Questa fu la sfida alla quale si trovò di fronte James Burke, presidente della società farmaceutica Johnson & Johnson, quando apprese che un bambino e sei adulti nell’area di Chicago erano morti per avvelenamento dopo aver ingerito del Tylenol.
A quanto pareva, qualcuno aveva aggiunto alle capsule del cianuro e poi le aveva rimesse negli scaffali. Il Tylenol era per la società il prodotto più redditizio, occupando oltre il 35 per cento del mercato degli analgesici di largo consumo. Sorse il problema se ritirarlo da tutto il paese.
Molti esperti entro e fuori della società misero in guardia contro una simile decisione, argomentando che gli incidenti erano limitati alla sola area di Chicago e che l’avvelenamento non era dipeso da Johnson & Johnson.
Ma Burke e i suoi collaboratori sapevano esattamente che cosa fare. Ordinarono che l’intera fornitura del prodotto venisse ritirata dagli scaffali delle farmacie e dei drugstore e inoltre offrirono di scambiare tutte le capsule di Tylenol in possesso delle famiglie con del Tylenol in compresse. Questa sola decisione, presa quasi su due piedi, costò alla società decine di milioni di dollari. In effetti, la società disse No a continuare a vendere il Tylenol finché non fu assolutamente sicura che avrebbe potuto garantire l’incolumità dei suoi clienti.
Da dove veniva questo No coraggioso e illuminato?
Come Burke e i suoi colleghi spiegarono poi, veniva direttamente dall’aver consultato il credo della società, scritto quarant’anni prima dal suo illuminato direttore generale Robert Wood Johnson:
«Noi crediamo che la nostra prima responsabilità sia verso i medici, le infermiere e i pazienti, e verso le madri e i padri e tutti coloro che usano i nostri prodotti e i nostri servizi».
I profitti erano importanti, ovviamente, ma venivano dopo la salute e l’incolumità dei clienti. Conoscendo e condividendo questi valori essenziali, ognuno in quella società sapeva che cosa fare e senza esitazione optò per il ritiro.
Come andò a finire? A onta della saggezza convenzionale, secondo la quale non ci sarebbe stato modo per il marchio Tylenol di riprendersi dal disastro, il Tylenol venne rilanciato entro qualche mese, sotto lo stesso nome, in un nuovo contenitore a prova di manomissione e realizzò una sbalorditiva ripresa nelle vendite e nella quota di mercato.
Quello che si sarebbe potuto agevolmente risolvere per Johnson & Johnson in una disastrosa perdita di fiducia del pubblico divenne agli occhi del pubblico una conferma dell’integrità e della credibilità dell’azienda.
*** William URY, 1953, antropologo e saggista statunitense, Il No positivo. Come negoziare un accordo senza rinunciare ai propri obiettivi, 2007, Corbaccio, 2007, traduzione di Aldo Giobbio, estratto, pp. 53-54.
William Ury ha co-fondato lo Harvard Program on Negotiation e ha collaborato alla fondazione dell’International Negotiation Network con l’ex President Jimmy Carter. E’ coautore con Roger Fisher di Getting to Yes, tradotto in italiano con il titolo L’arte del Negoziato (Corbaccio, 2019).
Anche in ‘narratur-in1pagina’ (pubblicazione via email a circolazione riservata a cura di M. Ferrario), #360, 26gen24).
(NB: titolo del testo non scelto dall’Autore e formattazione in più paragrafi rispetto all’originale).
MA L’ETICA ‘PAGA’? (mf)
Un tempo girava uno slogan, che campeggiava anche sulle copertine di libri manageriali: l’etica paga. Nel senso che, si ripeteva, essere etici, anche per un’impresa e non solo per i singoli, conviene.
Qualcuno, timidamente, sollevava il dubbio che se si segue l’etica solo perché fa fare profitti, forse non è più etica. Ma era il solito filosofo accusato di navigare tra le nuvole e veniva subito zittito dagli ‘eticisti’ che potremmo chiamare ‘realisti’. I quali spiegavano: non importa perché sei etico, quel che conta, a maggior ragione in un mondo in cui l’unica missione di un’impresa è fare profitto, ogni giorno incrementandolo con ogni modalità possibile, illegalità compresa, è che ‘ti comporti’ in modo etico, anche se nell’‘anima’ non lo sei.
Cioè: in mancanza dell’‘essere’ etici, accontentiamoci dell’‘apparire’ etici: guardiamo ai risultati, senza pretendere che siano dettati da una pura e immacolata intenzione etica.
E quindi, per capirci meglio: inondiamo le imprese con i nuovi ‘credo’ aziendali ispirati all’etica e poi facciamo in modo che questi credo (tutti eguali e scopiazzati anche con il contributo di consulenti che giurano sulla loro personalizzazione e originalità) vengano adottati come criterio-guida, indipendentemente dal fatto che management e dipendenti davvero ‘credano ai credo’, perfino scritti a caratteri cubitali sulle pareti accanto ai tornelli di entrata/uscita delle magnificenti sedi delle multinazionali.
E’ una logica forse poco etica, ma con un suo fascino realistico. Peccato che in pratica fatichi a reggere, quando non fallisca decisamente, se non è ancorata ad un valore che faccia da orientamento generale: quello del medio-lungo termine, che deve prevalere su ogni altra ottica temporale.
Perché quando a Milano si dice “se la va, la g’ha i gamb” (proverbio la cui eticità è comprensibile anche a chi non sa il milanese), capiamo subito che la chiusura nel brevissimo termine, con i risultati economici sempre invocati come ‘tanti’, anche ‘maledetti’, ma soprattutto ‘subito’, esclude qualunque aspirazione all’etica: perché invita, anzi, platealmente incita, al malaffare e all’inganno del cliente (ovviamente sempre a parole dichiarato al centro dell’interesse aziendale).
E il mito delle trimestrali, intese come tagliole sacre per decidere il successo o l’insuccesso dell’impresa, non va certo nella direzione di aiutare l’etica: tra queste e i ‘credo etici’ sono queste il vero credo per nulla etico.
Il caso sopra riportato dimostra che l’etica ‘può pagare’ (ma non è un automatismo garantito), soltanto quando ricorrono almeno due forti condizioni.
- Quando, al top dell’azienda, l’etica è stata veramente introiettata e il credo aziendale non è uno spot pubblicitario buono per ‘far credere’, ma un criterio comportamentale serio e preciso in cui convintamente ‘si crede’.
- Quando l’azienda si è obbligata a guardare lontano e ha fatto di ciò la sua ‘cultura profonda’: aspira a un pensiero strategico frutto di una visione ‘larga-e-lunga’ e ha soprattutto come sua ragion d’essere, per durare il più possibile nel futuro più lontano, lo ‘sviluppo ecologico’ di se stessa nel contesto in cui vive.
Fuori dal meschino calcolo monetario giornaliero, più bottegaio che manageriale, dei vantaggi e degli svantaggi immediati e dentro l’equilibrio prodotto da un orientamento in cui gli ‘stakeholder’ prevalgono sugli ‘shareholder’.
Dunque l’etica ‘paga’ (‘può’ pagare) solo quando è etica: nelle intenzioni. Quando è ‘anima’, non ‘marketing’.
Quando è un fine, non un mezzo.
Quando aziende e persone, pur di essere etiche, mettono in conto di poter non essere (ri)pagate. Neppure dall’etica.