Affrontiamo un tema spigoloso: la comunicazione aziendale può, deve, essere etica?

Deve, cioè, rispondere a dei requisiti di verità e di rispetto dei valori sociali del mondo al quale si rivolge.

In azienda, ma possiamo estendere le riflessioni sull’eticità alla comunicazione in generale.

Sì, la comunicazione può essere etica, ma è molto difficile e assai rara.

Perché?

Perché la comunicazione costa, sempre, e chi paga la comunicazione e i comunicatori (come dipendenti o come liberi professionisti) vuole aumentare i consensi, e questo, spesso, vuol dire nascondere la verità. Nasconderla o alterarla o, nella migliore delle ipotesi, dirne solo una parte.

La comunicazione per essere etica deve essere autorevole, deve cioè comunicare i comportamenti.

 

 

L’eticità nella comunicazione non è legata alla bontà del contenuto che trasmette ma alla sua coerenza con i comportamenti reali della fonte, di chi comunica.

Per esempio comunicare che un impianto industriale ha emissioni pulite è un bel messaggio, rincuorante, che ci fa sentire tutti meglio. Ma diventa una comunicazione manipolatoria, quindi non etica, se in realtà quell’impianto continua a inquinare, anche se, magari, in misura ridotta per l’effetto di investimenti di abbattimento dei fattori inquinanti.

Per verso è invece una comunicazione etica se dovesse ammettere di produrre inquinamento, anche se questo è tutt’altro che un messaggio positivo. La comunicazione è, ciononostante, etica giacché informa sulla verità e questo consente alla società civile e ai suoi attori decisionali (la politica, l’amministrazione pubblica) di prendere provvedimenti opportuni.

Quindi un buon comunicatore di un’azienda inquinante per poter sviluppare, proporre, una comunicazione etica, dovendo comunicare i comportamenti reali, dovrà riconoscere e diffondere la conoscenza sul danno ambientale che quell’impianto industriale sta producendo.

Ma quale azienda spenderebbe dei soldi per portare alla luce le proprie responsabilità negative?

Che, quasi sempre, non sono la conseguenza di effetti inevitabili ma dell’inseguimento di utili e guadagni sempre maggiori per la proprietà.

Ecco il motivo per cui la comunicazione è molto raramente, quasi mai, etica, cioè onesta.

Poi ci sono le situazioni fortunate per un comunicatore, quando le attività promosse e svolte dell’organizzazione per la quale lavora sono socialmente responsabili e quindi i valori e i messaggi comunicati possono coincidere con i comportamenti.

Spesso questa coincidenza è legata a organizzazioni di volontariato. Ma anche il mondo della sanità e dell’istruzione potrebbero potenzialmente essere fonte di una buona comunicazione etica se evitasse di corrompersi per incrementare a dismisura i guadagni o per coprire errori e tutela di interessi particolari.

Un campo dove, teoricamente, la comunicazione potrebbe essere frequentemente etica è la comunicazione pubblica e quella politica.

In entrambi i casi la comunicazione, o meglio i comportamenti da cui far scaturire la comunicazione, dovrebbero essere adempiuti con disciplina ed onore.

Ce lo dice chiaramente la Costituzione: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».

Quindi se un cittadino adempie a una funzione pubblica con “disciplina ed onore” non dovrebbero esserci problemi a comunicare i comportamenti reali, e, quindi, sviluppare una comunicazione etica.

Ma quando entrano in campo giochi di potere o di tutela di interessi di parte questa opportunità si disintegra.

E, ahinoi, politica e amministrazione pubblica sono costantemente sotto la pressione della conquista del potere e della difesa di guadagni particolari.

Alla fine dell’estate in previsione della redazione del Nadef (nota di aggiornamento del documento economico e finanziario) il nostro “signor presidente del Consiglio”, Giorgia Meloni, ha invitato gli alleati a “non superare il livello di guardia”. E questo ci piace e tranquillizza e restiamo in trepidante attesa di sapere con esattezza dove si collocherà l’asticella del livello di guardia.

Un indizio lo ha fornito lo stesso “signor presidente del Consiglio” prima delle ferie quando, allarmata (allarmato?) dal prevedibile e cronico assalto alla diligenza, intimò ai ministri di evitare “misure spot” e di chiedere solo “cose che si possono fare”, confessando così, come chiarisce Marco Travaglio in un suo editoriale, di essersi circondata di una manica di cazzari.

Cose che si possono fare”….

 

Attendiamo di capire se fra le misure che non vanno neppure nominate, visto che non si possono fare, superando il livello di guardia rientrino:

  • il blocco navale,

  • l’abolizione delle accise,

  • la fine della pacchia per l’Europa,

  • il sostegno militare all’Ucraina fino alla vittoria contro la Russia,

  • l’inseguimento degli scafisti in tutto il globo terracqueo.

Oppure il futuro “signor presidente del Consiglio”, in campagna elettorale, poté godere di un “bonus cazzate”…

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