Scrivendo  da incompetente di arte e di bellezza rischio di muovermi come un elefante in una cristalleria: di qualunque aspetto si parli, si entra da sprovveduti in problematiche, filosofiche, culturali e tecniche, oggetto tutt’ora di accesi dibattiti tra gli artisti stessi, tra i critici e gli storici dell’arte. Pertanto, a parte una contenuta riflessione conclusiva, limiterò questo mio breve contributo ad una serie di ricordi personali riguardanti mio fratello, pittore per hobby.

Inizio con un ricordo d’infanzia. Quando io e mio fratello Franco (16 mesi meno di me) frequentavamo le scuole elementari (molti lustri fa), nelle ore del doposcuola, tra le altre attività, venivamo impegnati in creazioni artistiche con la plastilina, la cartapesta e i colori, ad acquerello e a tempera. In particolare per le composizioni pittoriche, le maestre mi dicevano “bravo, disegni e colori bene …” e la stessa cosa dicevano a mio fratello; tuttavia, i suoi dipinti venivano esposti nel corridoio della scuola, i miei no. Non so se il talento è innato o è una capacità che si acquisisce ma, nel secondo caso, il tutto avviene già nella prima infanzia. A parità di soggetti, i dipinti di Franco, avevano quel qualcosa in più che destava sorpresa, non solo apprezzamento; “aveva la mano” come si dice in gergo. Oggi mio fratello dipinge ancora e i quadri li regala o li conserva e, alla mia esortazione a organizzare o a partecipare alle mostre, risponde che dipinge per puro piacere personale; le poche volte che si è convinto a prendere parte a delle rassegne ha vinto i primissimi premi.

Il secondo ricordo riguarda la partecipazione ad una estemporanea di pittura. Un’estate di anni fa, mio fratello e un suo amico Antonio decisero di partecipare ad una estemporanea di pittura e mi invitarono ad accompagnarli per trascorrere una giornata insieme. La gara si svolgeva in un incantevole borgo di collina che affacciava, da un lato, su un lago artificiale e, dall’altro, su una catena montuosa di tipo dolomitica. Poggiammo i cavalletti e cominciammo a disegnare. Io da accompagnatore dilettante, iniziai a tracciare degli schizzi a matita del paesaggio circostante mentre loro, esperti, spennellarono subito. Dopo un paio d’ore, anche io avevo dato un po’ di colore e sentivo i passanti apprezzare il mio lavoro essendo quasi (molto quasi) una fotografia del circondario. Invece, vedevo gli stessi passanti essere leggermente dubbiosi quando si accostavano ai dipinti di Franco e Antonio. Quest’ultimo, tipo un po’ fumino, mi disse, scherzosamente, che non avrebbero dovuto invitarmi ad andare con loro … Era chiaro che, con il mio modo “fotografico” di dipingere, non facevo trasparire le emozioni personali sulle bellezze che stavamo ritraendo e, quindi, non educavo il pubblico ad avere una propria peculiare capacità interpretativa ed espressiva nel rappresentare la realtà. In altre parole, davo una consunta visione del concetto di arte. Capii l’essenza del discorso e la prendemmo tutti a ridere.

Dopotutto, secondo me, i loro dipinti erano capolavori che mi lasciavano senza respiro per l’originalità del tocco, per l’ineguagliabile abilità tecnica ma soprattutto per come “vedevano” il soggetto. Affiancando i loro dipinti, mi comparve davanti l’incanto dell’Isola della fata di Poe: l’uno “sembrava un raggiante harem di bellezze boschive che risplendeva e rosseggiava sotto gli occhi del sole morente e sorrideva dolcemente con i suoi fiori; l’erba era bassa, elastica, dolcemente profumata, disseminata di asfodeli” e per l’altro “l’isola era immersa nell’ombra più cupa e una fresca caligine, bella e piena di pace, pervadeva ogni cosa. Gli alberi erano di colore scuro, malinconici nella forma e nell’aspetto e si contorcevano in sembianti spettrali, paurosi e solenni …”. La contemplazione dei due dipinti evocava in me le eteree armonie di Debussy e quelle un po’ misteriose di Ravel.

Vado a trovare spesso mio fratello che ora vive in campagna. A parte qualche ritratto, i soggetti che predilige sono i paesaggi, le scene di vita rurale, con adulti, bambini, animali in armonia. Gli faccio osservare che la realtà ora è abbastanza diversa e che, per ritrarla correttamente, dovrebbe “contaminare” i suoi paesaggi con la presenza, anche indiretta, dell’uomo “consumatore”, rozzo e cinico. Almeno far galleggiare in un ruscello delle bottiglie di plastica, ricoprire un’ala di sottobosco con i residui di un pic-nic, affiancare ai classici covoni di fieno i frigoriferi rottamati di una vicina discarica abusiva e far intravedere sullo sfondo i capannoni di un centro commerciale … A queste mie osservazioni lui risponde, sornione, che è proprio per questo motivo che ritrae una natura che non c’è più: conservare, almeno nel tocco delle pennellate, sempre originale, la bellezza primitiva e un po’ selvaggia di quei luoghi, pur adattati a coltivazioni dalla sapienza e dall’umiltà contadina.

Quando ricevo queste risposte penso sempre che, quella degli artisti, in qualunque settore creativo (anche i fisici parlano di estetica delle equazioni della natura!), sia la comunità che rimarrà a baluardo della bellezza fin quando la natura non farà il suo corso. È il senso del romanzo di Buzzati, Il deserto dei Tartari, la preparazione è continua, nel senso del “costruire” e preservare bellezza per dare un senso alla vita, perché oggi non succederà niente e, forse, anche domani ma prima o poi i Tartari arriveranno e la natura riscuoterà il credito che ha con l’umanità.

È l’atteggiamento positivo in un quasi sicuro avvenire distopico. Proprio il contrario di quanto narra Beckett in Aspettando Godot, in cui disegna Vladimiro ed Estragone come due spettatori della vita e a cui la vita gli scorre davanti senza che da essa riescano ad tirar fuori alcunchè che gli dia senso se non l’attesa, fine a se stessa, che gli cada dal cielo l’occasione buona offerta dal fantomatico Signor Godot. Però, in tal modo, parafrasando il Walden di H. D. Thoreau, si avvera quello che lo studente Neil Perry, nel bellissimo film L’attimo fuggente, cerca di fugare “Non voglio svegliarmi un giorno, guardare indietro la mia vita ed accorgermi di non avere mai veramente vissuto”.

Gli artisti danno senso alla vita e vivono e fanno vivere, anche solo di emozioni.