Ormai lo sappiamo da anni. La nostra vita è osservata, misurata, giudicata secondo procedure di tipo algoritmico, ogni volta che, per esempio, si valuta la nostra affidabilità creditizia, il nostro curriculum in vista di una possibile assunzione, le nostre richieste di trasferimento o promozione, le nostre preferenze di consumo. Sono le “Armi di Distruzione Matematica” (ADM) di cui ci parla Cathy O’Neil nell’omonimo saggio (2017): modelli di interpretazione dei dati, non privi di “angoli ciechi” che, lungi da essere neutrali, riflettono le valutazioni e le priorità dei loro creatori: valutazioni e priorità che non sono matematiche, ma umane, arbitrarie, soggettive, eppure potenziate nei loro effetti dalla capacità dei modelli algoritmici di crescere esponenzialmente. A questo proposito la O’ Neil scrive:

La diffusione delle ADM in settori come le risorse umane, la sanità e il sistema bancario – solo per citarne alcuni – sta introducendo norme generali che vengono imposte su di noi quasi in forza di legge. Se qualcuno vi bolla come mutuatario ad alto rischio in base al modello di una determinata banca, il mondo vi tratterà esattamente come tale: un parassita che non paga i debiti, anche se la realtà è completamente diversa. E quando quel modello viene applicato su più vasta scala, com’è accaduto con quello del credito, si ripresenta continuamente nella vita di una persona e stabilisce se è idonea a ricevere un prestito per un appartamento o un’automobile o per essere assunta in un posto di lavoro (O’Neill, 2017, pp. 45-46).

Dunque, siamo già tutti sorvegliati, giudicati, valutati, nostro malgrado. Ma un ulteriore elemento critico si collega strettamente alla precedente osservazione. Gli algoritmi che, come abbiamo visto, ci profilano e ci valutano, funzionano ovviamente con i dati. Viviamo nell’epoca dei Big Data, in quella che, di fatto, è una società del controllo e gli algoritmi sono la struttura portante di questo “Panottico digitale” nel quale i sorvegliati sono attivamente complici dei sorveglianti.

L’odierna società del controllo rinvia ad una peculiare struttura panottica L’esibizionismo e il voyeurismo alimentano la rete come un panottico digitale. La società del controllo si realizza là dove il suo soggetto si denuda non in conseguenza di una costrizione esterna, ma di un bisogno auto-prodotto, quindi là dove l’angoscia di dover abbandonare la propria sfera privata e intima cede al bisogno di esporsi alla vista senza pudore (Han, 2014, p. 78).

Questa sorta di “sindrome di Stoccolma” digitale si lega strettamente alla logica prestazionale da cui il nostro mondo sembra dominato. Gli individui, smarriti nello “sciame digitale” (Han, 2015) che li rende tutti egualmente anonimi, si sforzano di emergere in una gara perenne che, tuttavia, li lascia sempre un passo indietro rispetto alla visibilità tanto agognata. Misurano la propria realtà e il proprio valore in relazione ai like ottenuti sotto a un post di Facebook, a una foto di Instagram, a un video di Tik Tok. Come scrive Vanni Codeluppi: «L’individuo si percepisce sempre più frequentemente non come il frutto di una complessa rete di relazioni sociali, ma solamente come il risultato di ciò che può immettere nella Rete. Pertanto, si sente realmente appagato soltanto se ottiene una certificazione dalla platea che ha davanti rispetto alla sua esistenza» (Codeluppi, 2012, p. 132).

Ma non si tratta solo di narcisismo declinato nei termini della “vetrinizzazione sociale” teorizzata da Codeluppi.

Da un lato la costruzione dell’identità in rete risponde a precisi rituali, in virtù dei quali i nostri account, che definiscono i tratti della nostra presenza sul Web, si trasformano in spazi sacralizzati: il controllo compulsivo della posta elettronica, la necessità della condivisione, l’obbligo di verifica (che si traduce nel dovere di interrogare con reverenza il nuovo oracolo elettronico il quale ci restituirà la media delle opinioni altrui modellata sui nostri convincimenti per via algoritmica dai filtri di personalizzazione) sono riti che ci rassicurano sull’esistenza del mondo e, allo stesso tempo, sulla nostra stessa esistenza e, soprattutto, sul suo valore (Ippolita, 2016). La cosiddetta FOMO (Fears of Missing Out), la paura di essere tagliati fuori così diffusa oggi, risiede esattamente in questo meccanismo.

Dall’altro, le piattaforme sono strutturate in modo da creare dipendenza. Sean Parker, già inventore di Napster e primo presidente di Facebook, nel corso di un’intervista rilasciata nel novembre del 2017, dopo essersi dichiarato “obiettore di coscienza” rispetto a Facebook, ha illustrato in modo esplicito il meccanismo:

The thought process that went into building these applications, Facebook being the first of them, … was all about: ’How do we consume as much of your time and conscious attention as possible? And that means that we need to sort of give you a little dopamine hit every once in a while, because someone liked or commented on a photo or a post or whatever. And that’s going to get you to contribute more content, and that’s going to get you … more likes and comments. It’s a social-validation feedback loop … exactly the kind of thing that a hacker like myself would come up with, because you’re exploiting a vulnerability in human psychology. The inventors, creators — it’s me, it’s Mark Zuckerberg, it’s Kevin Systrom on Instagram, it’s all of these people — understood this consciously. And we did it anyway ( https://www.axios.com/sean-parker-facebook-wasdesigned-to-exploit-human-vulnerability-1513306782-6d18fa32-5438-4e60-af71-13d126b58e41.html, 5/12/2018).

 

Allo stesso tempo, il piacere indotto da questo condizionamento si coniuga con l’obbligo di rispondere alla “mobilitazione totale” (Ferraris, 2015) imposta dal web. Ogni volta che una notifica, una vibrazione, un breve squillo dello smartphone richiamano la sua attenzione, l’utente della Rete si sente obbligato a controllare, a rispondere, a reagire: in qualunque circostanza, a qualunque ora. Scrive Ferraris:

Per quello che abbiamo visto sin qui, il web non è emancipazione ma mobilitazione. Non si limita a fornire ai suoi utenti nuove possibilità informative ed espressive; diviene lo strumento di trasmissione di responsabilità e ordini finalizzati al compimento di azioni. Trasformando ogni contatto in una richiesta che esige una risposta individuale, il web è un grande apparato in cui si lavora senza neppure sapere di stare lavorando. La risposta fondamentale che vuole il web è quella suggerita dallo smartphone quando si digita la s: “Sto arrivando!” (Ferraris, 2015, p. 59).

In altre parole, l’identità in Rete è catturata in un’oscillazione continua fra il polo del piacere dopaminergico e quello della militarizzazione (nel senso di una disponibilità ininterrotta ad ottemperare alle imposizioni che provengono dai nostri device digitali) adombrata da Ferraris. L’impossibilità di sfuggire a questo circolo vizioso e il volontario asservimento al consumismo tecnologico sono il segno evidente che i sistemi di addestramento e condizionamento messi in atto dalla società della prestazione sono assai più efficienti di qualunque altro dispositivo di controllo sia mai stato utilizzato in passato.

Traduciamo queste considerazioni in parole più semplici, che in qualche modo interpretino la nostra esperienza quotidiana. Facebook, X, Threads, TIkTok, Instagram sono ormai diventati i luoghi in cui, pur non contando nulla o quasi, e senza ambire necessariamente allo status di influencer, molti si sentono obbligati a esprimere le loro più o meno giustificate, più o meno competenti opinioni, su qualunque argomento. E, per lo più, non lo fanno in modo cortese e dialogante, ma con tono perentorio e battagliero, qualunque sia il tema. Da qui flame infiniti, nei quali nessuno cede di mezzo millimetro, e si va avanti tentando di avere l’ultima parola: in genere, si vince non per particolari doti di argomentazione e persuasione, ma solo perché l’avversario, a un certo punto, si esaurisce e si stanca di rispondere. Non pochi sembrano addirittura dipendenti da questi meccanismi: se non fanno sapere ai loro contatti e, potenzialmente, all’universo mondo come la pensano, soffrono.

Non solo: siamo continuamente sottoposti all’altrui sorveglianza. L’arma della screenshot delatorio è sempre disponibile. Se ti scappa una sciocchezza o un improvvido «like» (e in questo clima di continua mobilitazione comunicativa, in virtù della quale, se non aggiorni il tuo stato o non commenti l’ultima news sei perduto, invisibile, insignificante, anonimo), di sicuro ci sarà qualcuno che li immortalerà e li diffonderà, per esporti alla gogna pubblica: e se provi a rimediare, cancellando l’imprudente esternazione, sarà anche peggio.

Aggiungiamo la censura dell’algoritmo, che ti bacchetta per colpe che non capisci, o che, più semplicemente non ti pare di avere commesso (ma basta una parola appena appena ardita e il sorvegliante elettronico ti redarguisce e punisce, ovviamente nel modo più crudele, rendendo invisibili o quasi i tuoi post). Che la moderazione sui social non funzioni, o funzioni molto male, è esperienza comune: affidata per lo più a strumenti automatici, allo scopo di contenere i costi, non di rado fallisce, fraintendendo contenuti legittimi e garantendo visibilità virale a notizie false e post offensivi, pornografici o violenti.

Questi meccanismi sono stati ampiamente studiati, ma la consapevolezza del loro reale funzionamento è ben lontana da essere diffusa. E, come dimostrato dagli studi di Walter Quattrociocchi e del suo team, credere di scalfire la polarizzazione e la tribalizzazione dei linguaggi e delle opinioni con le armi spuntate del fact checking e del debunking è illusorio: sono strumenti che rischiano di incancrenire i fenomeni, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, le persone non abitano la Rete per informarsi, ma per essere intrattenute e trovare conferma ai loro giudizi e pre-giudizi (Quattrociocchi W, Vicini A. 2023). Se vengono smentite, anche ragionevolmente, si infuriano. Le piattaforme spingono affinché gli utenti trascorrano più tempo possibile sui social, interagendo con contenuti personalizzati, in linea con le loro credenze e i loro interessi, ovviamente individuati per via algoritmica: per lo più siamo target passivi, e non, come ci illudiamo, protagonisti della nostra comunicazione online. Come si diceva un tempo: «se è gratis, il prodotto sei tu». E, ovviamente, i nostri dati. Da questo punto di vista, conversazioni educate e scambi gentili di opinioni sarebbero controproducenti: Meta è forse più ipocrita di X, che con Elon Musk ha chiaramente sdoganato violenza e disinformazione, ma alla fine la manipolazione è la stessa.

Per questo, sono preoccupata e, pur essendo ancora un’utente attiva dei social, sono sempre meno incline ad esporre pubblicamente le mie opinioni. Non ho tempo da perdere in prevedibili discussioni che si avviterebbero su se stesse, senza arrivare mai a una sintesi. Questo timore, questa esitazione, in passato non mi appartenevano. Oggi la drammaticità della situazione globale che stiamo affrontando, fra guerre, violenze, populismi vecchi e nuovi, tentazioni totalitarie, intolleranza, discriminazione, emergenze di vario tipo e natura, sembrerebbe richiedere a tutti di schierarsi pubblicamente: e per noi, persone comuni, quale migliore palcoscenico dei nostri profili social? Ma i social non sembrano davvero il luogo più consono al dibattito democratico. Forse sono più adatti alla sua parodia.

Invidio la sicurezza inossidabile con cui tutti (o quasi tutti) discettano di tutto. Non mi sento così informata, preparata, competente per risolvere non dico i problemi del mondo, ma nemmeno quelli della mia città. Lo dico con un certo sconforto: a volte ho l’impressione che non si tratti più di affrontare la complessità, ma di sopravvivere al caos, senza farsi troppo male e mantenendo un minimo di coerenza e onestà intellettuale. Ma poi, a che pro? Non sto predicando l’ignavia o il silenzio, intendiamoci. Mi chiedo, tuttavia, a che cosa serva questo surrogato di democrazia, in cui ci si sente in obbligo di parlare e straparlare, senza un vero dialogo o un confronto che possa essere minimamente costruttivo (non di rado in spregio alle più elementari regole della sintassi e dell’ortografia). Dunque, mi sottraggo: perché non si tratta più di confrontarsi con la passione altrui (essere appassionati è cosa buona e giusta), piuttosto di difendersi dall’aggressività, se non addirittura dalla violenza degli interlocutori.

Credo, tuttavia, di non essere la sola. Avverto una trasformazione: si tratta di una sensazione e non parlerei, come ogni tanto, periodicamente, accade, di «fuga dai social»: per il momento, è difficile sottrarsi. Ma ho l’impressione che esista una fetta di utenti, non esattamente quantificabili, che, molto semplicemente, preferiscono il ruolo di spettatori silenziosi, rifiutando la richiesta di mobilitazione totale di cui parlava Ferraris qualche anno fa. Stanno nello sciame, ma ai margini. Non si manifestano, sono invisibili, ma questo non significa che non possano far valere altrove le loro ragioni, magari laddove l’effetto non sia il mero spreco di parole. Sono gli (apparentemente) indecisi, quelli che ai sondaggi “non sanno, non rispondono”, che evitano di tuffarsi nell’ultima polemica virale, che sono guariti dalla già citata sindrome FOMO, o non l’hanno mai contratta: interlocutori trascurabili per stakeholders, opinion makers ed influencers, ma difficilmente inquadrabili (e profilabili). E non sono necessariamente lurkers tradizionali: magari in passato sono stati attivi e partecipi, hanno interagito e condiviso, ma proprio l’esperienza e una maggiore consapevolezza li hanno convinti che forse defilarsi era l’opzione migliore. Forse non esistono, o sembrano solo presenze evanescenti, nei luoghi social dove apparentemente si gestiscono e si costruiscono opinioni e consenso: in realtà ci sono, scelgono, si informano, interagiscono, comprano, votano. Se il loro numero aumentasse (per stanchezza, per noia, per disgusto rispetto alla Babele comunicativa nella quale ci imprigionano certi atteggiamenti indotti), le conseguenze potrebbero non essere così facilmente prevedibili. Nel bene e nel male.

Bibliografia

Codeluppi V. (2012). Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente. Roma-Bari: Laterza.

Han B.-C. (2014). La società della trasparenza. Roma: Nottetempo.

Han B.-C. (2015). Nello sciame. Visioni del digitale. Roma: Nottetempo.

Ippolita (2016). Anime elettriche. Riti e miti social. Milano: Jaca Book.

Ippolita (2017). Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale. Milano: Meltemi.

Ippolita (2018). Il lato oscuro di Google. L’informatica del dominio. Milano: Milieu.

O’Neill C. (2017). Armi di distruzione matematica. Come i big data aumentano la disuguaglianza e minacciano la democrazia. Milano: Bompiani.

Quattrociocchi W., Vicini A. (2023). Polarizzazioni. Informazioni, opinioni e altri demoni nell’infosfera. Milano: Franco Angeli.