Ho precisi ricordi della mia prima esperienza di lavoro: C.G.E., una grande fabbrica di motori, trasformatori, impianti elettrici industriali di grandi dimensioni, Milano in via Borgognone 34, anno 1960. La fabbrica era quella «dura», del lavoro pesante, con i battilastre che usavano una grossa mazza, a torso nudo, madidi di sudore; si respirava la fatica. La fabbrica del cottimo, con tempi e metodi che venivano regolarmente tagliati, con il visibile sfruttamento del lavoro e con il sabotaggio da parte dei crumiri, che forzavano il ritmo degli altri. La fabbrica del potere dei piccoli capi, che usavano il biglietto di ammonizione per ritardi o per piccole inadempienze solo a carico di coloro – si diceva – che non facevano i «leccapiedi». Oggi parliamo di «mobbing», ma allora c’era il famoso «reparto zero», in cui indesiderati politici o altri tipi di «lavativi» venivano confinati a fare lavori inutili. Oggi parliamo di «molestie sessuali» se un complimento è un po’ ardito, ma allora si facevano battute sullo «ius primae noctics» di alcuni grandi capi, e sul conosciuto abuso di qualcuno in fabbrica di giovani operaie nei gabinetti. La discriminazione politica e anti-sindacale era una norma; per i nuovi assunti c’era l’accertamento degli ex carabinieri in pensione, che presentavano un rapporto sulle propensioni politiche dei candidati, con un sottile distinguo tra gli appartenenti «al partito dell’ordine», quelli del «partito di centro», quelli dei «partiti democratici», e tutti gli altri che non venivano assunti. Poi c’era la storica divisione tra operai e impiegati, gli uni perché usavano le mani, gli altri perché usavano la penna; e la distinzione non era solo di classe sociale, ma di diritti contrattuali, di distanze retributive, di privilegi assistenziali. Per me c’era una decisione drammatica da prendere: ogni volta che si liberava una posizione da impiegato di magazzino, che si limitava a riempire a mano moduli di consegna dei materiali, ma veniva inquadrato nella qualifica di impiegato, era giusto mettere il più meritevole degli operai specializzati, aggiustatori o tracciatori, sprecando 20 anni di esperienza e di competenza, o era giusto mettere qualunque altro molto meno meritevole, come il buon senso suggeriva, ma commettendo una iniquità? Ho altri precisi ricordi della mia prima esperienza di consulente: in Fiat, corso Marconi, alla Direzione generale, Torino, anno 1972. La fabbrica era quella del grande anonimato. La catena di montaggio era assolutamente dominante, ogni operaio era identificato con un numero di matricola, si visitava la fabbrica su un pulmino che attraversava i reparti con i visitatori a bordo, e gli ampi vetri trasparenti consentivano di cogliere appieno il senso dell’anonimato. Dal Direttore di stabilimento all’operaio si contavano nove livelli gerarchici, ma i gradi – sommando quelli della produzione e quelli del commerciale – ammontavano a ventisette. Sulla porta della sala riunione c’era la scritta «sala rapporto», secondo la tradizionale prassi militare, dove andare a una riunione per un ufficiale voleva dire «andare a rapporto». In effetti così era, anche per le riunioni di vertice: ogni Direttore di Stabilimento faceva rapporti sulla sua situazione; si parlava a turno, solo se esplicitamente interrogati. Il senso della gerarchia era visibile ovunque, compreso il saluto militare sull’attenti, con la mano alla visiera del cappello delle guardie al passaggio della macchina del Direttore. La mia prima esperienza di consulente in banca arriva più tardi: Credito Italiano, Milano, piazza Cordusio, 1975. Nasceva la scuola di Lesmo, come grande segno di innovazione e di cambiamento. Lo era davvero, senza alcun dubbio, nelle intenzioni e nei programmi, in una banca che anche allora aveva nel Dna sani principi che oggi diremmo di qualità. La modernità poi era che – per progettare i diversi corsi di formazione, mutuando l’esperienza di altre banche in Europa – oltre i contenuti – si volevano le metodologie didattiche; e per questo ci volevano i consulenti. Il grande Direttore – per inserire i consulenti – decise che bisognava fare una riunione di presentazione della Banca: Lui era in piedi, con un leggio davanti, e aveva un Direttore a destra con il compito di voltare le pagine da leggere, e un Direttore a sinistra per tenere in mano un bicchiere di acqua per l’occasione. L’organigramma presentato dalla banca aveva tutte le Direzioni centrali in caselle molto grandi, mentre le Filiali erano piccole piccole, tutte insieme, in fondo al foglio. Non si capiva bene da chi dipendessero e – a specifica domanda – la risposta fu che dipendevano da tutti – perché il Personale dipendeva dal Personale centrale, i crediti dai crediti, lo sviluppo dallo sviluppo, l’estero dall’estero e così via. Ci fu detto che la formazione doveva trasferire le «conoscenze» e per questo ci furono consegnati 102 fascicoli di norme e procedure, tutte da imparare. La prima volta che fu fatto un Seminario, ai partecipanti fu data una cartelletta e – per massima attenzione – fu nominativamente intestata alle persone; nessuno scrisse sul blocco di appunti della medesima, temendo che fosse ritirato, per vedere cosa ciascuno aveva scritto.
**** Ulderico CAPUCCI, 1936, consulente di direzione e formatore, Il giusto e il conveniente, Guerini e Associati, 2007, estratto pp. 22-23. Anche in ‘narratur-in1pagina’ #376, 19feb24.
Ulderico Capucci, cofondatore della società di consulenza Tesi, che è stata un riferimento per la formazione manageriale a partire dagli anni ‘70, ha un’esperienza consulenziale quarantennale. Saggista di vari testi sul management, è stato presidente di AIF, associazione italiana dei formatori, dal 2003 al 2006 ed è socio onorario di Assoconsult.
UN MONITO PER L’OGGI (mf)
L’autore di questo ‘racconto-in-tre-episodi’ è tra i protagonisti della storia della consulenza italiana in tema di ‘sviluppo organizzativo’: ha progettato, e anche direttamente condotto, in centinaia di imprese, italiane e multinazionali, in modo denso, intenso e continuo, la formazione manageriale e professionale di centinaia di ‘persone’ (era un’epoca in cui le ‘persone’ si chiamavano ancora così: poi sono arrivate le ‘risorse’, più o meno ‘umane’, e oggi siamo tutti ‘pedine’). I suoi ricordi, che oggi paiono rivolti a un’epoca preistorica, indulgono al sorriso, per quanto amarognolo. So che non c’è bisogno di alcuna conferma, ma io, che sono della sua stessa generazione, e iniziavo negli anni 70 a svolgere lo stesso mestiere in realtà diverse, posso testimoniare che ho assistito a episodi simili a quelli qui raccontati e che questo, allora, era l’andazzo prevalente.
Ogni tanto, guardare indietro, serve: per avere consapevolezza della strada percorsa e, in alcuni momenti di fermo o addirittura di regressione di valori e pratiche (scegliete voi come siamo messi oggi), rendersi conto che la ‘cultura di impresa’, perché evolva (quando e se la si vuole far evolvere: cosa non scontata), richiede una fatica continua: che talvolta richiama il masso di Sisifo. Qualcuno, in passato, ha considerato la dimensione ‘cultura’ una ‘sovrastruttura’ rispetto alla materialità strutturale dell’economia e delle condizioni produttive e di lavoro. Nel mio piccolo, senza nulla togliere alla grandezza di chi questo sosteneva (l’odiato-amato Carlo Marx), durante i miei quasi quarant’anni di consulenza sul campo in qualche centinaio di imprese, ho verificato che il cemento armato è più malleabile dei valori e delle prassi che costituiscono un’azienda. E che anche per questo i cambiamenti, quando magicamente si riescono a indurre, magari mettendo in atto tutte le regole di ‘buone prassi’ ormai note a ogni esperto, si rivelano troppo spesso più di facciata che di sostanza: perché la forza della tradizione abitudinaria (‘abbiamo sempre fatto così’), unita al timore verso ogni novità, produce una resistenza spesso insuperabile e ingovernabile.
Certo: comunque qualcosa è cambiato. Forse anche più di qualcosa. Ma stiamo sempre attenti a tener ben ferma la distinzione forma-sostanza. Oggettificazione e sfruttamento, al di là della retorica da convention che ormai da anni spande melassa attorno all’‘uomo al centro’ (lo si ripete, come un mantra, per esortare le organizzazioni ad avere a cuore l’interesse e il rispetto di quei ‘collaboratori’ ieri non a caso chiamati ‘dipendenti’, oppure per colpire meglio le persone quando sbagliano o non servono più?), c’erano un tempo e restano oggi: più vivide che mai. E’ vero. Fino a qualche decina di anni fa, l’enfasi anche formativa che ha investito in crescendo una quantità enorme di imprese, con seminari, corsi addirittura modulari, di lunga durata e, naturalmente, ‘in presenza’ (ieri era tutto e solo ‘in presenza’, perché mancava l’alternativa ‘virtuale’ e la ‘toccata-e-fuga’ di mezza giornata o l’informazione da remoto, via computer, oggi spacciate per formazione, ieri suscitavano fondate critiche: se possono avere una funzione, si diceva, difficilmente hanno una funzione ‘formativa’) ha prodotto un cambio manageriale di ‘stile’ anche significativo: più partecipativo e meno autoritario, più coinvolgente e meno top-down. Questo cambio di approccio, che giustamente fa sembrare intollerabili certi vecchi tempi ricordati da chi ha più anni addosso, è riuscito spesso a intaccare la pelle dura delle aziende culturalmente più gerarchizzate e meno disposte a dare voce e, ohibò, pure opportunità di ‘empowerment’, non solo a professional, ma pure a manager, perfino a livello top. Eppure oggi, in molte realtà, la forma del potere che prevale, al di là delle belle e buone parole, è tornata sbrigativa, violenta, prepotente: e basti pensare al cinico ‘usa-e- getta’, che si esprime in licenziamenti addirittura via email e via social. Alla Elon Musk: per intenderci. In Italia e non solo negli Usa, peraltro sempre presi ad esempio del ‘buono e del giusto’. Insomma: difficile non registrare oggi uno stallo, se siamo ottimisti, o addirittura una regressione preoccupante, se cerchiamo di essere realisti.
E’ anche per questo che la testimonianza di Ulderico Capucci può essere utile. Perché se è vero che indietro non si torna, dato che i contesti cambiano ed esigono, quanto meno, ‘forme’ differenti, talvolta anche più dolci e suadenti, in cui si afferma il Potere, è pur vero che sapere come si era in passato può rappresentare un indispensabile monito per evitare che il futuro gli assomigli.
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