, “imbevi col latte” e che ti orienta nel quotidiano.

Per concludere con Don Milani: per lui si poneva una questione di priorità, e lui scelse di schierarsi e di provare a fare ciò che poteva, osteggiato anche dalla Chiesa della quale faceva convintamente e amorevolmente parte (era un convertito), per cui pagò anche di persona: tra le altre cose il suo libro (che aveva l’imprimatur dell’allora Arcivescovo di Firenze, Elia Dalla Costa, e una lunga prefazione di Giuseppe D’Avack, Arcivescovo di Camerino) non fu mai formalmente censurato dalla Chiesa ma, entro l’anno della sua uscita (1958), fu ritirato dal commercio e la sua lettura fu sconsigliata. Nel 2014 “Avvenire” pubblicò una sorta di “riabilitazione” (Andrea Fagioli, Avvenire, 17 aprile 2014). Per concludere con le tesi del libro riprendiamo l’ipotesi dell’innalzare l’asticella come modo per riparare il danno: se la base della disuguaglianza non sta in ciò che si sa ma nella “cultura invisibile” il solo innalzare l’asticella non può essere efficace. Nello stesso passo della nostra Costituzione che parla dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” è nascosto un riconoscimento dello squilibrio sociale perché implicitamente significa che chi ha i mezzi, anche se non capace e non meritevole, può andare dove vuole. Come dire che i “poveri” partono già in salita, perché devono dimostrare qualcosa prima di essere ammessi, mentre i “ricchi” possono farne a meno. La ricerca dell’uguaglianza è un’impresa nobile e non si deve fermare; tuttavia va pensata come un processo che va continuamente monitorato, il cui significato va negoziato e il cui percorso va continuamente adattato nel contesto storico reale. Una gestione ordinata di questo problema richiederebbe un accordo di fondo a livello sociale che appare molto lontano, oggi, perché il momento storico evidenzia grandi divisioni sociali, contrapposizioni e pesanti tentativi di alcune componenti di scaricare i costi sulle altre. Io non sono affatto contrario a “innalzare l’asticella” di nuovo; però credo che aspettarsi la soluzione solo da questo sia un’illusione. Quale scuola per quale asticella? E’ un quesito del tutto aperto.

Credo si possa dire, oggi, che il modello di Don Milani è fallito e che non è esportabile (peraltro non esiste più nemmeno la società per la quale era stato ideato); però non lo sono neanche tutti gli altri, tanto è vero che nel mondo dell’educazione italiano le esperienze-pilota (di per sé nate per diffondersi) in realtà restano “pilota” in eterno. Provando a fare una sintesi finale direi che il danno per la scuola italiana c’è stato, c’è ed è grave, questo non è in discussione: la qualità dei risultati della scuola è, in effetti, crollata e condivido anche l’accentuazione di Ricolfi, che propone di passare dal concetto di disastro (un disastro si può recuperare) a quello di catastrofe, “catastrofe cognitiva”. Rispetto alla conoscenza, addirittura, rincarerei la dose considerando che ciò avviene nella sedicente (sottolineo sedicente) “società della conoscenza”. Inoltre aggiungerei, a quella cognitiva, una catastrofe organizzativa e una gestionale, le quali potrebbero anche non essere le sole. Ciò che mi pare discutibile, però, è la spiegazione che nel libro si dà di questo fatto: il chiudere la riflessione all’interno del sistema-scuola così com’è oggi e l’attribuire la responsabilità a un pugno (o a uno stuolo, cambia poco) di ideologi di sinistra mi pare davvero una semplificazione eccessiva. Troppi elementi mancano perché il quadro sia condivisibile; non si può fare un discorso sul danno scolastico riducendo tutto alla preparazione scolastica allo stato presente delle cose e trascurando una serie di problemi (non meno gravi) come la preparazione degli insegnanti, sia tecnica che sul ruolo, la formazione e selezione della dirigenza, le famiglie e la gestione dei rapporti con esse. Senza contare il contesto esterno con l’influenza che inevitabilmente esercita: 60 anni di storia, nei quali è successo davvero di tutto, non possono essere ricostruiti con una visione così semplicemente “scuolacentrica”; oppure, se preferiamo, la storia della scuola italiana negli ultimi 60 anni non può essere isolata dal quadro storico generale e dal contesto socio-economico-politico. E non posso non notare come, quasi beffardamente, il problema della padronanza del linguaggio, a livello di massa, sia tornato di prepotente attualità; per esempio con l’analfabetismo di ritorno e con il dilagare di un uso sempre più incerto e scorretto della lingua anche laddove la sua padronanza dovrebbe essere data per scontata.

Prima di chiudere vorrei aggiungere qualcosa sulla parte statistica (Capitolo 4). La parte statistica del libro è, da una parte, intrigante e, dall’altra, carica un notevole onere sulle spalle degli autori. Nel risvolto di sovracoperta si legge:

                                     Due voci, di cui una lancia un’ipotesi e l’altra la raccoglie, provandola con la forza dei dati,                                                                              testandola con modelli matematici e arrivando alla conferma.

A pagina 217 si legge:

                                   L’ipotesi da cui è partita questa ricerca, ovvero che l’abbassamento dell’asticella accrescesse                                                                            le disuguaglianze, pare pienamente confermata dai dati.

La traduzione di queste affermazioni, da parte di chiunque legga, è che la tesi del libro è “vera” in quanto scientificamente dimostrata. Qui c’è subito da segnalare una possibile confusione: la validità statistica dei risultati di un’elaborazione non coincide con la “verità” dei risultati stessi; la validità statistica ha sempre dei margini di incertezza, rispetto alla situazione reale indagata, più o meno grandi ma mai assenti. Ma, anche senza entrare nei tecnicismi, credo si dovrebbe innanzitutto osservare come i risultati presentati siano poco adatti a spiegare la penalizzazione delle classi meno abbienti con il buonismo degli ideologi di sinistra. Come ho evidenziato sopra, è drammatico ma la disuguaglianza c’è ed opera prima del successo scolastico, per cui l’innalzamento dell’asticella andrebbe ben approfondito prima di considerarlo taumaturgico.

Ora proviamo a entrare un pochino (ma proprio poco) più dentro alla ricerca statistica: nella parte iniziale del Capitolo 4 si chiarisce che, per verificare la tesi del libro, una ricerca sul campo sarebbe troppo complessa (non so se posso tradurre con “troppo costosa”) anche se la affrontasse direttamente l’ISTAT, per cui la fonte dei dati utilizzata è una vasta indagine ISTAT del 2008-2009, orientata ad altre finalità ma contenente dati utili allo scopo. L’ipotesi iniziale viene verificata in base ai dati scelti e usando un modello. Parto dal presupposto che la parte tecnica del lavoro statistico sia ineccepibile; però non posso non notare che l’utilizzo del modello da parte dei ricercatori ha richiesto una serie di scelte successive su indicatori e parametri (ben descritta nel libro) che sono inevitabilmente soggettive (anche se effettuate da esperti), quindi hanno margini di incertezza non definibili con precisione. Un esempio: per quantificare la qualità dell’istruzione ricevuta dagli studenti si sono scelti i risultati dei test INVALSI a livello di provincia; ciò non tiene conto, da un lato, del fatto che tali test sono stati sempre ampiamente contestati e che l’omogeneità dei risultati sul territorio nazionale e l’attendibilità dei confronti fra di essi non possono essere date per scontate; dall’altro che la qualità dell’istruzione è il risultato di un insieme di fattori troppo complesso per ridurlo a un solo, semplice parametro. Inoltre: non è specificato quando sono stati effettuati i test usati per la ricerca. In definitiva, secondo me, ciò che si può affermare rispetto alla ricerca è quanto segue: sulla base dei dati rilevati nel 2008-2009, all’interno dei criteri fissati dai ricercatori, possiamo dire che l’ipotesi iniziale può, dal punto di vista statistico, essere accettata. Il valore di verità ad oggi della ricerca rimane ignoto anche perché, se ampliamo la visione rispetto all’interno del mondo scolastico, possiamo considerare che il 2008-2009 (periodo dal quale vengono i dati utilizzati) è stato il momento dell’ultima grande crisi economica e a partire dal quale gli effetti della globalizzazione scarsamente controllata hanno accentuato il loro peso sulla vita e sulla cultura delle persone (per esempio: quanto è accelerato l’impoverimento della classe media, in questo periodo?). In questa fase storica i processi sono esasperatamente accelerati e oltre 10 anni sono un periodo lungo; dobbiamo perlomeno porci il problema di cosa sia cambiato e di quanto la società di oggi (anche indipendentemente dalla pandemia) sia comparabile con quella di allora.

Infine, a proposito della “Lettera a un genitore” che chiude il libro: credo che un genitore come quello che si intuisce dal testo della lettera sia molto raro o inesistente. Se ci fossero molti genitori così, probabilmente i problemi nei rapporti scuola-famiglie non sarebbero come si presentano oggi. Viviamo in un mondo difficile, incerto, e una caratteristica fondamentale della vita di oggi è la paura: penso che anche i genitori abbiano paura e che, in fondo, sentano di non essere pronti a fare i genitori con tutte le difficoltà che questo comporta in un mondo complicato e incerto. Dovrebbero dedicare energie ad ascoltare, ad acculturarsi, ad osservare ma non hanno il tempo, oppure non hanno voglia, forse temono troppo l’insuccesso perfino per provarci. Quindi si chiudono in difesa. Anche loro andrebbero aiutati.

 

Conclusioni

Peccato. Peccato perché, secondo me, il libro rappresenta un’occasione mancata a partire da alcune osservazioni condivisibili sullo stato della scuola italiana attuale, che va considerato molto grave e che andrebbe studiato a fondo nella sua tragica realtà. Il mio auspicio è, comunque, che il dibattito sul cruciale sistema dell’istruzione, anche grazie a quest’opera, riparta e si sviluppi.

Per la stesura di questo scritto ho potuto avvalermi delle competenze e dell’amichevole supporto di Isabella Corazziari, Andrea Fiaschi e Letizia Scrobogna, che ringrazio di cuore.